Abusiva timbratura del badge tra inoffensività per irrilevanza economica del danno e non punibilità ex 131-bis

Gemma Zamagna
30 Agosto 2018

In tema di truffa ai danni dello Stato, derivante dall'abusiva timbratura del badge di servizio da parte di un dipendente pubblico, la scarsa rilevanza del danno economico cagionato alla P.A. non esclude l'offesa tipica e quindi la sussistenza del reato, in quanto il fatto realizza di per sé una seria lesione del rapporto fiduciario tra le parti, tanto più grave quando la condotta è reiterata.
Abstract

In tema di truffa ai danni dello Stato, derivante dall'abusiva timbratura del badge di servizio da parte di un dipendente pubblico, la scarsa rilevanza del danno economico cagionato alla P.A. non esclude l'offesa tipica e quindi la sussistenza del reato, in quanto il fatto realizza di per sé una seria lesione del rapporto fiduciario tra le parti, tanto più grave quando la condotta è reiterata.

In tema di truffa ai danni dello Stato, derivante dall'abusiva timbratura del badge di servizio da parte di un dipendente pubblico, la reiterazione della condotta esclude la ricorrenza di un'ipotesi di particolare tenuità del fatto, rilevante ai fini della dichiarazione di non punibilità ex art. 131-bis c.p.

Il caso

Il procedimento trae origine dalle indagini – ormai sempre più frequenti al cospetto del malcostume diffuso nelle PP.AA. – svolte nei confronti di numerosi dipendenti pubblici impiegati presso un'Asl a seguito di accertati irregolari allontanamenti dal luogo di lavoro dopo le timbrature del badge di servizio. In alcuni casi, le timbrature venivano effettuate da un dipendente per conto di un altro al fine di far apparire la fittizia presenza sul posto di lavoro. Ciò, tra l'altro, rende conto dell'insufficienza dell'uso del badge come sistema di controllo, ma non sembra che le PP.AA. e gli enti equiparati o comunque equiparabili, come le Asl, ne vogliano prendere atto.

La sentenza di primo grado aveva condannato gli imputati per truffa aggravata continuata in ragione dei plurimi episodi di timbrature abusive. La Corte di appello aveva parzialmente modificato la sentenza di primo grado, con riguardo alle posizioni di alcuni imputati, confermando nel resto le condanne.

La decisione della Corte di cassazione

La Corte di cassazione (sentenza n. 22972/2018), nel confermare la decisione impugnata, è sollecitata dai motivi di ricorso a soffermarsi sulla concreta offensività del reato contestato e sull'applicabilità a esso della causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 131-bisc.p., invocando detti motivi un'offensività minima e perciò innocua di ciascun singolo episodio, idonea ad eliminare l'antigiuridicità penale del fatto e comunque a determinarne la non punibilità.

La Corte respinge integralmente le doglianze.

Anzitutto esclude «l'inoffensività della condotta intesa come mancata realizzazione di alcun danno patrimoniale», argomentando che il fatto è offensivo e, quindi, è integrato l'elemento oggettivo del reato. Nello specifico, ritiene che il fatto realizzi una lesione del rapporto fiduciario tra le parti. Invero, non si deve considerare esclusivamente la «singola occasione» ma occorre focalizzare l'attenzione sul vantaggio e sul danno conseguenti alla reiterazione delle condotte poste in essere. Sul punto le assenze sul posto di lavoro rilevano come preordinate ad ottenere «ripetuti benefici», eludendo frazioni di tempo-lavoro (par. 4.1.3).

Con riferimento, poi, all'applicabilità dell'art.131-bisc.p. (par. 4.2), la Corte condivide la posizione dei giudici di merito nel ritenere la necessità dei due «indici-criterio rappresentati dalla particolare tenuità dell'offesa e dalla non abitualità del comportamento», da valutarsi in rapporto all'incidenza della reiterazione delle condotte, giungendo alla conclusione di non riconoscere gli imputati meritevoli della concreta applicazione della menzionata causa di non punibilità.

