Codice Civile art. 2635 - Corruzione tra privati12[I]. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, di società o enti privati che, anche per interposta persona, sollecitano o ricevono, per sé o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o ne accettano la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni. Si applica la stessa pena se il fatto è commesso da chi nell'ambito organizzativo della società o dell'ente privato esercita funzioni direttive diverse da quelle proprie dei soggetti di cui al precedente periodo.3 [II]. Si applica la pena della reclusione fino a un anno e sei mesi se il fatto è commesso da chi è sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti indicati al primo comma. [III]. Chi, anche per interposta persona, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti alle persone indicate nel primo e nel secondo comma, è punito con le pene ivi previste4. [IV]. Le pene stabilite nei commi precedenti sono raddoppiate se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58, e successive modificazioni.5 [V]. Fermo quanto previsto dall'articolo 2641, la misura della confisca per valore equivalente non può essere inferiore al valore delle utilità date, promesse o offerte6. [2] Articolo sostituito dall' art. 1, comma 76, l. 6 novembre 2012, n. 190 . Il testo, che era stato modificato dall'art. 15, comma 1, lett. b), l. 28 dicembre 2005, n. 262 e dall'art. 37, comma 36, del d.lg. 27 gennaio 2010, n. 39, ed il cui terzo comma era stato inserito dall'art. 39, l. n. 262, cit., recitava: «Infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità - [Gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, a seguito della dazione o della promessa di utilità, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione sino a tre anni. La stessa pena si applica a chi dà o promette l'utilità. La pena è raddoppiata se si tratta di società con titoli quotati in mercati regolamentati italiani o di altri Stati dell'Unione europea o diffusi tra il pubblico in misura rilevante ai sensi dell'articolo 116 del testo unico di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58. Si procede a querela della persona offesa». [3] Comma sostituito dall'art. 3, comma 1, lett. a), d.lgs. 15 marzo 2017, n. 38. Il testo precedente era il seguente: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compiono od omettono atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società, sono puniti con la reclusione da uno a tre anni.». [4] Comma sostituito dall'art. 3, comma 1, lett. b), d.lgs. 15 marzo 2017, n. 38. Il testo precedente era il seguente: «Chi dà o promette denaro o altra utilità alle persone indicate nel primo e nel secondo comma è punito con le pene ivi previste.». [5] Seguiva un originario quinto comma abrogato dall'art. 1, comma 5, lett. a), l. 9 gennaio 2019, n. 3, in vigore dal 31 gennaio 2019. Il testo del comma era il seguente: «Si procede a querela della persona offesa, salvo che dal fatto derivi una distorsione della concorrenza nella acquisizione di beni o servizi». [6] Comma aggiunto dall'art. 3, comma 1, del d.lgs. 29 ottobre 2016, n. 202. Successivamente l'art. 3, comma 1, lett. c), d.lgs. 15 marzo 2017, n. 38 ha sostituito le parole «utilità date o promesse» con le parole «utilità date, promesse e offerte». InquadramentoL'attuale formulazione dell'art. 2635 è il frutto di molteplici interpolazioni, culminate nelle recenti previsioni introdotte dall'art. 3, comma 1, lett. b), d.lgs. 15 marzo 2017 n. 38. Con tale ultimo intervento il Legislatore, dando attuazione alla delega prevista dall'art. 19 della legge n. 170/2016 (legge di delegazione europea 2015), ha recepito la decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio dell'Unione Europea, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato. A tale intervento è seguita da ultimo la legge 9 gennaio 2019, n. 3 che ha abrogato l’originario quinto comma dell’art. 2635 c.c. Il reato in questione svolge un'azione complementare al contrasto alla «corruzione pubblica», nella consapevolezza che il fenomeno corruttivo, anche quando è realizzato da soggettivi privati, danneggia, comunque, l'economia ed altera la concorrenza. Della corruzione