Il ruolo della confessione stragiudiziale nel processo

Vito Amendolagine
17 Settembre 2018

La questione affrontata dalla Suprema Corte attiene al mancato esame da parte del giudice di merito di un fatto secondario costituito dalle dichiarazioni confessorie stragiudiziali allegato nello stesso giudizio di merito in funzione di prova del fatto principale.
Massima

In tema di prove, la confessione stragiudiziale è diretta a veicolare nel processo un fatto storico dubbio, in riferimento al quale la dichiarazione del confitente è destinata a fare chiarezza, sicché essa va valutata dal giudice di merito ai fini dell'accertamento del cd. “plagio evolutivo”.

Il caso

La controversia esaminata dal Supremo Collegio nasce dal ricorso presentato dal sig. X in tema di violazione della normativa del diritto d'autore in relazione alla quale, il medesimo ricorrente denuncia dinanzi al giudice di legittimità l'omesso esame circa un fatto decisivo per la controversia e la violazione e falsa applicazione degli artt. 2729 e 2735 c.c., in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c. dolendosi del fatto che la Corte d'appello non avesse tenuto conto di una serie di elementi probatori in atti, in essi comprese le dichiarazioni di natura confessorie rese da uno dei convenuti, dalle quali sarebbero emersi fatti decisivi della controversia che – se valutati – avrebbero indotto la stessa corte di merito a ritenere sussistente la denunciata violazione del diritto d'autore.

La questione

La quaestio juris introdotta dinanzi alla Suprema Corte attiene quindi al mancato esame da parte del giudice di merito di un fatto secondario costituito dalle dichiarazioni confessorie stragiudiziali allegato nello stesso giudizio di merito in funzione di prova del fatto principale.

Ciò premesso, l'impugnata sentenza, pur menzionando espressamente il fatto decisivo per la controversia costituito dalle dichiarazioni confessorie rese in forma di interviste ai giornali dal convenuto, poteva ometterne l'esame ai fini della decisione, senza incorrere nella denunciata violazione dell'art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., oltre che dell'art. 2735 c.c.?

Le soluzioni giuridiche

La Corte accoglie il ricorso, osservando che la confessione stragiudiziale, come mezzo di prova, è diretta proprio a veicolare nel processo un fatto storico dubbio, in riferimento al quale la dichiarazione del confitente è destinata a fare chiarezza.

Infatti l'impugnata sentenza – dopo avere escluso la sussistenza, nella specie, del mero plagio, ossia della pedissequa imitazione o contraffazione dell'opera originale – si è limitata ad affermare con riferimento al plagio evolutivo, oggetto della domanda subordinata del ricorrente, che anch'esso sarebbe da escludere, dal momento che anche il personaggio oggetto del plagio riflette un ingrediente di originalità creativa tale da farne comunque un'opera differente, pervenendo, in tal modo, alla laconica conclusione secondo cui ogni ulteriore questione deve considerarsi assorbita. L'affermazione dei giudici di merito – ritenuta dalla Cassazione erronea in diritto, non essendo idoneo ad escludere, come dianzi detto, il plagio evolutivo nella fattispecie considerata, la mera originalità creativa dell'opera derivata, in assenza del consenso alla rielaborazione dell'opera principale – si traduce, altresì, nell'omessa considerazione di un fatto decisivo per la controversia, ai sensi dell'art. 360, comma 1 n. 5, c.p.c..

Osservazioni

Il testo dell'art. 2735 c.c. recita testualmente che la confessione stragiudiziale fatta alla parte od a chi la rappresenta ha la stessa efficacia probatoria di quella giudiziale, mentre se è fatta a un terzo o se è contenuta in un testamento, è liberamente apprezzata dal giudice.

La sentenza in commento ribadisce l'orientamento emerso nella precedente giurisprudenza di legittimità.

In linea generale, perchè una dichiarazione sia qualificabile come confessione, essa deve constare di un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sè sfavorevole e favorevole all'altra parte, e di un elemento oggettivo, che si ha qualora dall'ammissione del fatto obiettivo che forma oggetto della confessione, escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all'interesse del dichiarante e al contempo un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della confessione (Cass. civ., sez. lav., 23 maggio 2018,n.12798; Cass. civ., sez. lav., 19 novembre 2010,n.23495; Cass. civ., sez. lav., 15 novembre 2002, n.16127).

Tale assunto ha trovato accoglimento anche nella giurisprudenza delle sezioni unite (Cass. civ., Sez. Un., 25 marzo 2013, n.7381).