Analisi critica

Sotto il primo profilo, ossia l'offensività della condotta, affinché il reato sussista, occorre puramente e semplicemente che sia integrata l'offesa al bene giuridico, quale oggetto della tutela penale, che, secondo l'interpretazione della dottrina, deve costituire il momento centrale dello scopo della proposizione normativa. Limitando all'essenziale i riferimenti, viene in rilievo l'elaborazione, oltreché di PAGLIARO, Bene giuridico e interpretazione della legge penale, in Studi Antolisei, Vol. II, Giuffrè, 1965, pagg. 391 ss., giustappunto ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, 2003, pag. 182, secondo cui «esiste una notevole tendenza a sostituire alla nozione tradizionale di oggetto di tutela penale quella di scopo della norma (la ratio dell'incriminazione), la quale ci offre senza dubbio una guida più sicura e più completa nell'interpretazione della legge». È sempre dell'Autore testé richiamato la diffusa «concezione giuridica» dell'evento, a termini della quale l'evento consiste nell'offesa dell'interesse protetto dal diritto. In questo modo, l'evento coincide con il «danno criminale» e sussiste anche nelle ipotesi di reati di mera condotta e non solo in quelli di evento in senso naturalistico. Sul punto, con accenti diversi, merita di menzionare anche MORSELLI, Disvalore di evento e di condotta, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1991, pag. 834 ss., che ricollega l'offesa al bene giuridico al disvalore della condotta e non a quello del risultato realizzato.

Nel caso della truffa aggravata ai danni dello Stato, il Legislatore ha perfino previsto un aggravamento della pena in considerazione della protezione al patrimonio pubblico, facendo il reato venir meno il rapporto di fiducia tra la P.A. datrice di lavoro ed il dipendente.

Per vero, la Corte non si limita a esaminare soltanto il punto in sé della pretesa esigua entità del danno patrimoniale cagionato all'ente pubblico ma estende l'analisi sulla capacità di ciascuna singola condotta delittuosa e a fortiori su tutte nel complesso di incidere negativamente sulla globalità della sfera di interessi della P.A. In tale prospettiva, l'entità del danno cagionato a questa rappresenta soltanto uno degli elementi, ma sicuramente non l'unico, da cui emerge la gravità obiettiva del fatto criminoso, secondo i parametri indicati dall'art. 133 c.p., tra i quali sono indicati «la natura, la specie, i mezzi, l'oggetto, il tempo, il luogo ed ogni altra modalità dell'azione».

Nel caso che ne occupa, è stata dai Giudici di merito accertata l'offensività in concreto della condotta, ritenuta – secondo l'orientamento costante nella giurisprudenza costituzionale (cfr., icasticamente, Corte cost., sentenza n. 360 del 1995, depositata il 24 luglio 1995, par. 8, in merito alla rilevanza penale della coltivazione di piante da cui possono essere estratte sostanze stupefacenti), idonea a ledere il bene giuridico protetto.

(Segue). L'ipotesi di truffa aggravata ai danni dello Stato in rapporto alla disciplina del rapporto di lavoro pubblicistico

A valorizzare il ragionamento della Corte, valga rammentare come il rapporto di lavoro con un ente pubblico sia regolato dal d.lgs.165/2001, recante il testo unico sul pubblico impiego, il quale assegna agli organi preposti alla gestione dello stesso le capacità e i poteri del “privato datore di lavoro” (art.2,comma1, ). Si tratta della c.d. privatizzazione integrale, ai sensi dell'art.5,comma2, degli atti di micro-organizzazione e di gestione, equiparati agli atti adottati dai soggetti privati nell'esplicazione dei poteri del datore di lavoro privato (cfr. CARINGELLA, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2012, pag. 729). Il successivo art. 54 prescrive che «il Governo definisce un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni al fine di assicurare la qualità dei servizi, la prevenzione dei fenomeni di corruzione, il rispetto dei doveri costituzionali di diligenza, lealtà, imparzialità e servizio esclusivo alla cura dell'interesse pubblico».

