Riconoscimento della protezione internazionale (semplificazione dei riti)Fonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 737
22 Maggio 2019
Inquadramento
L'istituto della protezione internazionale, introdotto con la Direttiva 2004/83/CE, recepita in Italia con il d.lgs. n. 251/2007 (il cd. “decreto qualifiche”), include lo status di rifugiato, ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951, e lo status di protezione sussidiaria.
Il ricorso. Efficacia sospensiva
Il legislatore con il d.l. n. 13/2017 (cd. Decreto Minniti-Orlando) è ritornato all'impostazione originaria del d.lgs. n. 25/08, che prevedeva il rito camerale per la trattazione delle impugnazioni delle decisioni della Commissione in materia di protezione internazionale. Il comma 3, dell'art. 35-bis d.lgs.n. 25/2008, dispone che la tempestiva proposizione del ricorso determina l'automatica sospensione dell'efficacia dell'atto impugnato, ad eccezione delle ipotesi in cui si presume ex lege la strumentalità della domanda (impugnazione proposta da soggetto trattenuto nei centri di cui all'articolo 10-ter del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, ovvero nei centri di cui all'articolo 14 del medesimo d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286; impugnazione di un provvedimento che dichiari l'inammissibilità della domanda di protezione ovvero la dichiari manifestamente infondata; impugnazione avverso il provvedimento adottato nei confronti dei soggetti di cui all'articolo 28-bis, commi 1-ter e 2, lettera c) – soggetto che presenta la domanda dopo essere stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli alla frontiera, oppure fermato in condizioni di soggiorno illegale, al solo scopo di impedire l'adozione o l'esecuzione di un provvedimento di espulsione o respingimento). In tali ultimi casi, viene, comunque, fatta salva la possibilità per l'interessato di chiedere tutela cautelare, formulando un'apposita istanza ed adducendo “gravi e circostanziate ragioni”. Il giudice, membro del collegio designato per la trattazione della causa, si pronuncia con decreto motivato inaudita altera parte entro cinque giorni dal deposito dell'istanza di sospensiva. Il decreto con cui viene riconosciuta o negata la sospensione del provvedimento amministrativo impugnato, è notificato, unitamente alla domanda di sospensione, alle parti, le quali hanno facoltà di depositare note difensive nei successivi cinque giorni e note di replica nei cinque giorni ancora successivi. Nel caso in cui tali note siano state depositate, il giudice, nei cinque giorni successivi, si pronuncia con nuovo decreto, non impugnabile né revocabile, che conferma, modifica o revoca il provvedimento già emanato, chiudendo in questo modo il sub procedimento cautelare ante causam. In ogni caso, non può essere sospesa l'efficacia esecutiva del provvedimento della Commissione che dichiara, per la seconda volta, la domanda di protezione inammissibile.
Rito camerale
Entro venti giorni dal deposito del ricorso, la Commissione territoriale che ha adottato il provvedimento di diniego impugnato, rende disponibili al Tribunale tutti gli atti posti a fondamento della propria decisione (copia della domanda di protezione internazionale, copia della videoregistrazione e del verbale di trascrizione della videoregistrazione, copia di tutta la documentazione acquisita nel corso della fase amministrativa e C.O.I. -Country Origin Information- utilizzate). Il procedimento è trattato in camera di consiglio, e non viene fissata udienza di comparizione delle parti, fatti salvi i casi previsti dall'art. 35-bis, commi 10 e 11, del d.lgs. n. 25/2008. É previsto, in particolare, che il giudice, dopo aver visionato la videoregistrazione del colloquio dell'interessato, possa comunque disporne l'audizione, se ritenga indispensabile chiedere chiarimenti alle parti; ancora, l'udienza è prevista allorché il giudice disponga l'assunzione di mezzi di prova o consulenza tecnica d'ufficio. In base alla normativa in esame, l'udienza “è altresì disposta” quando la videoregistrazione del colloquio personale non sia disponibile – e, dunque, anche qualora l'interessato non intenda avvalersene –, là dove l'impugnazione si fondi su elementi non dedotti nella procedura amministrativa innanzi alla Commissione o il richiedente ne abbia fatto richiesta motivata in sede di ricorso. La residualità della comparizione delle parti, dunque, crea la tendenza ad un modello processuale “cartolare”, in cui il contraddittorio viene garantito per iscritto. Proprio la possibile pretermissione dell'udienza di comparizione delle parti costituisce uno degli aspetti maggiormente discussi della riforma introdotta col decreto Minniti- Orlando. Si è posto il problema della necessità di fissazione dell'udienza di comparizione delle parti, in caso di indisponibilità della videoregistrazione dell'audizione personale del richiedente. Una parte della giurisprudenza, nelle prime applicazioni della normativa in materia, ha reputato superflua la disponibilità della