La messa alla prova e la continua ricerca di soluzioni giurisprudenziali ai problemi applicativi

Leonardo Degl'Innocenti
Eleonora Antonuccio
Eleonora Antonuccio
12 Ottobre 2018

La legge 67 del 2014 ha introdotto, nel nostro ordinamento, la possibilità anche per gli adulti di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova. Tale nuovo istituto, nei primi quattro anni di applicazione pratica, ha generato importanti contrasti giurisprudenziali su aspetti cruciali che hanno invocato l'intervento anche delle Sezioni unite della Corte di cassazione e della Corte costituzionale.
Abstract

La legge 67 del 2014 ha introdotto, nel nostro ordinamento, la possibilità anche per gli adulti di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova. Tale nuovo istituto, nei primi quattro anni di applicazione pratica, ha generato importanti contrasti giurisprudenziali su aspetti cruciali che hanno invocato l'intervento anche delle Sezioni unite della Corte di cassazione e della Corte costituzionale.

Il quadro normativo e la natura dell'istituto

La sospensione del procedimento con messa alla prova per adulti costituisce una nuova causa di estinzione del reato e, al contempo, un nuovo modulo processuale di definizione alternativa al dibattimento, introdotta nel nostro ordinamento con il Capo II della l. 28 aprile 2014, n. 67, Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, pubblicata sulla G.U. n. 100 del 2 maggio 2014.

Per questa sua natura composita, la disciplina del nuovo istituto si rinviene nel codice penale (artt. 168-bis, 168-ter, 168-quater), nel codice di rito (artt. 464-bis, 464-ter, 464-quater, 464-quinquies, 464-sexies, 464-septies, 464-octies, 464-novies, 657-bis) e nelle sue disposizioni attuative (artt. 141-bis, 141-ter), nel testo unico in materia di casellario giudiziale (art. 3, comma 1, lett. i-bis, d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313), in apposito regolamento, previsto dall'art. 8 della stessa l. 67/2014 ed emanato dal Ministero della Giustizia il 8 giugno 2015 e, infine, nelle linee guida e nei protocolli che i diversi tribunali italiani hanno provveduto ad adottare di concerto con gli operatori locali (Consigli dell'Ordine degli Avvocati, Camere penali, Uffici di esecuzione penale esterna, Uepe) per i dettagli operativi. Si segnala che, da ultimo, le disposizioni in materia di casellario giudiziale sono state implementate dall'approvazione di apposito decreto legislativo, non ancora pubblicato in Gazzetta ufficiale, che attua la delega contenuta nell'art. 1, commi 18 e 19, della legge 23 giugno 2017, n. 103, c.d. riforma Orlando. In effetti, era apparso da subito necessario un miglior coordinamento dell'istituto con la disciplina del casellario giudiziale, ove, grazie al nuovo decreto, sarà iscritto, oltre al già previsto provvedimento di sospensione del procedimento, anche la sentenza di estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova. Entrambe queste decisioni risulteranno dal casellario generale, com'è opportuno ai fini della preclusione alla concessione del beneficio per più di una volta. Invece, non compariranno né nel certificato emesso su richiesta dell'interessato, né in quello richiesto dalle amministrazioni pubbliche o gestori di pubblici servizi. Infine, per espressa dizione del nuovo comma 8 dell'art. 28 d.P.R. 313/2002, l'interessato che renda dichiarazione sostitutiva delle certificazioni del casellario non è tenuto a indicare i provvedimenti riguardanti la messa alla prova. Tali scelte legislative paiono in linea con la natura di “alternativa” alla pena del percorso della messa alla prova, di cui si tenta di ridurre il più possibile l'effetto stigmatizzante.

La struttura dell'istituto costituisce un esempio di probation processuale sulla falsariga del modello già previsto nel nostro ordinamento in ambito minorile dall'art. 28 del d.P.R.22 settembre 1988, n. 448. Anche qui, infatti, il periodo di messa alla prova dell'imputato (maggiorenne al momento della commissione del fatto) interviene prima della pronuncia di una sentenza di condanna.

Come efficacemente chiarito dalla Corte costituzionale, «il nuovo istituto ha effetti sostanziali, perché dà luogo all'estinzione del reato, ma è connotato da un'intrinseca dimensione processuale, in quanto consiste in un nuovo procedimento speciale, alternativo al giudizio, nel corso del quale il giudice decide con ordinanza sulla richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova» (Corte cost., 26 novembre 2015, n. 240).

Le Sezioni unite della Cassazione, richiamando quest'ultima pronuncia della Consulta, hanno sottolineato il significato della messa alla prova quale «rinuncia statuale alla potestà punitiva condizionata al buon esito di un periodo di prova controllata e assistita» con «una accentuata dimensione processuale, che la colloca nell'ambito dei procedimenti speciali alternativi al giudizio» (Cass. pen., Sez. unite, 31 marzo 2016, n. 36272).