Pertanto, accanto ai parametri, espressamente previsti dall'art. 97Cost., di imparzialità e buon andamento della P.A., il rapporto di lavoro è improntato al rispetto degli obblighi nascenti dal contratto di lavoro subordinato di diritto comune, tra i quali espressamente la diligenza nello svolgimento della prestazione lavorativa e la fedeltà ex artt. 2104 e 2105c.c. Vengono poi in rilievo le norme di cui al regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo54deldecretolegislativo30 marzo 2001,n.165, che, dopo aver ribadito i principi costituzionali su cui si fonda l'attività amministrativa, prescrive che il dipendente eserciti la propria funzione, «perseguendo l'interesse pubblico senza abusare della posizione o dei poteri di cui è titolare», nel rispetto di «integrità, correttezza, buona fede, proporzionalità, obiettività, trasparenza, equità e ragionevolezza», e agendo in posizione di indipendenza e imparzialità (art. 3, commi 2 e 3). Il regolamento prevede inoltre che il dipendente si conformi ai principi dell'efficienza dell'azione amministrativa, attraverso una gestione delle risorse pubbliche nella logica del contenimento dei costi, in modo da non pregiudicare la qualità dei risultati.

In buona sostanza, il dipendente pubblico deve compiere il proprio dovere, senza sprecare le risorse di cui dispone, che sono risorse pubbliche.

L'equiparazione – in punto di svolgimento disciplinare – del rapporto di lavoro pubblico a quello privato, in uno alla specifica regolamentazione che attiene pur sempre allo stesso per le peculiarità che lo contraddistinguono, riempie dettagliatamente di contenuto, non soltanto la già richiamata prescrizione per così dire “organizzativa” dell'art. 97 Cost., ma anche, e soprattutto, quella “individuale” dell'art. 54, comma 2, Cost., secondo cui il dipendente pubblico non è un cittadino qualsiasi e non è un dipendente qualsiasi, in quanto la sua qualifica pubblicistica gli impone (non l'obbligo ma) «il dovere di adempier[e le funzioni] con disciplina ed onore».

Talché le condotte truffaldine del dipendente pubblico, come quelle sottoposte alla cognizione della Corte nel caso che ne occupa, sono suscettibili di valutazione alla stregua di violazioni uno acto di una pluralità di veri e propri ‘obblighi' conformanti il modello organizzativo della P.A. e nel contempo del ‘dovere' fondamentale di adempimento delle funzioni con disciplina e onore: la previsione dei primi, anche attraverso l'eterointegrazione per effetto del richiamo delle previsioni civilistiche, riempie di contenuto le astratte enunciazioni costituzionali, stroncando sul nascere disquisizioni volte a ritenere l'impossibilità di derivare da queste conseguenze penali.

Alla luce di tale retroterra normativo devono leggersi le condivisibili parole con cui la Corte rimarca l'idoneità del commesso reato, anzi, a voler essere precisi, dei commessi reati, in sé e per sé, a determinare la rottura della fiducia che, nel rapporto di lavoro, l'ente ripone (recte, poiché l'ente non sceglie il dipendente ma lo seleziona, deve riporre) sul dipendente (par. 4.1.3, 3° c.p.v.: «Tale condotta è apparsa ragionevolmente corrispondere a un programma di più ampio periodo, necessario del resto per realizzare una concreta utilità della condotta»). In tal senso, nella pacifica sufficienza già della prima condotta ad integrare il reato, rileva vieppiù la reiterazione della stessa nel tempo sub specie dell'habitus manifestato dal dipendente alla frode, e, quindi, dell'intenzione precipua e comunque assorbente del medesimo di conseguire (soltanto) il suo tornaconto con aggravio economico per l'ente, senza dare alcuna considerazione all'interesse pubblico.

Sia consentito di far rilevare che la rottura del rapporto fiduciario è l'elemento che accomuna il diritto penale e il diritto amministrativo. Invero, a conclusione di un'opera moralizzatrice delle PP.AA. cominciata con la c.d. riforma Brunetta (che ha trovato attuazione con il d.lgs. 150/2009) e proseguita con la c.d. riforma Madia (che ha trovato attuazione, tra l'altro, con i d.lgs. 75/2017 e d.lgs. 118/2017), l'art. 55-quater d.lgs. 165/2001, in tema di licenziamento disciplinare, codifica le false attestazione della presenza in servizio ovvero giustificazione dell'assenza dal servizio come la prima delle dieci ipotesi codificate cui “comunque” si applica la sanzione più grave (fermo restando che dette ipotesi non integrano un numerus clausus, ma indicano soltanto quelle rispetto alle quali la contrattazione collettiva mai può derogare alla sanzione di cui si tratta).