pubblicistica ex art. 319 c.p. la figura criminosa di cui all'art. 2635 c.c. riproduce la struttura della corruzione propria antecedente: la promessa o dazione deve essere antecedente all'adozione dell'atto o al suo mancato compimento (Faiella). In simmetria con le previsioni della corruzione pubblicistica (art. 322 c.p.), poi, è stata introdotta la fattispecie di cui all'art. 2635 bis c.c. Il riferimento al nocumento, fino alla novella del 2017, rendeva identificabile il reato di cui all’art. 2635 c.c. come fattispecie di evento di danno, ma con l’eliminazione di tale riferimento il reato è divenuto di pura condotta e di pericolo. Invece, la fattispecie della “istigazione alla corruzione”, è stata ab origine strutturata come reato di pura condotta (Faiella). Nonostante le varie modifiche dell'art. 2635 rappresentino una tappa importante nel processo di avvicinamento alle indicazioni internazionali (già avviato con la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione internazionale elaborata a Merida il 31 ottobre 2003 e con la ratifica da parte della l. 28 giugno 2012 n. 110 della Convenzione di Strasburgo del 27 gennaio 1999, promossa dal Consiglio d'Europa sulle conseguenze penali e civili della corruzione), ancora continuano a ravvisarsi nell'attuale disciplina alcuni profili di criticità derivanti dalla difficoltà di assimilare la regolamentazione della fattispecie di corruzione privatistica a quella pubblicistica, nonostante le evidenti diversità di esse. Infatti, sebbene il nodo centrale di problematicità costituito dal regime di procedibilità a querela del reato (Di Vizio, 1) sia stato eliminato ad opera della l. 9 gennaio 2019, n. 3, che ha abrogato l’originario quinto comma (che appunto prevedeva la procedibilità a querela), rendendo il reato in commento procedibile d’ufficio, ciononostante sono state messe in risalto dalla dottrina alcuni aspetti critici. In particolare, è stata segnalata la difficoltà di perimetrazione del concetto di '“altra utilità” con la conseguenza che qualsivoglia utilitas può invero rientrarvi, con l'effetto che le fattispecie risultano prive di una reale ed effettiva nitidezza; nonché il “compiere o (...) omettere un atto”, atteso che per i soggetti privati non esiste una “legge sul procedimento” e la dicotomia tra “violazione” e “obblighi d'ufficio” o “di fedeltà”, da ricercare anche nel tessuto negoziale ossia in un terreno non perequabile a quello che, nell'ambito dei reati contro la Pubblica Amministrazione, viene identificato come “specificazione amministrativa del precetto penale” (Faiella). Il reato di corruzione tra privati è un reato a soggettività ristretta sotto il versante della corruzione passiva, stante il testuale riferimento a specifiche figure (quali amministratori, i direttori generali e le altre figure specificamente enunciate oltre a quelle di cui all'art. 2639 c.c.), nonché a concorso necessario con le categorie di soggetti indicate, operanti a vario titolo nella società. Dalla «infedeltà a seguito della dazione o promessa di utilità» alla nuova «corruzione tra privati»Prima della riforma del diritto penale societario ad opera del d.lgs. n. 61/2002, le fattispecie corruttive trovavano la loro sedes materiae esclusivamente nell'ambito dei reati contro la Pubblica Amministrazione. Nessuna sanzione penale era, dunque, prevista per le condotte di corruzione poste in essere tra privati. Con l'intervento del 2002 – relativo all'introduzione della fattispecie di «infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità» – e con quello del 6 novembre 2012 n. 230 «corruzione tra privati» il legislatore italiano ha inteso disciplinare il fenomeno della corruzione anche nel settore privato. Entrambe le richiamate disposizioni hanno costituito il frutto di impegni sovranazionali, principalmente derivanti dall'Azione Comune 98/742/GAI sulla corruzione nel settore privato, adottata il 22 dicembre 1998 dal Consiglio dell'Unione europea, e dalla Convenzione penale sulla corruzione, approvata dal Consiglio d'Europa il 27 gennaio 1999. La fattispecie incriminatrice di cui all'art. 2635, come disegnata dal d.lgs. n. 61/2002, anche se salutata con un certo favore, è stata però immediatamente