Più di recente, la Corte costituzionale ha evidenziato che nel procedimento di messa alla prova mancano sia la condanna, sia, a monte, l'attribuzione di colpevolezza, in quanto il trattamento alternativo alla pena che sarebbe stata applicata nel caso di un'eventuale condanna è disposto nei confronti dell'imputato su sua richiesta e non è una sanzione penale, eseguibile coattivamente, ma un'attività rimessa alla spontanea osservanza delle prescrizioni da parte dell'interessato, il quale liberamente può farla cessare con l'unica conseguenza che il processo sospeso riprende il suo corso, mentre, in caso di esito positivo si giunge a una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato (Corte cost., 27 aprile 2018, n. 91).

Queste caratteristiche fondamentali hanno fornito anche la bussola per le soluzioni adottate nell'applicazione pratica dell'istituto, che ha conosciuto non poche incertezze.

Alla prova dei fatti, la disciplina dell'istituto ha rivelato, infatti, importanti lacune che hanno rimesso al formante giurisprudenziale il compito di apprestare le risposte applicative, compito impegnativo che ha visto e vede l'insorgere di importanti contrasti. Senza pretesa di esaustività, nel presente contributo, si intende offrire una rassegna delle soluzioni giudiziali offerte ai principali problemi pratici finora sollevati.

La soglia edittale di applicabilità

I requisiti di tipo oggettivo e di tipo soggettivo per ottenere la sospensione del processo con messa alla prova si rinvengono nel comma 1 dell'art. 168-bis c.p., il quale seleziona le fattispecie interessate secondo tre criteri:

  • i reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria;
  • i reati puniti con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria;
  • i delitti indicati dall'art. 550, comma 2, c.p.p.: la violenza o minaccia a un pubblico ufficiale prevista dall'art. 336 c.p.; la resistenza a un pubblico ufficiale prevista dall'art. 337 c.p.; l'oltraggio a un magistrato in udienza aggravato a norma dell'art. 343, comma 2, c.p.; la violazione di sigilli aggravata a norma dell'articolo 349, comma2, c.p.; la rissa aggravata a norma dell'articolo 588, comma 2., c.p., con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime; il furto aggravato a norma dell'art. 625 c.p.; la ricettazione prevista dall'art. 648 c.p.

Il criterio della soglia di pena massima non esplicita se debba tenersi o meno conto della commisurazione in concreto, limitandosi a menzionare la pena edittale.

Sul punto, si sono confrontati due orientamenti della Corte di cassazione.

Il primo si è ancorato al dato letterale per escludere la rilevanza di qualsivoglia circostanza aggravante, comprese quelle ad effetto speciale, argomentando anche in senso sistematico: un diverso regime sarebbe stato esplicitato dal legislatore, come avvenuto negli artt. 4 c.p.p., 157 c.p. e 278 c.p.p., e contrasterebbe con la volontà espressa nei lavori preparatori (Cass. pen., Sez. VI, 9 dicembre 2014, n. 6483; conf. Cass. pen., Sez. IV, 10 luglio 2015, n. 32787; Cass. pen. Sez. II, 14 luglio 2015, n. 33461).

L'orientamento giurisprudenziale avverso ritiene il principio appena affermato non condivisibile «perché asistematico rispetto agli altri istituti che, pur esprimendosi nel senso di tener conto 'della pena stabilita dalla legge per il reato per il quale si procede', riconducono a unità il sistema con norme volte a stabilire i criteri di determinazione della pena, quali quelle previste dagli artt. 4, 278, 379 e 550 c.p.p. Tali criteri non possono che trovare applicazione anche nell'ipotesi prevista dall'art. 168 bis c.p., altrimenti il criterio 'quantitativo', oltre che essere asistematico rispetto alle ipotesi dianzi indicate, si porrebbe in palese contrasto con il criterio 'qualitativo', attuato con l'espresso richiamo all'art. 550,comma 2, c.p.p., là dove il legislatore ha effettuato una precisa scelta di 'indicare normativamente', i delitti per i quali è ammesso il nuovo istituto della "messa alla prova", per delitti puniti anche con pena prevista anche da aggravanti 'per le quali la legge prevede una specie di pena diversa da quella ordinaria' e per quelle 'ad effetto speciale'» (Cass. pen., Sez. VI, 30 giugno 2015, n. 36687; Cass. pen., Sez. VI, 6 ottobre 2015, n. 46795).

Le Sezioni unite della Corte sono intervenute a dirimere il contrasto accogliendo la soluzione per cui il riferimento dell'art. 168-bis c.p. debba intendersi alla pena massima prevista per la fattispecie-base, senza che rilevino le circostanze aggravanti, nemmeno se a effetto speciale né quelle per le quali la legge abbia previsto una pena diversa da quella ordinaria del reato (Cass. pen., Sez. unite, 31 marzo 2016, n. 36272): «la soluzione che ritiene l'irrilevanza delle circostanze risulta confermata non solo dall'interpretazione letterale dell'art. 168-bis c.p., che pone in evidenza la mancanza di ogni riferimento agli accidentalia delicti, e dalla ricostruzione della voluntas legis, ma anche da un'interpretazione logico-sistematica, là dove si osservi che l'effetto di estendere l'ambito applicativo della messa alla prova a reati che possono presentare un maggiore disvalore trova piena giustificazione con il fatto che si tratta di un istituto che prevede, comunque, un "trattamento sanzionatorio" a contenuto afflittivo, non detentivo, che può condurre all'estinzione del reato. Tale carattere, infine, è confermato dall'art. 657-bis c.p.p., in cui si prevede che nel determinare la pena da eseguire in caso di fallimento della prova (a seguito di revoca o di esito negativo della messa alla prova) venga comunque detratto il periodo corrispondente a quello della prova eseguita».