videoregistrazione, considerata la trascrizione automatica in lingua italiana dell'audizione in Commissione territoriale, poi sottoscritta dal componente della Commissione che ha condotto il colloquio e dal richiedente protezione internazionale, ove possibile, anche accompagnato da un legale o, se necessario, da un tutore, in caso si tratti di richiedente “vulnerabile”. In quest'ottica, dunque, il diritto del richiedente di essere ascoltato non potrebbe configurarsi come diritto assoluto, con esclusione dell'obbligatorietà della fissazione dell'udienza. Non può, però, sottovalutarsi la possibile compressione, ad opera del modello processuale disegnato dal riformatore, del diritto di difesa dei richiedenti la protezione internazionale, e del principio del contraddittorio, che trova la più̀ alta forma di garanzia nel principio di oralità. La Corte di cassazione, con sentenza n. 17717/2018, è intervenuta sul punto, con una pronuncia che ha anche fugato alcuni dei dubbi di costituzionalità della normativa in esame. Sul punto della necessaria fissazione dell'udienza di comparizione, in mancanza di videoregistrazione del colloquio da parte della Commissione, la Suprema Corte ha affermato che nel giudizio di impugnazione della decisione della Commissione territoriale innanzi all'autorità giudiziaria, in caso di mancanza della videoregistrazione del colloquio, il giudice deve necessariamente fissare l'udienza per la comparizione delle parti, configurandosi, in difetto, la nullità del decreto con il quale viene deciso il ricorso, per violazione del principio del contraddittorio. Tale interpretazione, secondo la Corte, è resa evidente non solo dalla lettura, in combinato disposto, dei commi 10 ed 11 dell'art. 35-bis del d.lgs. n. 25/2008, che distinguono, rispettivamente, i casi in cui il giudice può fissare discrezionalmente l'udienza, da quelli in cui egli deve necessariamente fissarla, ma anche dalla valutazione delle intenzioni del legislatore che ha previsto la videoregistrazione quale elemento centrale del procedimento, per consentire al giudice di valutare il colloquio con il richiedente in tutti i suoi risvolti, inclusi quelli non verbali, anche in ragione della natura camerale non partecipata della fase giurisdizionale. L'unica eccezione al principio suesposto ammessa riguarderebbe il caso di accoglimento dell'istanza del richiedente stesso di non avvalersi del supporto contenente la registrazione del colloquio. L'interpretazione costituzionalmente orientata della norma data dall'arresto richiamato consente anche di ritenere superati i dubbi di costituzionalità della nuova normativa sul punto: la Cassazione ha, infatti, chiarito che «è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, dell'art. 35-bis, comma 1, del d.lg. n. 25/2008, poiché il rito camerale ex art. 737 c.p.c., che è previsto anche per la trattazione di controversie in materia di diritti e di "status", è idoneo a garantire il contraddittorio anche nel caso in cui non sia disposta l'udienza, sia perché tale eventualità è limitata solo alle ipotesi in cui, in ragione dell'attività istruttoria precedentemente svolta, essa appaia superflua, sia perché in tale caso le parti sono comunque garantite dal diritto di depositare difese scritte». Eliminazione del secondo grado di giudizio
Il Tribunale, in composizione collegiale, decide della controversia sulla base degli elementi esistenti al momento della decisione, entro quattro mesi dalla presentazione del ricorso – si tratta di un termine ordinatorio –, con decreto. Il comma 13 del nuovo art. 35-bis del d.lgs. n. 25/2008 introduce una peculiare eccezione rispetto alle previsioni generali di cui all'art. 739 c.p.c., con l'abolizione del grado di appello per il richiedente nei cui confronti sia stata rigettata la richiesta per il riconoscimento della protezione internazionale dal giudice di prime cure. Infatti, il decreto con cui viene deliberato il rigetto del ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale, oggi, non è più reclamabile, ma esclusivamente ricorribile per cassazione nel termine di 30 giorni dalla comunicazione del decreto a cura della cancelleria. Il deposito del ricorso per Cassazione non sospende automaticamente gli effetti della pronuncia di primo grado. Solo in presenza di fondati motivi, il giudice di primo grado che ha deciso la controversia di merito può disporre la sospensione degli effetti del proprio decreto di rigetto. Si apre, allora, un sub procedimento cautelare post causam, che inizia con il deposito dell'istanza cautelare entro cinque giorni dalla proposizione del ricorso per cassazione e che deve essere comunicata, a cura della cancelleria, alla controparte, la quale ha facoltà di depositare una nota difensiva nei cinque giorni successivi. A decide sull'istanza cautelare con decreto non impugnabile entro il termine dei successivi cinque giorni è lo stesso Collegio che ha definito la causa. Secondo il legislatore della riforma la creazione delle sezioni speciali e le competenze specifiche dei giudici