foriera di numerose perplessità. Le critiche principali erano rivolte alla scelta di ancorare la configurabilità del reato alla necessaria causazione di un «nocumento alla società» e di condizionare la procedibilità del reato alla querela della persona offesa. Coerentemente con gli obietti della menzionata riforma, infatti, la fattispecie risultava proiettata verso una sfera di offensività di stampo prettamente privatistico, con prioritaria tutela del solo patrimonio sociale (Melchiondà, 2698-2699). Il reato di «infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità», ponendosi a tutela degli interessi patrimoniali facenti capo alla società e non esterni ad essa, risultava, infatti, aver recepito solo in parte gli auspici della dottrina e delle fonti sovranazionali: la sua configurazione come fattispecie di danno, rappresentava una evidente rinuncia da parte del legislatore ad uno strumento di tutela anticipata del patrimonio sociale (Cerqua, 137). Il Group of States against Corruption (GRECO: Gruppo di Stati contro la corruzione, istituito dal Consiglio d'Europa in occasione della approvazione della convenzione penale sulla corruzione del 27 gennaio 1999), nell'analizzare lo stato di adeguamento del legislatore italiano alla lotta contro la corruzione, aveva evidenziato, all'uopo, nel Rapporto di valutazione del 2012, notevoli profili critici dell'art. 2635 c.c. (nella versione antecedente alla riforma della legge n. 190/2012). In particolare, ad essere oggetto di censura da parte del predetto organismo, erano: la ristretta gamma di possibili autori; la mancata menzione, tra i beneficiari della tangente, delle terze parti; la non inclusione, tra le azioni materiali che caratterizzano la corruzione, di quelle dell'offerta e richiesta di una tangente; l'assenza di un esplicito riferimento alla commissione indiretta di reato (es. tramite intermediari); la necessaria causazione di un danno alla persona giuridica (non richiesto dalla Convenzione), ed infine, la procedibilità a querela (Seminara, 61). Proprio per far fronte a tali inconvenienti, la fattispecie di reato in commento è stata modificata con la legge n. 190/2012, in «corruzione tra privati». In proposito, tuttavia, la dottrina ha ancora una volta evidenziato che al mutamento del nomen iuris del reato non corrispondeva in realtà una consistente ed effettiva trasformazione del suo contenuto (Bricchetti, 527). Anche con tale intervento, infatti, non si coglieva una generalizzata incriminazione della corruzione privata e la punizione delle condotte corruttive risultava pur sempre subordinata alla lesione del patrimonio sociale. Anche per tali ragioni, dunque, il Legislatore è nuovamente intervenuto nel marzo 2017, cercando di rendere la normativa interna pienamente conforme alle previsioni della decisione quadro 2003/568/GAI e, dunque, di porre rimedio ai predetti profili di criticità. Le novità del predetto provvedimento di recepimento sono rinvenibili, sia in relazione al versante soggettivo, che oggettivo. Quanto al primo profilo, il novello reato prevede un ampliamento della categoria dei soggetti punibili per il reato di corruzione passiva, ricomprendendo anche quanti all'interno degli enti svolgono attività lavorativa con funzioni direttive, diverse da quelle esercitate dai soggetti espressamente indicati nella prima parte del primo comma. È prevista, inoltre, la possibilità che le condotte di corruzione tra privati siano realizzate anche per interposta persona. Sotto il profilo oggettivo, sono state ampliate le condotte sanzionabili. Nel primo comma, è stata inserita la sollecitazione, accanto alla condotte di ricezione ed accettazione della promessa e, nei commi terzo e sesto, l'offerta. Risulta, inoltre, espunto il riferimento al «nocumento alla società», non essendo più necessario, altresì, l'effettivo compimento o l'omissione di atti, elemento questo sul quale si erano incentrate numerose critiche nel vigore del testo precedente. Con lo stesso decreto sono stati, inoltre, introdotti i nuovi articoli 2635-bis e ter c.c., rispettivamente disciplinanti l'istigazione alla corruzione nel settore privato e l'interdizione temporanea dagli uffici direttivi delle