La competenza del giudice

L'art. 464-bis c.p.p. indica, al comma 2, i termini entro cui la richiesta di sospensione con messa alla prova può essere avanzata dall'interessato.

Nei procedimenti con udienza preliminare, il termine è quello delle conclusioni a norma degli artt. 421 e 422 c.p.p. e la competenza a decidere sull'istanza non potrà che essere del giudice dell'udienza preliminare.

Nel giudizio direttissimo e nel giudizio a citazione diretta, il termine per la presentazione è quello della dichiarazione di apertura del dibattimento. Nel caso sia stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta di sospensione con messa alla prova deve essere avanzata nel termine di 15 giorni dalla notifica, ai sensi dell'art. 458, comma 1, c.p.p. In tutte queste ipotesi, la competenza è del giudice del dibattimento dinnanzi al quale pende il giudizio.

Nel caso, invece, di emissione del decreto penale di condanna, la richiesta deve essere presentata con l'opposizione, quindi nel termine di 15 giorni dalla notifica, ma sull'individuazione del giudice competente è sorto un contrasto giurisprudenziale.

Secondo un primo orientamento (Cass. pen., Sez. I, 3 febbraio 2016, n. 25867), la competenza sarebbe spettata al giudice del dibattimento perché, intanto, l'art. 461, comma 3, c.p.p. che, a seguito di opposizione, assegna al giudice che ha emesso il decreto penale di condanna la decisione sull'ammissione al giudizio abbreviato ovvero sull'applicazione della pena a norma dell'art. 444 c.p.p., non sarebbe applicabile, in via analogica, alla richiesta di messa alla prova ex art. 464-bis c.p.p.; inoltre, confermerebbe la scelta per il giudice del dibattimento la previsione dell'art. 464-sexies c.p.p., secondo cui, durante la sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice acquisisce, a richiesta di parte, le prove non rinviabili e quelle che possono condurre al proscioglimento dell'imputato con le modalità stabilite per il dibattimento.

Questa impostazione non ha ricevuto, però, l'avallo delle decisioni di legittimità successive che hanno, anzi, virato verso la soluzione opposta, ormai consolidata, che indica quale giudice competente quello per le indagini preliminari (Cass. pen., Sez. I, 2 febbraio 2017, n. 21324; Cass. pen., Sez. I, 28 marzo 2017, n. 36593; Cass. pen., Sez. I, 5 giugno 2017, n. 30721; Cass. pen., Sez. I, 20 settembre 2017, n. 53409; Cass. pen., Sez. I, 27 settembre 2017, n. 53622; Cass. pen., Sez. I, 7 dicembre 2017, n. 7955; Cass. pen., Sez. I, 18 gennaio 2018, n. 8174; Cass. pen., Sez. I, 18 gennaio 2018, n. 8177; Cass. pen., Sez. I, 27 marzo 2018, n. 18040).

La Corte di legittimità ha, infatti, successivamente, valorizzato che anche per la sospensione del procedimento con messa alla prova - non a caso disciplinata nell'introdotto Titolo V-bis del Libro VI del codice di rito che prevede proprio i procedimenti speciali – il sistema individua per l'accesso sedi, limiti temporali e scansioni affatto analoghi a quelli previsti per l'accesso al giudizio abbreviato o al patteggiamento e dunque il giudice chiamato a decidere sulla richiesta formulata dall'imputato non può che essere, anche per tale procedimento speciale, il giudice che, in ciascuna delle sedi individuate, procede. Inoltre, l'uso dell'espressione con le modalità stabilite per il dibattimento utilizzata nell'art. 464-sexies c.p.p., citato nella sentenza di orientamento opposto, parrebbe dimostrare proprio il contrario di quanto in quella si sostiene: perché se la competenza fosse - sempre - riservata al giudice del dibattimento, non vi sarebbe stata ragione alcuna per tale precisazione, riservata alle forme da adottare (v. Cass. pen., Sez. I, 2 febbraio 2017, n. 21324).

Ai sensi dell'art. 464-ter c.p.p., è anche possibile che l'indagato formuli la richiesta di sospensione con messa alla prova nel corso delle indagini preliminari. In questa ipotesi, l'istanza dovrà essere presentata al giudice per le indagini preliminari, che trasmetterà gli atti al pubblico ministero per il consenso. La competenza a decidere sulla richiesta spetterà, quindi al Gip e, in caso di rigetto, l'interessato potrà riproporla in limine al dibattimento.

Con la pronuncia della Corte costituzionale, 5 luglio 2018, n. 141, è stata, infine, introdotta una nuova possibilità di ammissione alla messa alla prova. La Consulta ha, infatti, dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 517 c.p.p. nella parte in cui non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova nel caso in cui sia stata contestata, nel corso del dibattimento, una nuova circostanza aggravante.