che le compongono, e che decidono in composizione collegiale, sarebbero una garanzia sufficiente per determinare l'adeguatezza di una pronuncia di merito sulla richiesta di protezione internazionale. Anche per tale profilo, è intervenuto un importante arresto della giurisprudenza di legittimità, a dissipare le perplessità in ordine alla legittimità costituzionale della normativa in materia (cfr. Cass. civ., n. 28119/2018): si è affermato che il doppio grado di giudizio è «privo di copertura costituzionale», e che, in particolare, con riferimento al procedimento per il riconoscimento della protezione internazionale, pur dovendosi considerare «il rilievo primario del diritto in contesa, deve per altro verso sottolinearsi che il ricorso in esame è preceduto da una fase amministrativa, destinata a svolgersi dinanzi ad un personale specializzato, nell'ambito del quale l'istante è posto in condizioni di illustrare pienamente le proprie ragioni attraverso il colloquio destinato a svolgersi dinanzi alle C.T., di guisa che la soppressione dell'appello si giustifica anche per il fatto che il giudice è chiamato ad intervenire in un contesto in cui è stato già acquisito l'elemento istruttorio centrale – per l'appunto il colloquio – per i fini dello scrutinio della fondatezza della domanda di protezione, il che concorre a far ritenere superfluo il giudizio di appello». Sempre in ordine ai rimedi avverso il decreto del Tribunale, si sono avanzati dubbi di legittimità costituzionale in ordine al previsto termine di trenta giorni per proporre ricorso per cassazione. La Cassazione ha però ritenuto la previsione di tale termine espressione della discrezionalità del legislatore, trovando fondamento nelle esigenze di speditezza del procedimento, con manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata sul punto (cfr. Cass. civ., n. 17717/2018). La protezione umanitaria
Un cenno obbligato va fatto, al termine della presente disamina, anche alle modifiche introdotte dal d.l. n. 113/18 in tema di protezione umanitaria. All'interno del sistema pluralistico della protezione internazionale, si inseriva, come detto, la c.d. protezione umanitaria, introdotta dalla l. n. 40/1998, e trasfusa nel d.lgs. n. 286/1998, quando ancora non era vigente il sistema comunitario di protezione internazionale. Anche a seguito dell'esordio della protezione sussidiaria nel 2007, a livello giurisprudenziale, si affermò che i requisiti della protezione sussidiaria non coincidessero con quelli richiesti per l'adozione della protezione umanitaria, la quale si fonda sul principio di non refoulement, incentrato su ragioni umanitarie nuove e diverse, in senso oggettivo e soggettivo, da quelle già oggetto del procedimento per il riconoscimento di protezione internazionale. La protezione umanitaria è stata oggi soppressa come categoria generale dal d.l. n. 113/2018, sostituita da figure tipiche e circoscritte. L'art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286/1998 (TU immigrazione), prima delle modifiche introdotte con il d.l. n. 113/18, prevedeva la possibilità di rilascio del permesso di soggiorno in presenza di «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali». La norma è stata modificata nel senso di espungere tale possibilità, con modifica conseguente anche dell'art. 32, comma 3, d.lgs. n. 25/2008, che, nella versione attuale, non dispone più che la Commissione territoriale trasmetta gli atti al questore per il rilascio del permesso di soggiorno nei casi di cui al citato art. 5, comma 6 TU, bensì solo nei casi in cui non venga accolta la domanda di protezione internazionale e ricorrano i presupposti di cui all'art. 19, commi 1 e 1.1, del d.lgs. 286/1998. In questo caso, la trasmissione degli atti al questore avviene per il rilascio di un permesso di durata annuale, «rinnovabile, previo parere della Commissione territoriale», che «consente di svolgere attività lavorativa ma non può essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro», recando la dicitura «protezione speciale». Il rilascio del permesso di soggiorno è oggi previsto per “casi speciali”: per cure mediche(allorché́ lo straniero versi in condizioni di salute di eccezionale gravità tali da determinare un irreparabile pregiudizio alla salute in caso di rientro del medesimo nel Paese di provenienza – art. 19, comma 2 lett. d-bis), e nei casi previsti dagli articoli 18 (motivi di protezione sociale), 18-bis (vittime di violenza domestica), 20-bis (per calamità), 22, comma 12-quater (nelle ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo), e 42-bis (per atti di particolare valore civile). Da diverse parti sono stati sollevati dubbi di compatibilità della nuova disciplina con il diritto sovranazionale e con la Costituzione. Sul piano del diritto europeo, però, a ben vedere, viene imposto solo il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, fatta salva la possibilità per gli Stati membri di rilasciare, in qualsiasi momento, un permesso di soggiorno autonomo o un'altra autorizzazione che