persone giuridiche per coloro che hanno già subito una condanna per il medesimo reato o per quello di cui all'articolo 2635-bis, secondo comma. Novità, infine, si rintracciano anche in materia di responsabilità amministrativa degli enti. La nuova versione della lett. s-bis) dell'art. 25-ter del d.lgs. n. 231/2001, infatti, prevede per il delitto di corruzione tra privati, nei casi previsti dal terzo comma dell'art. 2635, la sanzione pecuniaria da quattrocento a seicento quote (in luogo di duecento e quattrocento) e, nei casi di istigazione di cui al primo comma dell'art. 2635-bis c.c., la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote. Si applicano, altresì, le sanzioni interdittive previste dall'art. 9, comma 2, d.lgs. n. 231/2001 in precedenza non previste. Tuttavia, come anticipato, sebbene l'intervento attuativo della decisione quadro 2003/568/GAI abbia posto rimedio ad alcuni degli aspetti critici già evidenziati (quali, ad esempio, la subordinazione della configurazione del reato alla necessaria verificazione del nocumento alla società e la mancata menzione tra i soggetti attivi della «interposta persona»), esso non sembra incidere su altri profili che pure hanno sancito la storica ineffettività della fattispecie; primo fra tutti, il complicato regime di procedibilità (Di Vizio, 1-3). I soggetti attiviLa fattispecie di corruzione tra privati, come agevolmente evincibile dalla lettera della norma, è un reato a concorso necessario per il quale va in primo luogo operata una distinzione di fondo tra i soggetti «corruttibili» (commi 1 e 2) ed i soggetti «corruttori» (comma 3), accomunati solo dal medesimo trattamento sanzionatorio. Quanto ai primi, responsabili della corruzione passiva, la fattispecie assume lo schema del reato proprio. Essa, infatti, include tra i soggetti attivi di tale corruzione, oltre agli amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori, che agiscono anche per interposta persona ed al soggetto che comunque esercita funzioni direttive diverse da quelle proprie dei predetti, anche coloro che sono sottoposti alla direzione o alla vigilanza di questi. L'art. 3, comma 1, lett. a), d.lgs. 15 marzo 2017, n. 38 (Attuazione della decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio, del 22 luglio 2003, relativa alla lotta contro la corruzione nel settore privato) ha incluso, in particolare, tra gli autori del reato, non solo coloro che rivestono posizioni apicali di amministrazione e di controllo, ma anche coloro che svolgono attività lavorativa mediante l'esercizio di funzioni direttive presso società o enti privati. È stato ritenuto, in proposito, che l'estensione operata con il d.lgs. 15 marzo 2017, n. 38 si connota per più intensa originalità, espandendo le formali figure soggettive primarie delle fattispecie penali in analisi a coloro che svolgono attività lavorativa mediante l'esercizio di funzioni direttive (di gestione e di controllo) non apicali, in quanto sprovvisti di poteri esterni di rappresentanza o direzione; il riferimento pare inteso a figure impiegatizie direttive «non di prima fascia», diverse da amministratori, direttori generali, dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, sindaci e liquidatori, nonché estranee a dipendenti o collaboratori, direttamente o indirettamente sottoposti, in via legale o contrattuale, a poteri di direzione o vigilanza dei ricordati apicali (Di Vizio). Inoltre, in virtù della clausola di estensione contenuta nell'art. 2639 c.c., nel novero dei predetti soggetti attivi vanno ricompresi, oltre a coloro formalmente investiti delle qualifiche o titolari delle funzioni espressamente elencate, anche i soggetti tenuti a svolgere la stessa funzione diversamente qualificata, nonché i soggetti che esercitano in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti la qualifica o la funzione. Ne consegue, dunque, l'operatività della norma in esame anche nei confronti di quei soggetti responsabili «di fatto», individuati sulla base dei requisiti espressamente richiamati dalla citata disposizione (Cerqua, 139). È stato evidenziato, altresì, che la formula «per sé o per altri», utilizzata dal legislatore, comporta che le condotte punite dal reato