La presentazione della richiesta e gli avvisi

Quanto alla forma della richiesta, essa segue il paradigma dei diritti personalissimi: l'art. 464-bisc.p.p. precisa che «può essere proposta, oralmente o per iscritto» e «la volontà dell'imputato è espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è autenticata nelle forme previste dall'articolo 585, comma 3»; l'art. 464-quaterc.p.p. prevede che il giudice disponga la comparizione dell'imputato quando ritenga di dover verificare la volontarietà della richiesta.

La Cassazione ha precisato di recente che, ove il difensore munito di procura speciale si avvalga per la presentazione della richiesta di un sostituto processuale, questi non potrà validamente prestare il consenso alla modifica o all'integrazione della richiesta di messa alla prova in difetto di apposita procura speciale (Cass. pen., Sez. III, 16 febbraio 2018, n. 16711).

Per agevolare la presentazione della richiesta di messa alla prova in corso di indagini preliminari ai sensi dell'art. 464-ter c.p.p., il legislatore della riforma ha introdotto, tra le disposizioni attuative al codice di rito, l'art. 141-bis c.p.p. che consente al pubblico ministero di avvisare, anche prima dell'esercizio dell'azione penale, l'interessato della possibilità di essere ammesso, in presenza dei presupposti, alla prova con esito estintivo del reato.

L'articolato della l. 67/2014 nulla aveva modificato, invece, nella disciplina degli avvisi contenuti nel decreto penale di condanna in ordine alla possibilità di accedere al nuovo istituto.

Tale omissione è stata censurata con l'illegittimità costituzionale dalla Corte cost., 21 luglio 2016, n. 201, che ha, dunque, aggiunto in via pretoria all'art. 460, comma 1, lett. e), c.p.p. la previsione che il decreto penale di condanna debba contenere anche l'avviso all'imputato della facoltà di chiedere, mediante l'opposizione, la sospensione del procedimento con messa alla prova. La Consulta ha, infatti, ritenuto che debbano valere anche per questo strumento i principi fissati per gli altri riti alternativi e quindi che, poiché nel procedimento per decreto il termine entro il quale chiedere la messa alla prova, come quello per richiedere l'accesso agli altri riti, è anticipato rispetto al giudizio, la mancata previsione tra i requisiti del decreto penale di condanna di un avviso anche per la messa alla prova comportasse una lesione del diritto di difesa e la violazione dell'art. 24, secondo comma, Cost.

In conseguenza di tale pronuncia, nei casi di notifica di decreti penali di condanna privi dell'avviso, si sono registrate soluzioni diversificate.

Con la decisione Cass. pen., Sez. II, 16 gennaio 2018, n. 6748, la Corte di legittimità ha dichiarato abnorme il provvedimento del Tribunale di rimessione in termini dell'interessato per la richiesta di messa alla prova, nel caso in cui lo stesso Tribunale avesse precedentemente dichiarato la nullità del decreto penale opposto rinviando gli atti al Gip per la nuova emissione corretta con l'avviso: nella vicenda concreta, l'interessato aveva proposto opposizione, il giudizio era proseguito verso il dibattimento, la difesa aveva, quindi, eccepito la nullità del decreto penale di condanna per difetto dell'avviso sulla messa alla prova e il tribunale aveva rinviato gli atti al Gip, quest'ultimo aveva a sua volta restituito gli atti al tribunale ritenendo che il decreto penale dovesse essere revocato, in quanto opposto, con prosecuzione del giudizio; ricevuti gli atti, il tribunale aveva emesso decreto di revoca della sua precedente ordinanza di nullità e fissato udienza con termini per l'imputato per la richiesta di sospensione con messa alla prova. La Seconda Sezione della Cassazione ha annullato senza rinvio quest'ultimo decreto ritenendo che il tribunale avesse esaurito i suoi poteri con la precedente ordinanza.

In altro caso del tutto analogo, in cui del pari l'imputato aveva chiesto l'annullamento del provvedimento del tribunale di revoca della precedente ordinanza di nullità del decreto penale di condanna e di remissione in termini per la richiesta di messa alla prova, la Quarta Sezione penale ha, invece, ritenuto il ricorso inammissibile in quanto privo d'interesse perché «nella fase in cui il processo si trovava allorché è stata pronunciata la sentenza d'incostituzionalità, l'unico provvedimento idoneo a garantire l'esercizio da parte dell'imputato della facoltà di formulare l'istanza ai sensi dell'art. 168-bis c.p.p. sarebbe stato il provvedimento di restituzione in termini ai sensi dell'art. 175 c.p.p., comma 1, così come effettivamente adottato dal tribunale», sicché «l'imputato non conseguirebbe, infatti, alcun concreto vantaggio dalla riviviscenza della pronuncia con cui il decreto penale opposto è stato dichiarato nullo, trattandosi, come detto, di provvedimento inutilmente emesso» (Cass. pen., Sez. IV, 4 maggio 2018, n. 34326).