consenta a un cittadino di un paese terzo, la cui permanenza sarebbe altrimenti irregolare, di soggiornare nel proprio territorio, per motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura (art. 6, par. 4, direttiva 2018/115). Si sono, invece, ipotizzati possibili profili di violazione della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che potrebbero sorgere nel caso in cui, dal mancato riconoscimento di protezione, possa discendere per la persona del richiedente un concreto rischio di essere sottoposta a tortura o ad un trattamento inumano. In ordine alla legittimità costituzionale della normativa in esame, preme ricordare che si è attribuito in passato, da parte della giurisprudenza prevalente, al permesso di soggiorno umanitario, copertura costituzionale, quale forma, insieme allo status di rifugiato ed alla protezione sussidiaria, di attuazione del diritto di asilo, costituzionalmente garantito dall'art. 10, comma 3, della Costituzione. L'art. 5 del d.lgs. n. 286/1998, nella formulazione originaria, priva di previsioni tipiche e, dunque, coerente con il carattere aperto della protezione umanitaria, poteva rappresentare, seguendo tale impostazione, l'attuazione, a livello di normativa primaria nazionale, di un obbligo costituzionale inderogabile. A fronte di tali problematiche, alcuni dei primi commentatori della nuova normativa sono arrivati a ipotizzare una diretta applicabilità dell'art. 10, comma 3, Cost. a privare parzialmente di efficacia la modifica introdotta col decreto sicurezza, rimanendo applicabile la concessione del permesso umanitario, quale attuazione del diritto di asilo, nel caso in cui si verifichi una privazione dei diritti fondamentali dell'uomo nel paese di appartenenza. Profili di diritto intertemporale con riguardo al d.l. n. 113/2018
Altra questione rilevante e discussa con riferimento alla disciplina introdotta col decreto sicurezza riguarda l'applicabilità ai giudizi in corso del nuovo “sistema” dei permessi per casi speciali e per protezione speciale. Il d.l. n. 113/2018 ha incisivamente modificato le fattispecie che consentivano l'accesso alla tutela cd. umanitaria (condizioni di vulnerabilità̀): da una pluralità non predeterminata di situazioni di vulnerabilità̀ derivanti da una norma “aperta”, si è passati a un regime che prevede un numero chiuso di permessi per “casi speciali”. Con l'entrata in vigore della nuova normativa, i fatti che avevano condotto il richiedente alla proposizione della domanda potrebbero non integrare più il paradigma del riconoscimento del diritto alla concessione del permesso umanitario. I commi 8 e 9 dell'art. 1, d.l. n. 113/18, prevedono una disciplina di raccordo temporale tra la vecchia e la nuova normativa. Il comma 8 disciplina i casi di permesso umanitario, già riconosciuto ai sensi del previgente art. 32, comma 3, d.lgs.n. 25/2008 (ovvero quelli riconosciuti dalle Commissioni territoriali o dal giudice all'esito del giudizio sulla domanda di protezione internazionale), in corso di validità̀ alla data di entrata in vigore del decreto (5 ottobre 2018): tali permessi conservano efficacia, pur dovendosi, alla scadenza, valutare il rinnovo alla stregua del parametro dell'art. 32 comma 3 come novellato. Il comma 9 regola, invece, i casi in cui la Commissione territoriale non abbia accolto la domanda di protezione internazionale, ma abbia “ritenuto sussistenti gravi motivi di carattere umanitario” per il rilascio di un permesso di soggiorno recante la dicitura “casi speciali”. Non viene, invece, espressamente regolato il caso in cui la commissione non si sia ancora pronunciata o si sia pronunciata negativamente sulla domanda di protezione. Ebbene va ritenuto che il d.l.n. 113/2018 non escluda il rilascio del permesso per casi speciali a chi abbia già maturato il diritto al permesso di soggiorno umanitario prima del 5 ottobre 2018, anche per ragioni di tutela dell'affidamento del richiedente e in applicazione del principio di irretroattività di cui all'art. 11 delle preleggi del codice civile. Gran parte della giurisprudenza di merito si è conformata a tale interpretazione, con irretroattività della novella legislativa in tema di permesso per casi speciali ai giudizi introdotti anteriormente all'entrata in vigore del d.l. (ad es. Trib. Genova, sez.XI, 23 ottobre 2018). Anche la Corte di cassazione ha optato di recente per tale soluzione affermando che «La normativa introdotta dal decretolegge n. 113 del 2018, nella parte in cui ha modificato la disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari, non si applica alla domanda giudiziale presentata prima dell'entrata in vigore delle nuove norme (5 ottobre 2018). In caso di accoglimento della domanda, il Questore rilascerà un permesso di soggiorno contrassegnato dalla dicitura "casi speciali" e soggetto alla disciplina e all'efficacia temporale prevista dall'articolo 1, comma 9, del decreto legge menzionato» (cfr. Cass. civ., sez. I, 19 febbraio 2019, n. 4890).
Riferimenti
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