in esame potranno essere dirette non solo al corrotto, ma anche a soggetti terzi, estranei al patto corruttivo (Antolisei, 336-337). Quanto al soggetto «corruttore», punibile allo stesso titolo del «corrotto», la disposizione non contiene alcuna elencazione predefinita. Essa, infatti, fa generico riferimento a «chi, anche per interposta persona, offre, promette o dà denaro o altra utilità non dovuti alle persone indicate nel primo e nel secondo comma», e, pertanto, dal versante della corruzione attiva il reato in questione può essere definito come un reato comune a soggettività allargata. Novità di rilievo introdotta dal d.lgs. 15 marzo 2017 n. 38 è anche quella rappresentata dalla tipizzazione della modalità della condotta «per interposta persona», con conseguente configurabilità della responsabilità per l'intermediario, dell'intraneo (in caso di corruzione passiva), o dell'estraneo (in ipotesi di corruzione attiva). Deve ritenersi ancora esclusa – stante la precisa elencazione di figure ed il riferimento generale a funzioni direttive svolte nell'ambito della società dai primi due commi dell'art. 2635 c.c. – la possibilità di ricomprendere tra i soggetti privati «corruttibili» gli organi della giustizia arbitrale e dei soggetti che li assistono (ad esempio, i consulenti tecnici). Se è pur vero che, secondo l'insegnamento della Corte di Cassazione, l'arbitrato ha natura privatistica (Cass. pen. VI, n. 5901/2013), costituendo rinuncia all'azione giudiziaria e alla giurisdizione dello Stato con opzione per la soluzione della controversia sul piano privatistico (Cass. I, n. 14182/2002), nondimeno, le figure degli arbitri e dei loro consulenti presentano delle peculiarità che non le rendono riferibili alle figure soggettive tipizzate dalla recente novella, che non è giunta a riconnettervi lo svolgimento di funzioni lavorative «di qualsiasi tipo» (Di Vizio, 4). I soggetti in questione, tuttavia, potrebbero essere i destinatari finali della corruzione, ossia «gli altri» nei confronti dei quali è rivolta la corruzione. Le condotte punibili.Prima dell'intervento riformatore di cui al d.lgs. n. 38/2017, la fattispecie incriminatrice in commento, nella sua versione conseguente alle modifiche successive al d.lgs. n. 61/2002 (l. n. 262/2005, d.lgs. n. 39/2010, l. n. 190/2012 e d.lgs. n. 202/2016), sanzionava, con il primo e secondo comma, solo due forme di corruzione passiva (per intranei). Il primo comma puniva con la reclusione da uno a tre anni gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, che, a seguito della dazione o della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri, compivano od omettevano atti, in violazione degli obblighi inerenti al loro ufficio o degli obblighi di fedeltà, cagionando nocumento alla società. Il secondo comma si limitava, invece, a sanzionare diversamente il soggetto sottoposto alla direzione o alla vigilanza di uno dei dirigenti indicati al primo comma, per la stessa condotta ivi descritta. Quanto alla corruzione attiva, essa era punita con le medesime sanzioni previste per la corruzione passiva e si sostanziava nella condotta di chiunque (extraneus) dava, o prometteva denaro, o altra utilità, alle persone indicate nel primo e nel secondo comma. Tale forma di corruzione comportava, poi, ai sensi dell'art. 25-ter, comma 1, lett. s-bis, d.lgs. n. 231/2001, la sanzione pecuniaria da duecento a quattrocento quote. Il d.lgs. n. 202/2016 aggiungeva, poi, all'articolo così descritto, un ulteriore comma (il 6°), in forza del quale la misura della confisca per equivalente non poteva essere inferiore al valore delle utilità date o promesse. Pur con le modifiche apportate dalla legge n. 190/2012 e dal d.lgs. n. 202/2016, emergeva l'impossibilità di sussumere nella fattispecie astratta così descritta molte delle condotte aventi, invece, una spiccata portata corruttiva, quali ad esempio la condotta dell'offerta (sul versante della corruzione attiva) e della sollecitazione (sul versante della corruzione passiva) di un indebito vantaggio. Ad essere escluse dall'ambito di operatività della norma in commento erano anche le violazioni degli obblighi inerenti all'ufficio o degli obblighi di fedeltà degli apicali