Un'ulteriore ipotesi è costituita dal caso in cui, emesso il decreto penale di condanna senza avviso sulla messa alla prova, l'imputato l'abbia opposto eccependo la nullità, ma senza richiedere il rito speciale. Nella vicenda storica, il Gip investito dell'opposizione aveva emesso decreto di citazione a giudizio e il giudice del dibattimento, dinnanzi al quale l'eccezione di nullità era stata reiterata dalla difesa, aveva restituito gli atti al Gip. Quest'ultimo, a sua volta, declinava la competenza ritenendo che la nullità eccepita fosse stata sanata dal fatto che la parte si era avvalsa della facoltà al cui esercizio l'atto nullo era preoordinato. Sollevato il conflitto da parte del tribunale, la Corte di cassazione, in ossequio all'orientamento che ha affermato la competenza del Gip a decidere sulla richiesta di messa alla prova avanzata con l'opposizione a decreto penale di condanna, ha affermato la competenza del GIP anche nel caso di decreto penale nullo, trasmettendogli gli atti per l'emissione di «nuovo decreto di condanna recante, tra l'altro, l'avviso all'imputato della facoltà di chiedere con atto di opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova» (Cass. pen., Sez. I, 11 maggio 2018, n. 27236; identica anche Cass. pen., Sez. I, 11 maggio 2018, n. 27237; conf. Cass. pen., Sez. I, 11 maggio 2018, n. 27235).

In senso opposto, la Cassazione ha affermato che il giudizio debba proseguire dinnanzi al tribunale nell'ipotesi in cui fosse stato emesso un decreto penale senza l'avviso sulla messa alla prova e, formulata nell'opposizione l'eccezione di nullità, il GIP avesse disposto il giudizio ordinario, perché «una volta opposto, il decreto penale di condanna perde la natura di condanna anticipata, producendo come unico effetto quello di introdurre un giudizio (immediato, abbreviato, di patteggiamento) del tutto autonomo e non dipendente da esso. Nella specie, instaurato il dibattimento a seguito di opposizione, il tribunale non avrebbe potuto dichiarare la nullità di un decreto penale di condanna non più esistente, ma avrebbe dovuto procedere alla trattazione del processo, e pronunciarsi nel merito in ordine a tutte le richieste formulate dall'imputato, ivi compresa la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova» (Cass. pen., Sez. I, 11 giugno 2018, n. 29846).

Con l'adeguamento degli uffici giudiziari alla sentenza della Corte costituzionale, questa casistica andrà, verosimilmente, ad esaurirsi.

Sembra, tuttavia, utile sottolineare, anche a fini pratici, che la nullità del decreto penale di condanna privo dell'avviso sulla messa alla prova è da inquadrarsi tra le nullità di ordine generale non assolute, in quanto l'omissione costituisce un'illegittima menomazione della facoltà di chiedere un rito alternativo, ossia di una delle più incisive forme di intervento dell'imputato, rilevante ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p. (Cass. pen., Sez. IV, 21 febbraio 2017, n. 21897). Con la conseguenza che tale nullità si sana, in base al combinato disposto dell'art. 180 c.p.p. e art. 182, comma 2, c.p.p. ove non eccepita dalla parte che vi assiste immediatamente dopo il suo compimento.

Aderendo a tale qualificazione della nullità anzidetta, la Corte di cassazione ha anche dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputato che, dopo aver formulato un'opposizione a decreto penale di condanna con richiesta di giudizio abbreviato, abbia eccepito in udienza, prima della formalizzazione dell'ammissione al rito alternativo, la nullità del decreto penale di condanna alla stregua della pronuncia di incostituzionalità nel frattempo emessa, senza, però, richiedere l'ammissione alla messa alla prova, né la restituzione in termini per valutare tale possibilità, con prosieguo del giudizio in abbreviato. La richiesta del giudizio abbreviato ha avuto effetto sanante della nullità ai sensi dell'art. 183 c.p.p. (Cass. pen., Sez. III, 23 marzo 2018, n. 30654).

L'omesso avviso della facoltà di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova non ha, invece, effetto sul decreto di citazione a giudizio, perché la soluzione adottata dalla Corte costituzionale per il decreto penale di condanna «non appare 'esportabile' nella fattispecie che ci occupa, nella quale l'omissione dell'avviso non può determinare alcun pregiudizio irreparabile per la parte non incorrendo la medesima in alcuna decadenza nella proposizione della richiesta, tranquillamente avanzabile in sede di giudizio nei limiti temporali in esso stabiliti» (Cass. pen., Sez. II, 23 dicembre 2016, n. 3864; conf. Cass. pen., Sez. III, 26 giugno 2018, n. 43635).