Ciò premesso, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2733 e 2735 c.c. il riconoscimento di una delle parti della verità di un fatto dal quale derivino conseguenze svantaggiose per il dichiarante in materia di diritti disponibili anche se fatta all'altra parte fuori del giudizio costituisce confessione con efficacia di piena prova a carico del confidente indipendentemente dal fine per il quale la confessione sia resa (Cass. civ., sez. III, 25 marzo 2002, n.4204).

Infatti in tale ottica si è affermato il principio che gli effetti dell'affermazione del fatto storico dubbio non possono dipendere dallo stato soggettivo o dalla valutazione che ne fa il confitente, poichè la confessione giudiziale costituisce una dichiarazione di scienza, il cui elemento essenziale è l'affermazione inequivoca in ordine ad un fatto storico dubbio, resa la quale gli effetti che ne derivano sono stabiliti dalla legge. Pertanto, ne consegue che è irrilevante l'indagine sull'intento perseguito dall'autore di essa nel renderla, in quanto non spiega alcuna rilevanza nè che l'autore della confessione abbia voluto scientemente costituire una prova, nè il fine per il quale ha pronunciato la dichiarazione (Cass. civ., sez. lav., 30 settembre 2016, n. 19554; Cass. civ., sez. III, 5 dicembre 2003, n.18655).

Quanto all'animus confitendi si deve ricordare l'insegnamento di legittimità secondo cui tale elemento del foro interno, presupposto dall'art. 2730 c.c., come elemento della confessione, postula la volontà e la consapevolezza di riconoscere la verità del fatto dichiarato, il quale sia obiettivamente sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte, ma non richiede anche l'ulteriore consapevolezza di tale obiettiva incidenza del fatto stesso e del valore probatorio della confessione (Cass. civ., sez. lav., 11 aprile 2000, n.4608;Cass. civ., 19 ottobre 1985, n. 5141; Cass. civ., 5 marzo 1990, n. 1723).

Nella giurisprudenza di legittimità si è quindi affermato il correlato principio che la confessione stragiudiziale fatta ad un terzo non costituisce una prova legale, come la confessione giudiziale e stragiudiziale fatta alla parte od a chi la rappresenta, e tuttavia non è valutabile alla stregua di un mero indizio, idoneo a fondare unicamente una presunzione, ovvero ad integrare una prova manchevole, essendo, in realtà, un mezzo di prova diretta, su cui il giudice può basare, anche in via esclusiva, il proprio convincimento in esito al libero apprezzamento (Cass. civ., sez. VI, 15 marzo 2018, n. 6459).

Aggiungasi che l'art. 2730 c.c. richiede, tra l'altro, la volontà di riconoscere la verità, con la conseguenza che non sarebbero ipotizzabili confessioni involontarie, ragione per cui l'elemento soggettivo della confessione costituito dall'animus confitendi, si configura come volontà e consapevolezza di riconoscere la verità del fatto dichiarato, obiettivamente sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte, senza che sia richiesta l'ulteriore consapevolezza di tale obiettiva incidenza e delle conseguenze giuridiche che ne possono derivare (Cass. civ., sez. lav., 11 aprile 2000, n. 4608).

Ai sensi del combinato disposto degli artt. 2733 e 2735 c.c. il riconoscimento di una delle parti della verità di un fatto dal quale derivino conseguenze svantaggiose per il dichiarante in materia di diritti disponibili anche se fatta all'altra parte fuori del giudizio costituiscono confessione con efficacia di piena prova a carico del confidente indipendentemente dal fine per il quale la confessione sia resa (Cass. civ., sez. III, 25 marzo 2002, n.4204).

La Cassazione ha quindi correttamente ritenuto che gli articoli apparsi sui giornali erano idonei ad integrare l'esistenza di vere e proprie dichiarazioni confessorie stragiudiziali, rese dall'inventore e dal mimo del prodotto oggetto della presunta violazione del diritto d'autore, circa il fatto che quest'ultimo costituiva una riproduzione evolutiva del personaggio protetto da copyright. Il convenuto aveva, infatti, dichiarato nel corso di un'intervista di avere sostanzialmente adottato il personaggio in questione, trattandosi di un povero diavolo che faceva la mascotte in una squadra di basket, e facendolo così diventare un divo della televisione e della canzone, rispondendo affermativamente alla domanda del giornalista se era vero che l'avesse importato.

Tali dichiarazioni venivano, successivamente, sostanzialmente confermate, ad un'altra rivista a distanza di qualche anno, dal mimo dello stesso personaggio, il quale affermava di essere a conoscenza del fatto che quest'ultimo era stato comprato in America.

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