nelle funzioni di amministrazione e controllo che non avevano cagionato nocumento alla società, nonché le condotte di istigazione alla corruzione tra privati, sia dal lato attivo (qualora l'offerta o la promessa all'intraneo non fosse da questi accettata), che dal lato passivo (qualora la sollecitazione dell'intraneo non fosse accolta) (Di Vizio, 4). Proprio nel tentativo di sopperire ai vuoti di tutela appena descritti, il decreto legislativo n. 38/2017 ha sensibilmente inciso sull'ambito di operatività della fattispecie in commento, sia con riferimento al delitto di corruzione passiva di cui ai primi due commi, che a quello di corruzione attiva di cui al terzo comma dell'art. 2635. In ordine alla corruzione passiva, oltre all'estensione del novero dei soggetti punibili, di cui si è già dato atto, ed al riferimento al fatto che la condotta può essere realizzata anche per interposta persona, si segnalano le tre ipotesi ascrivibili ai corrotti all'esito della riformulazione del primo comma, ossia il sollecitare o ricevere, per sé o per altri, denaro o altra utilità non dovuti, o accettarne la promessa, per compiere o per omettere un atto in violazione degli obblighi inerenti all'ufficio o agli obblighi di fedeltà. Il riferimento al sollecitare o ricevere l'indebito vantaggio attraverso il denaro od altra utilità per sé o per altri, in cambio della violazione degli obblighi di ufficio e di fedeltà ricalca lo schema della corruzione passiva propria antecedente, di stampo pubblicistico. Nessuna sanzione penale viene, invece, prevista per la corruzione passiva impropria (quando l'atto compiuto è conforme ai doveri che scaturiscono dalla propria funzione), né per quella passiva propria susseguente. Quanto alla corruzione attiva di cui al terzo comma, essa risulta ampliata dalla previsione dell'offerta oltre che dalla promessa o dazione dell'indebito vantaggio (denaro o altra utilità «non dovuti») per gli intranei, in rapporto sinallagmatico rispetto alla violazione degli obblighi di ufficio e di fedeltà, appunto secondo lo schema pubblicistico della corruzione attiva propria antecedente e concomitante. In definitiva, del tutto in linea con le direttive provenienti dalle fonti sovranazionali, la novella del 2017 ha ampliato le condotte attraverso le quali si perviene all'accordo corruttivo, attualmente identificabili anche nella sollecitazione (per la corruzione passiva) e nell'offerta (per la corruzione attiva) di denaro o altra utilità qualora non dovuti da parte, rispettivamente, del soggetto intraneo e dell'estraneo. Si tratta di condotte che rappresentano le premesse dell'accordo corruttivo, sul quale si annida il disvalore della nuova fattispecie (Di Vizio, 4). L'atto il cui compimento o la cui omissione integra il delitto di infedeltà a seguito di dazione o promessa di utilità (oggi corruzione tra privati) può essere costituito anche da un parere ovvero dal voto espresso ai fini della formazione della delibera di un organo collegiale della società (Cass. pen. V, n. 5848/2012). La giurisprudenza di legittimità ha, inoltre, ritenuto soggetto alla confisca obbligatoria di cui all'art. 2641 c.c. e, pertanto, al sequestro preventivo, ai sensi dell'art. 321, comma 2, c.p.p., il bene utilizzato per commettere il reato di corruzione fra privati, dovendo attribuirsi tale qualifica con riferimento al momento storico del perfezionamento dell'accordo criminoso (e verificando che tale caratteristica sia stata mantenuta nel momento successivo dell'esecuzione dell'accordo) quale mezzo concretamente utilizzato dalle parti per far conseguire ad uno dei soggetti indicati dall'art. 2635 l'utilità illecita, indipendentemente dal fatto che il bene stesso non sia strutturalmente funzionale alla commissione del reato e che successivamente ad essa non abbia conservato una destinazione illecita. Nella fattispecie esaminata dalla S.C. trattavasi di sequestro finalizzato alla confisca di immobile acquistato dal corrotto con mutuo proprio, allo scopo di farne oggetto di un contratto di locazione stipulato con il corruttore che prevedeva la corresponsione di canoni superiore ai ratei mensili di mutuo, consistendo proprio in tale differenza il prezzo del reato di