Il regime delle impugnazioni

Sul piano normativo, il sindacato sui provvedimenti riguardanti l'istanza di messa alla prova trova i suoi riferimenti negli articoli:

  • art. 464-ter, comma 4, c.p.p. che prevede che, in caso di rigetto dell'istanza formulata nel corso delle indagini preliminari, l'interessato possa rinnovare la richiesta prima dell'apertura del dibattimento di primo grado;
  • art. 464-quater, comma 7, c.p.p. secondo il quale l'imputato e il pubblico ministero, anche su istanza della persona offesa, possono ricorrere per cassazione contro l'ordinanza che decide sull'istanza di messa alla prova, e la persona offesa può impugnare autonomamente per omesso avviso dell'udienza o perché, essendo comparsa, non è stata sentita;
  • art. 464-quater, comma 9, c.p.p. ove è previsto che, in caso di reiezione dell'istanza, questa può essere riproposta nel giudizio prima della dichiarazione di apertura del dibattimento;
  • art. 464-octies, comma 3, c.p.p. riguardante la ricorribilità per cassazione solo per violazione di legge dell'ordinanza di revoca della sospensione con messa alla prova.

In tale quadro, non pare esserci spazio per l'impugnazione del rigetto dell'istanza pronunciato dal Gip o dal Gup, prevedendo il sistema l'espressa facoltà di riproposizione della richiesta nel passaggio processuale successivo.

Così la Cassazione ha chiarito che, in caso di rigetto della richiesta di messa alla prova avanzata in fase d'indagini preliminari a seguito di parere negativo del Pubblico Ministero, l'imputato potrà rinnovare la richiesta prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, ma non impugnare autonomamente il rigetto, non essendo ciò previsto da alcuna disposizione e non ricorrendo quel carattere di definitività che consentirebbe la ricorribilità per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost. (Cass. pen., Sez. VI, 21 ottobre 2015, n. 4171).

Invero, in un precedente riguardante il rigetto della richiesta in sede di udienza preliminare, la Corte di legittimità aveva ritenuto che la difesa non potesse riproporla in sede di conclusioni della medesima udienza, avendo esaurito tale potere in quella fase, ma potesse reiterare l'istanza prima della dichiarazione di apertura del dibattimento oppure anche ricorrere per cassazione (Cass. pen., Sez. II, 4 novembre 2015, n. 45338). Le Sezioni unite, invece, hanno escluso la ricorribilità per cassazione accomunando il provvedimento del Gup a quello del Gip perché «il legislatore favorisce la riproposizione della domanda ogni qual volta venga rigettata, ponendo come limite ultimo quello della dichiarazione di apertura del dibattimento. Il recupero della richiesta attraverso la sua riproposizione porta ad escludere l'impugnabilità del provvedimento. Peraltro, l'opportunità della reiterazione dell'istanza consente all'interessato di giustificare anche nel merito la richiesta e al giudice di operare una piena rivalutazione. Solo il rigetto all'ultimo stadio, quello che avviene in apertura del dibattimento, apre la strada all'impugnazione del provvedimento negativo» (Cass. pen., Sez. unite, 31 marzo 2016, n. 33216).

Quest'ultima considerazione del massimo consesso è, in realtà, un obiter dictum rispetto alla questione di diritto rimessa al Collegio in via principale sul regime delle impugnazioni in sede dibattimentale di cui al comma 7 dell'art. 464-quater c.p.p.

La dizione dell'articolo, infatti, non precisando se siano ricomprese anche le ordinanze di rigetto, ha dato adito a un contrasto giurisprudenziale tra l'orientamento che ammetteva l'immediata ricorribilità per cassazione anche dell'ordinanza di rigetto della richiesta di messa alla prova (Cass. pen., Sez. V, 20 ottobre 2015, n. 4586; Cass. pen., Sez. VI, 14 ottobre 2015, n. 50021; Cass. pen., Sez. II, 2 luglio 2015,n. 41762; Cass. pen., Sez. VI, 30 giugno 2015, n. 36687 Cass. pen., Sez. II, 6 maggio 2015, n. 20602; Cass. pen., Sez. III, 24 aprile 2015, n. 27071; Cass. pen., Sez. V, 23 febbraio 2015, n. 24011) e l'orientamento che, invece, riteneva l'ordinanza impugnabile solo congiuntamente alla sentenza conclusiva del grado di giudizio, ai sensi dell'art. 586 c.p.p. (Cass. pen., Sez. V, 3 giugno 2015,n. 41033; Cass. pen., Sez. II, 12 giugno 2015,n. 40397; Cass. pen., Sez. V, 3 giugno 2015, n. 25566; Cass. pen., Sez. V, 15 dicembre 2014, n. 5673; Cass. pen., Sez. V, 14 novembre 2014, n. 5656).

Le Sezioni unite hanno, innanzitutto, ribadito che «certamente, la norma consente l'impugnabilità diretta ed autonoma del provvedimento con il quale, in accoglimento dell'istanza dell'imputato, il giudice abbia disposto la sospensione del procedimento, giacché in tal caso alle parti non sarebbe altrimenti consentito alcun rimedio avverso la decisione assunta». Rispetto alle ordinanze dibattimentali di rigetto, hanno aderito al secondo orientamento, escludendo la ricorribilità immediata per cassazione (Cass. pen., Sez. unite, 31 marzo 2016, n. 33216).