Nell'ottica illustrata, dunque, del tutto marginale è l'entità del danno viepiù solo patrimoniale effettivamente subito dall'ente nella perpetrazione della singola offesa; infatti, «la scarsità del danno potrebbe astrattamente essere valutata al fine delle varie conseguenze della tenuità, ma non [già] per escludere l'integrazione del fatto tipico per assenza di offensività» (par. 4.1.3, 2° c.p.v.). La condotta realizzata risulta ex se in contrasto con i principi di efficienza, efficacia ed economicità della P.A. e tanto basta.

(Segue). La lievità del fatto nella prospettiva propriamente penalistica

Le argomentazioni della Corte trovano supporto in altre disposizioni normative che contemplano la lievità del fatto soltanto ai fini della riduzione della pena comminata e mai ai fini dell'esclusione della rilevanza penale del fatto.

Si tratta di circostanze attenuanti speciali che, pertanto, nella sistematica del reato, non incidono in alcun modo sull'oggettività del fatto ma solo sulla quantificazione in diminuzione, secondo il prudente ed in definitiva discrezionale apprezzamento del giudice, della pena.

Tra le svariate ipotesi, può accennarsi a quella contemplata dall'art. 311 c.p., che prevede l'applicazione di una diminuente per i reati del titolo I del libro secondo (delitti contro la personalità dello Stato), se il fatto è di lieve entità, avuto riguardo a «la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo».

Mette conto di ricordare che la Cortecostituzionale,con sentenza del 23 marzo 2012, n. 68, ha dichiarato incostituzionale l'art. 630 c.p. sul sequestro di persona nella parte in cui non prevede l'applicabilità di una circostanza attenuante pari all'art. 311 c.p., quando il fatto risulti di lieve entità. In particolare, la Corte delle leggi ha operato un confronto tra l'art. 630 c.p. e l'art.289-bis c.p., cui è applicabile l'art. 311c.p., per desumere l'irrazionale carenza di una disposizione analoga al sequestro di persone a scopo di terrorismo o di eversione. Dopo aver appurato che le due fattispecie delittuose differiscono rispetto al bene giuridico [«A fianco della comune lesione della libertà personale del sequestrato, il sequestro terroristico o eversivo offende, infatti, secondo una corrente lettura, l'ordine costituzionale (usualmente identificato nell'insieme dei principi fondamentali che nella Carta costituzionale servono a definire la struttura e la natura dello Stato); il sequestro estorsivo attenta, invece, al patrimonio” ], conclude che è manifestamente irrazionale la mancata previsione, in rapporto all'art. 630c.p., di un'attenuante per i fatti di lieve entità, analoga a quella applicabile alla fattispecie “gemella” che aggredisce l'interesse di rango più elevato (par. 5, pag. 14). In tale contesto, emerge la funzione assolta dall'attenuante, consistente nel “mitigare – in rapporto ai soli profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell'azione criminosa, entità del danno o del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza» (par. 5, pag. 15)].

A mente dell'insegnamento della Corte delle leggi, dunque, in questo caso, il Legislatore ha fondato la circostanza attenuante su un'entità lieve del fatto, da riguardarsi esclusivamente sotto il profilo obiettivo, individuando una serie di indici per accertarla, tra cui figura anche, ma non solo, la particolare tenuità del danno o del pericolo che siano derivati dalla condotta. La dottrina osserva che l'art. 311 c.p., insieme ad altre disposizioni di parte generale e di parte speciale, prende in considerazione l'intensità dell'offesa in termini di circostanza attenuante del reato, valorizzandola sostanzialmente negli stessi termini dell'art.131-bisc.p. già prima della sua introduzione (SALERNO, Il sistema del diritto penale, Vol. 1, I principi generali del diritto penale, Roma, 2017, pag. 345). Siffatto punto di vista, probabilmente centrato rispetto alle valutazioni pratiche, passa tuttavia attraverso la strettoia di considerare la lieve entità come tenuità viepiù particolare del fatto. Ad ogni modo, è pacifico che l'art. 311 c.p. codifichi soltanto una circostanza attenuante speciale, da esaminarsi con riguardo ad un intero gruppo di reati (ANTOLISEI, op.cit., pag. 444), non potendosi dunque utilizzarla per mandare a segno ragionamenti che pretenderebbero di argomentarne la rilevanza nella prospettiva di un'irrilevanza penale in sé e per sé del fatto lieve o tenue.