cui all'art. 2635 c.c.; nella circostanza, è stato ritenuto legittimo il diniego di restituzione dell'immobile, anche dopo il venir meno del contratto di locazione, osservando che tale tipo di sequestro richiede solo l'esistenza del nesso strumentale, anche occasionale, fra la res e la perpetrazione del reato, e non esige, invece, alcun rapporto di stabile asservimento della cosa alla commissione del reato che si traduca in una prognosi di pericolosità connessa alla sua libera disponibilità (Cass. pen. V, n. 33027/2017). Il bene giuridicoTra le diverse modifiche apportate all'art. 2635 c.c. dal d.lgs. n. 38/2017, quella di maggior rilievo è sicuramente rappresentata dall'espunzione al primo comma della relazione eziologica tra la condotta di trasgressione degli obblighi di ufficio e di fedeltà ed il danno alla società. La soppressione dell'inciso («cagionando nocumento alla società»), ha segnato il passaggio dal carattere privatistico del bene giuridico tutelato dalla norma, a quello pubblicistico. Essa ha rappresentato, inoltre, un approdo da tempo atteso dalla dottrina, che lo menzionava tra gli elementi di inefficienza della previgente fattispecie. Era, infatti, diffusa l'idea che, nonostante il nomen iuris attribuito al delitto in esame, il fulcro del disvalore non era di fatto concentrato sul mercimonio della funzione privata e dei poteri ad essa associati. La fattispecie risultava di fatto inadeguata alla repressione dei fenomeni corruttivi privati consumati da gestori e dipendenti infedeli che si arricchivano, imponendo tangenti per interessi personali (Bricchetti, 524). Attualmente, invece, la figura criminosa incentra il disvalore sull'accordo corruttivo in sé ed è stata novellata, almeno dichiaratamente, per dare attuazione a quegli obiettivi di stampo internazionale, incentrati principalmente sul rafforzamento della tutela di interessi marcatamente pubblicistici. In particolare, essa mira a tutelare l'affidamento dei terzi nella trasparenza e nel buon funzionamento del mercato, oltre che la salvaguardia della competitività delle imprese e delle regole concorrenziali. Si tratta, dunque, di interessi la cui titolarità non sembra riconducibile a singoli individui, o almeno non solo ad essi. In un simile quadro, la scelta del legislatore del 2017 di non voler rinunciare al regime della procedibilità a querela, è apparsa del tutto ingiustificata. È evidente, infatti, che la subordinazione della punibilità alla querela di parte, rispecchia una visione patrimoniale del pregiudizio ed è coerente con il carattere privatistico del bene giuridico. Visione che, al contrario, sembrava del tutto abbandonata con l'espunzione del riferimento al nocumento alla società. Il concreto rischio, non dissolto dalla riforma, è quindi che, attraverso l'attribuzione alla società o all'ente privato dell'autentico potere di decidere se i comportamenti corruttivi debbano o meno essere in concreto puniti, si viene a creare un'area d'impunità per comportamenti potenzialmente lesivi d'interessi generali. Il tutto in totale controtendenza rispetto agli obiettivi imposti dalle fonti internazionali, cui l'ordinamento interno mirava a dare attuazione (Di Vizio, 7). Tali dubbi, come già evidenziato, di fatto si sono dissolti con Civilel’abrogazione nel 2019 della procedibilità a querela del reato in questione. BibliografiaBricchetti, La corruzione tra privati, in Diritto penale delle società. Accertamento delle responsabilità individuali e processo alla persona giuridica, a cura di Canzio, Cerqua, Luparìa, Milano, 2016; Cerqua, La corruzione tra privati, in La riforma dei reati societari, a cura di Piergallini, Milano, 2004; Di Vizio, La riforma della corruzione tra privati, in Quot. giur. 2017; Faiella, La corruzione tra privati, in Diritto penale dell'economia, a cura di Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Torino, 2017; Melchionda, Sub art. 2635 c.c. (Corruzione fra privati), in Giur. it. 2012; Seminara, Il reato di corruzione tra privati, in Soc. 2013; Stampanoni, Bassi, Modifiche alla disciplina della corruzione tra privati: pubblicato in G.U. il Decreto Legislativo 15 marzo 2017 n. 38, in Giur. pen. web 2017, 4. Potrebbe interessarti |