L'innegabile ambiguità della normativa è stata sciolta con una serie di argomenti sia letterali, sia sistematici: la dizione del comma 7 dell'art. 464-quater c.p.p., senza espliciti riferimenti all'ordinanza di rigetto, è stata letta in coordinato col successivo comma 9, che invece si occupa espressamente della “reiezione” dell'istanza prevedendo la sua riproposizione nel giudizio; la previsione che anche l'imputato possa ricorrere per cassazione è da considerarsi ragionevole anche laddove si interpreti la norma come riferibile ai soli provvedimenti di accoglimento perché anche rispetto a questi possono figurarsi ipotesi in cui l'imputato abbia interesse al ricorso per cassazione; l'esclusione espressa dell'effetto sospensivo del ricorso per cassazione, se fosse ricorribile anche il rigetto della richiesta di messa alla prova, provocherebbe effetti irragionevoli, perché il procedimento penale andrebbe avanti nell'accertamento della responsabilità dell'imputato e l'annullamento del rigetto da parte della Cassazione potrebbe intervenire a condanna già pronunciata; infine, per limitarsi alle argomentazioni principali, le Sezioni unite hanno sottolineato le maggiori garanzie difensive esercitabili mediante l'appello, rispetto al mero vaglio di legittimità che sarebbe consentito ove si ritenesse ricorribile per cassazione il rigetto.

In caso di accoglimento dell'appello, secondo la soluzione indicata dalle Sezioni Unite, il giudice di secondo grado si sostituirà a quello di primo grado, ammettendo l'imputato alla messa alla prova, per i principi di conservazione degli atti e di economia processuale, ciò anche nel caso in cui il primo grado si sia concluso con una pronuncia di accertamento della responsabilità penale.

Le successive pronunce delle Sezioni semplici hanno aderito al principio di diritto (v. Cass. pen., Sez. IV, 22 marzo 2018, n. 27396; Cass. pen., Sez. III, 16 maggio 2018, n. 31410).

La revoca della sospensione e i suoi effetti

Una volta che la messa alla prova sia stata disposta, l'art. 464-septies c.p.p. prevede che il giudice ne valuti l'esito alla fine del periodo di sospensione, dichiarando estinto il reato, se la prova si è svolta positivamente, ovvero disponendo la prosecuzione del giudizio, in caso di esito negativo.

Il legislatore ha contemplato anche l'ipotesi in cui il periodo di sospensione venga interrotto prima con la revoca dell'ordinanza ai sensi dell'art. 464-octies c.p.p.

I presupposti per la revoca sono quelli tassativamente indicati dall'art. 168-quater c.p.: la grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni imposte, ovvero il rifiuto della prestazione; la commissione durante il periodo di prova di un nuovo delitto non colposo ovvero di un reato della stessa indole di quello per cui si procede.

A tal fine, l'art. 4, comma 4, del regolamento impone all'Uepe di dare immediata comunicazione al giudice del rifiuto dell'interessato di prestare la propria attività.

Per iniziativa anche officiosa, il giudice fisserà l'udienza in camera di consiglio (art. 127 c.p.p.) ove procedere alla valutazione dei suddetti presupposti. L'udienza camerale partecipata è passaggio indefettibile e il provvedimento che revochi la messa alla prova de plano è da considerarsi nullo e ricorribile per cassazione (Cass. pen., Sez. V, 24 novembre 2017, n. 57506).

Può comportare la revoca anche l'inottemperanza delle prescrizioni riguardanti i profili risarcitori (Cass. pen., Sez. VI, 9 febbraio 2018, n. 7909).

Laddove l'imputato giustifichi il rilevato, totale disinteresse al programma trattamentale con una malattia certificata, il giudice dovrà valutare l'intensità e la gravità della malattia (Cass. pen., Sez. V, 29 maggio 2018, n. 29237).

Se l'U.E.P.E. ha redatto una relazione negativa sul rispetto delle prescrizioni che sia smentita dalla documentazione in atti, ma il giudice ha comunque revocato la messa alla prova, l'imputato può ricorrere per cassazione chiedendo l'annullamento della revoca per vizio di legge (Cass. pen., Sez. VI, 28 giugno 2018, n. 31009).

Quanto al periodo di tempo rilevante per la commissione di un nuovo delitto non colposo o di un reato della stessa indole, esso inizia a decorrere, non dalla presentazione dell'istanza, ma dall'emissione dell'ordinanza di ammissione alla messa alla prova (Cass. pen., Sez. V, 14 luglio 2017, n. 43645; conf. Cass. pen., Sez. VI, 28 giugno 2018, n. 31005).

La Cassazione si è espressa in senso più volte univoco nel ritenere che il presupposto di cui all'art. 168-quater, comma 1, n. 2, c.p. sia integrato anche in assenza di un provvedimento irrevocabile sulla commissione del nuovo delitto non colposo o del nuovo reato della stessa indole (Cass. pen., Sez. VII, 23 giugno 2017, ord., n. 37680; Cass. pen., Sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 28826; Cass. pen., Sez. IV, 6 aprile 2018, n. 22066).