Altra ipotesi in cui il Legislatore ha preso in considerazione la lievità del fatto è, quanto alla ricettazione, l'art.648, comma 2,c.p. Secondo l'insegnamento consolidato della giurisprudenza di legittimità (cfr., da ultimo, sentenza del 24 marzo 2017, n. 14767), si tratta di una circostanza attenuante speciale e non di una fattispecie autonoma di reato. Il contenuto di detta circostanza è descritto dalle Sezioni unite nella sentenza del 12 luglio 2007, n. 35535, laddove afferma che il giudizio sulla lievità del fatto va condotto alla luce di tutti i parametri di cui all'art. 133 c.p., senza limitarsi al valore patrimoniale o latamente economico della cosa che forma oggetto del reato, precisando che, quando il legislatore ha inteso riferirsi esclusivamente a siffatto valore, lo ha indicato espressamente nel testo della corrispondente disposizione: si pensi all'ipotesi contemplata dall'art. 62, n. 4), c.p., che codifica una circostanza attenuante comune se il danno patrimoniale cagionato alla persona offesa risulti di speciale tenuità (par. 4.1.2. della sentenza ult. cit., pag. 40). A mente di ciò, con lo sguardo proiettato su un orizzonte più ampio, rileva che la Corte, con sentenza del 12 maggio 2017, n. 23419, non esclude in astratto l'applicabilità della causa di esclusione di cui all'art. 131-bisc.p. in tutti i casi, ivi compreso quello di cui si discute, in cui la legge prevede (anche) la particolare tenuità del danno o pericolo come circostanza attenuante.

Un'altra ipotesi di minore gravità del fatto è prevista nell'art.609-bis,comma3,c.p. la cui natura di circostanza attenuante a effetto speciale è stata precisata dalla Corte di cassazione, secondo cui, nuovamente, «ai fini della configurabilità della diminuente in esame, deve farsi riferimento ad una valutazione globale della vicenda, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, le sue caratteristiche psicologiche in relazione all'età, così da potere ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, e che il danno arrecato alla stessa, anche in termini psichici, sia stato significativamente contenuto» (par. 7, pag. 10, della sentenza 8 gennaio 2015, n. 5169). La ratio sottesa alla disposizione che ne occupa è quella di proporzionare la sanzione nei casi in cui la sfera della libertà sessuale subisce una lesione di minima entità. Si viene, quindi, a configurare la minore gravità ai fini dell'attenuante necessariamente considerando nel complesso gli elementi del caso concreto incidenti, singolarmente e nell'insieme, sulla libertà sessuale della vittima per effetto dell'aggressione posta in essere dall'agente: sicché al fondo a rilevare, tenuta presente la particolare natura del reato, sono le condizioni psichiche e fisiche della vittima al cospetto delle modalità della condotta serbata dall'agente ed al contesto di sua maturazione e realizzazione.

Tentando un giudizio di sintesi, dalla telegrafica disamina di cui sopra emerge l'adeguamento del trattamento sanzionatorio da parte del legislatore in funzione attenuatrice a fronte della realizzazione di un fatto ne suo complesso di entità, e quindi di rilevanza, lieve, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, alle modalità della condotta e al danno cagionato alla P.O. che ne soffre le conseguenze, ovviamente patrimoniali ma anche, e forse soprattutto, non patrimoniali.

Ad ogni buon conto, come rilevato dalla S.C. nella sentenza in commento, non viene mai messa in discussione l'oggettività del reato e, quindi, l'integrazione dell'offesa al bene giuridico tutelato dalle singole fattispecie. In sostanza, le ipotesi descritte rappresentano circostanze attenuanti idonee a incidere sulla quantificazione della pena irrogata da parte del giudice, dopo, però, che siano stati accertati gli elementi oggettivo e soggettivo del reato, il quale pertanto sussiste come ipotesi pienamente integrata nell'aggressione al bene giuridico. In tal modo, il requisito dell'offensività del reato è rispettato, ma è altresì rispettata la proporzionalità della punizione in conformità al principio di graduazione della pena secondo la gravità del reato stesso.