La Corte di legittimità accede a un'accezione di “commissione” intesa come un accadimento storico-naturalistico, un fatto illecito rimesso alla valutazione del giudice del procedimento sospeso anche in difetto di una sentenza di condanna irrevocabile. Sarebbe irragionevole, infatti, imporre al giudice di revocare la messa alla prova in presenza dei comportamenti di cui all'art. 168-quater, comma 1, n. 1, c.p. rimettendo la valutazione di quelli più gravi costituenti reato ad altro giudice. Difficilmente, inoltre, la tempistica giudiziaria produrrebbe l'accertamento irrevocabile del nuovo reato prima della conclusione del periodo di messa alla prova, finendo per depotenziare l'effetto dissuasivo del presupposto per la revoca e per alimentare condotte dilatorie in seno al nuovo procedimento penale. Infine, la non necessità di attendere la definizione del nuovo procedimento penale si pone in linea con la natura special-preventiva e premiale dell'istituto, che consente al giudice della messa alla prova di valutare tutti quei comportamenti che rendano l'interessato non più meritevole di seguire il percorso alternativo alla pena a cui è stato ammesso.

Dopo aver diffusamente argomentato la ragionevolezza di tale opzione ermeneutica, la Cassazione si preoccupa comunque di fugare il rischio di un contrasto di giudicati sullo stesso fatto e di revoche della messa alla prova in situazioni ancora non nette. In questo senso, esprime un monito affinché «la 'commissione' del fatto reato determinante la revoca del beneficio sia provata in termini di elevata probabilità e che la delibazione in ordine alla serietà dell'accusa sia compiuta sulla scorta di una solida base cognitiva», anche tenendo conto degli altri snodi processuali che presuppongono una valutazione circa la solidità del quadro accusatorio (come i mezzi di impugnazione cautelare o il decreto che dispone il giudizio all'esito dell'udienza preliminare), nonché esercitando il prudente apprezzamento del giudicante sulla base del corredo documentale in atti ovvero delle prospettazioni e degli elementi obiettivi ulteriori forniti in contraddittorio dalle parti all'udienza ex art. 464-octies, comma 2, c.p.p. (Cass. pen., Sez. VI, 23 febbraio 2018, n. 28826).

L'ordinanza di revoca è ricorribile per cassazione solo per vizi di legge, per cui le censure riconducibili a vizi di motivazione comportano l'inammissibilità del ricorso (Cass. pen., Sez. VI, 12 aprile 2018, n. 28235).

Alla definitività dell'ordinanza di revoca consegue la ripresa del procedimento dal momento in cui era stato sospeso. Ciò comporta che, nel caso in cui la richiesta di messa alla prova fosse stata avanzata in fase d'indagini preliminari, il Gip dovrà dar seguito al procedimento senza rimettere gli atti al pubblico ministero.

Infatti, «l'imputazione che il pubblico ministero è chiamato a formulare nel momento in cui presta il consenso, ai sensi dell'art. 464 ter c.p.p., comma 3, ha la stessa natura di esercizio di azione penale di quella prevista dall'art. 405 cod. proc. pen. e non è mera descrizione del fatto per l'individuazione della fattispecie di reato, necessaria alla prestazione del consenso», per cui, in caso di revoca, il procedimento non può regredire alla fase di indagine, già esaurita (Cass. pen., Sez. IV, 11 aprile 2018, n. 29393).

In conclusione

All'esito di questa breve ricognizione, risulta evidente la problematicità della normativa introdotta dal Legislatore che, sin dai suoi primi passi, ha conosciuto non poche difficoltà e su aspetti certamente non marginali.

La Corte costituzionale e la Cassazione, nei loro interventi, hanno, da un lato, insistito sulla sua natura processuale, sfruttandone le similitudini con i riti alternativi già noti e collaudati per ricavare le necessarie soluzioni pratiche meglio percorribili. Non hanno mancato, dall'altro, di valorizzarne la natura sostanziale singolare di percorso alternativo alla sanzione penale tradizionale, in chiave sicuramente deflattiva ma anche nell'ottica di un'auspicata rimeditazione del rapporto del reo col sistema penale che responsabilmente lo riconcili con la comunità e con l'eventuale persona offesa.

Queste meritorie affermazioni di principio, con le ricadute operative esaminate, costituiscono, d'altra parte, una piattaforma sulla quale sarà necessario che si innesti una sinergica collaborazione degli operatori del diritto con le altre istituzioni, quali gli uffici per l'esecuzione penale esterna e gli enti di volontariato, affinché insieme possano costruire dei percorsi effettivi di attività socialmente utili e di mediazione penale, per consentire così la concreta riuscita della messa alla prova con tutte le potenzialità innovative che contiene.

Guida all'approfondimento

BOVE, La messa alla prova si scrolla di dosso altre censure di incostituzionalità. Come a suo tempo il patteggiamento, in ilPenalista.it, 28 maggio 2018.

CESARI, Sospensione del processo con messa alla prova, in Enc. Dir., IX, Milano, 2016, 1005 ss.

CONTI, La messa alla prova tra le due Corti: aporie o nuovi paradigmi?, in Dir. pen. proc., 2018, 666 ss.

VENTURA, Messa alla prova. Per la revoca, in caso di nuovo delitto, non occorre una sentenza passata in giudicato, in ilPenalista.it, 7 settembre 2018.

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