La non punibilità ex art. 131-bis c.p.

Altro profilo analizzato dalla sentenza in commento concerne l'applicabilità dell'art.131-bisc.p.

La Corte conferma la motivazione dei giudici di merito che, disattendendo le tesi difensive, già avevano esposto le ragioni del diniego, nel caso di specie, della ricorrenza delle condizioni per il riconoscimento di una particolare tenuità del fatto rilevante ai fini della non punibilità

Il punctum pruriens concerne i rapporti tra continuazione e abitualità del comportamento di cui al comma 1, da leggersi in combinato disposto con il comma 3, dell'art. 131-bisc.p. Posto che è l'abitualità in sé a qualificare l'attitudine delinquenziale del giudicando, incompatibile come tale con una valutazione di particolare tenuità del fatto, una linea di giurisprudenza – cui aderisce la sentenza in commento – sottolinea che «non vi può essere una identificazione tout court tra continuazione e abitualità nel reato atteso che il legislatore delegato, nell'introdurre la nuova causa di non punibilità, ha preferito ricorrere ad un concetto diverso da quello di occasionalità: scelta che si giustifica con la volontà di assicurare all'istituto un più esteso ambito di operatività, escludendovi solo quei comportamenti espressivi di una seriazione dell'attività criminosa e di un'abitudine del soggetto a violare la legge, desumibile dagli indici rivelatori a tal scopo predisposti nel comma 3». Viene, quindi, esclusa la coincidenza della continuazione con l'abitualità del comportamento, pacifica causa ostativa dell'applicazione della causa di non punibilità ex art. 131-bisc.p.: così si esprime la sentenza 29 marzo 2017, n. 19932, seguita dalle sentenze 15 gennaio 2018, n. 5358, e 7 febbraio 2018, n. 9495, le quali, per l'effetto, esplicitano che ai fini della non punibilità ex art. 131-bisc.p. non osta la presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione. Del resto l'inapplicabilità dell'art.131-bisc.p. alla continuazione sarebbe irragionevole in considerazione del trattamento di favore accordato dall'art. 81 c.p.v. c.p. sotto il profilo della quantificazione in sé della pena.

Tuttavia, in senso contrario, altro orientamento sostiene che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto non può essere dichiarata in presenza di più reati legati dal vincolo della continuazione, in quanto anche il reato continuato configura un'ipotesi di “comportamento abituale” per la reiterazione di condotte penalmente rilevanti, impediente il riconoscimento del beneficio, essendo il segno di una devianza “non occasionale” (cfr., in ultimo ad una lunga serie di pronunce, sentenza 13 dicembre 2017, n. 3353).

Nel caso di specie, come anticipato, ritiene la Corte, in adesione al primo indirizzo, che la continuazione non impedisca l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p. Proprio per tale motivo, però, è costretta a prendere successivamente in esame i parametri per accertare l'effettiva particolare tenuità del fatto, secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite nella sentenza del 25 febbraio 2016, n. 13681, nella parte in cui statuisce che il relativo giudizio richiede una valutazione complessa avente ad oggetto le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo, da apprezzarsi ai sensi dell'art. 133, comma 1, c.p., richiedendosi, in buona sostanza, un'equilibrata considerazione di tutte le peculiarità del caso concreto e non solo dei profili attinenti all'entità dell'aggressione – men che meno solo patrimoniale – del bene giuridico protetto. Il nocciolo del discorso consiste in ciò che l'applicabilità dell'art. 131-bis c.p è condizionata all'accertamento del fatto storico nelle sue cangianti sfaccettature in rapporto ai parametri di cui all'art. 133, comma 1, c.p.

Tornando al caso delle truffe oggetto di cognizione della S.C., è nuovamente la reiterazione delle condotte, accanto agli altri indici rivelatori dell'atteggiamento truffaldino degli imputati, a denotare la gravità complessiva delle violazioni contestate, con conseguente esclusione delle condizioni legittimanti la non punibilità ex art. 131-bis c.p. (par. 4.2.3, pag. 43).

Ciò sembrerebbe denotare un cortocircuito della motivazione, perché, al fondo, diviene dirimente quella stessa reiterazione delle condotte che è elemento costitutivo del reato continuato; ma in realtà le cose stanno diversamente, perché l'orientamento cui la sentenza in commento aderisce afferma che solo in linea di principio la continuazione non impedisce il riconoscimento della particolare tenuità agli effetti dell'art. 131-bisc.p., fermo tuttavia che le violazioni non devono essere in numero tale da costituire ex se dimostrazione di serialità, ovvero di una progressione criminosa indicativa di particolari intensità del dolo o versatilità offensiva: deve comunque pur sempre verificarsi che i fatti in continuazione, per come si manifestano, mantengano un'impronta di occasionalità contraddistinta da una limitata emersione nel tempo (in rapporto, per esempio, a particolari parentesi di vita dell'agente).

In conclusione

Le argomentazioni della sentenza in commento appaiono condivisibili.

La Corte si focalizza sulla differenza sussistente tra l'offensività necessaria affinché sia integrato l'elemento oggettivo della fattispecie delittuosa e la lievità del fatto commesso. L'offesa al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice giustifica l'interesse dello Stato a perseguire penalmente il reo, costituendo, per riprendere un'espressione della manualistica corrente, “la vera essenza del reato” (ANTOLISEI, op.cit., pag. 178). Depongono in tal senso anche altre disposizioni del codice penale,comel'art.49, che esclude la punibilità per “inidoneità dell'azione” o “inesistenza dell'oggetto”, con allusione alla mancata integrazione dell'offesa al bene giuridico protetto, e l'art. 56 c.p., che, nella fattispecie tentata, fa diminuire la pena in presenza di una non ancora compiuta, e dunque minore, aggressione al bene giuridico, fermo però che, affinché scatti la punibilità, gli “atti diretti in modo non equivoco a commettere un delitto” devono comunque cominciare ad essere offensivi (diversamente, il giudice deve assolvere per insussistenza del fatto, non essendo integrato l'elemento oggettivo del reato).

Nel percorso argomentativo, la Corte considera non tanto la consistenza patrimoniale del danno cagionato dagli imputati all'ASL di appartenenza, quanto la violazione delle regole generali e particolari che deve osservare il dipendente pubblico nell'esercizio delle proprie funzioni, facendo venire meno il rapporto fiduciario tra l'ente e il personale che opera in seno ad esso al servizio della collettività.

Paiono, altresì, chiare le argomentazioni in tema di non punibilità ex art.131-bis c.p., fattispecie applicabile a un'ipotesi delittuosa tipica, antigiuridica e colpevole, ancorché irrilevante per particolare tenuità: la non punibilità è coerente con i principi generalissimi di proporzione e di economia processuale e si distingue ontologicamente dalla non offensività come causa di esclusione del fatto in sé in quanto fatto non penalmente antigiuridico (corrobora l'assunto anche la Relazione ministeriale di accompagnamento al d.lgs. 28/2015, la quale, al par. 2, evidenzia come l'art. 131-bisc.p. sia «istituto diverso da quello della c.d. ‘inoffensività del fatto'. Quest'ultimo, come recepito dalla giurisprudenza costituzionale e comune ormai largamente prevalente, attiene alla totale mancanza di offensività del fatto che risulta pertanto privo di un suo elemento costitutivo e in definitiva atipico e insussistente, come reato. Com' è noto, l'ipotesi della inoffensività del fatto è stata ricondotta normativa mente. all'art. 49, comma 2, c.p.»).

Infine, a proposito della irrilevanza o della rilevanza della continuazione ad escludere l'applicabilità dell'istituto di cui all'art. 131-bis c.p., il contrasto tra la tesi che sostiene la prima conclusione e quella che sostiene la seconda è, alla luce della sentenza in commento, meno profondo di quel che appare, dovendosi comunque operare una valutazione complessiva e congiunta di tutte le peculiarità del caso concreto, entro la quale, dunque, la stessa reiterazione delle condotte trova ampio spazio di considerazione.

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