Impugnazione della delibera (procedimento)

Alberto Celeste
31 Ottobre 2018

È noto che, all'interno del contenzioso civile, le controversie condominiali costituiscono oramai una grande “fetta” e, tra queste ultime, le più frequenti dal punto di vista statistico sono, senza dubbio, le impugnazioni delle delibere assembleari, che peraltro rappresentano il modo ordinario con cui si forma e si manifesta, con il metodo collegiale e in osservanza del principio maggioritario, la volontà dei condomini...
Inquadramento

Il comma 1 dell'art. 1137 c.c. è rimasto immutato, ma, riferendosi alle delibere prese dall'assemblea “a norma degli articoli precedenti”, comunque arricchiti a seguito della Riforma del 2013, la previsione normativa continua ad essere viziata per difetto.

Invero - escluso il riformulato art. 1136 c.c., che disciplina l'iter per addivenire ad una valida decisione (quanto a convocazione, costituzione, votazione, verbalizzazione, ecc.), anche se oggi indica, sia pure sotto il profilo del quorum, altre ipotesi di competenza dell'organo gestorio - il richiamo immediato è all'art. 1135 c.c., il quale, ai punti da 1) a 4), menziona espressamente le “attribuzioni” dell'assemblea, ossia, rispettivamente, la conferma dell'amministratore e l'eventuale sua retribuzione, l'approvazione delle spese occorrenti e la relativa ripartizione tra i condomini, l'approvazione del rendiconto annuale dell'amministratore e l'impiego del residuo della gestione, le opere di manutenzione straordinaria e le innovazioni previa obbligatoria costituzione di un fondo speciale di importo pari all'ammontare dei lavori.

A sua volta, l'art. 1135 c.c., quando parla delle attribuzioni dell'assemblea, si riferisce, altresì, “a quanto stabilito dagli articoli precedenti”: si pensi a quelle interessanti l'amministratore, in ordine alla nomina (art. 1129, comma 1, c.c.), alla possibilità di conferire allo stesso maggiori poteri di quelli derivanti dalla legge circa la promozione di controversie giudiziarie (art. 1131, comma 1, c.c.), al ricorso avverso i provvedimenti da lui adottati (art. 1133 c.c.), ai compiti specifici riguardo alle liti contro un condomino o contro i terzi (artt. 1131, comma 3, e 1132 c.c.), alla ricostruzione parziale dell'edificio (art. 1128, comma 2, c.c.), nonché alle innovazioni (artt. 1120 e 1121 c.c.).

Tuttavia, i poteri dell'assemblea riguardano, in linea generale, la disciplina lato sensu della cosa comune, sicché la predetta disposizione deve essere integrata con tutti quei riferimenti ai poteri del massimo organo gestorio contenuti in altre norme del codice civile e delle leggi speciali: si pensi, rispettivamente, alla formazione/modifica del regolamento (art. 1138 c.c.) e allo scioglimento del condominio (art. 61 disp. att. c.c.), oppure, per esempio, in tema di eliminazione delle barriere architettoniche (l. n. 13/1989), realizzazione di parcheggi (l. n. 122/1989), trasformazione dell'impianto di riscaldamento centralizzato e sistemi di contabilizzazione del calore (l. n. 10/1991), installazione di antenne satellitari collettive (l. n. 66/2001), ipotesi, quest'ultime, compendiate attualmente nell'art. 1120, comma 2, c.c.

Atteso il carattere meramente esemplificativo delle attribuzioni riconosciute all'assemblea dall'art. 1135 c.c., è ragionevole sostenere addirittura che la stessa assemblea, quale organo destinato ad esprimere la volontà collettiva dei partecipanti, può deliberare qualunque provvedimento, anche non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio, purché non si tratti di statuizioni volte a perseguire finalità extracondominiali.

Anche se tale norma non lo dica in modo esplicito, le statuizioni in materia di condominio sono - oltre che obbligatorie, anche - “immediatamente” efficaci, in quanto ciò si evince dal tenore del riformulato comma 3, che attribuisce appunto al giudice il potere, in casi eccezionali, di ordinare la sospensione dell'efficacia della delibera impugnata; infatti, la statuizione assembleare, quantunque illegittima, riveste pur sempre una sua efficacia obbligatoria per tutti i condomini - a prescindere dal potere/dovere dell'amministratore di eseguirla ai sensi dell'art. 1130, n. 1), c.c. - potendo venir meno solo con la sentenza che ne accerti l'invalidità.

In evidenza

Fino a tale momento della declaratoria di invalidità della delibera condominiale impugnata da parte del magistrato, la stessa, anche se palesemente viziata, è suscettibile di applicazione, a meno che non venga accolta, da parte del medesimo magistrato, l'istanza di inibitoria eventualmente avanzata dal condomino impugnante.

Il mutamento della domanda

Alla fine del c.d. tiro incrociato contemplato nella prima udienza di trattazione delineata dall'art. 183 c.p.c., scatta la barriera preclusiva relativa al thema decidendum, cioè sui fatti principali posti a fondamento delle rispettive posizioni delle parti: effettuata l'eventuale integrazione, replica e controreplica, l'oggetto dell'impugnazione della delibera condominiale dovrebbe essere definitivamente circoscritto, per poi passare alla fase istruttoria (peraltro, in questo tipo di controversie non sempre necessaria).

A proposito di quest'ultimo ius variandi - esercitabile, al massimo, nell'eventuale appendice scritta del comma 6 entro un termine perentorio - nei giudizi aventi ad oggetto le impugnazioni di delibere assembleari, appare utile ricordare che l'attore non possa, con la scusa di assestare la propria difesa e modificare la propria domanda, introdurne una nuova, a prescindere dalla possibilità di un'accettazione del contraddittorio ad opera dell'altra parte.

In generale, si può convenire che, nella valutazione dell'impugnazione di una delibera condominiale, il magistrato è necessariamente vincolato alla prospettazione del condomino impugnante, sia con riferimento al petitum che alla causa petendi.

In particolare, l'azione di impugnativa definisce sia l'oggetto della domanda, mediante l'individuazione delle parti della delibera opposta di cui si deduce l'invalidità, sia i motivi che ne giustificherebbero la relativa declaratoria, conseguendone che il giudice non potrebbe pronunciare l'illegittimità della delibera se non limitatamente alle parti oggetto di specifica contestazione e per motivi diversi da quelli fatti valere dall'istante.

Orbene, comunemente si ritiene che la mutatio libelli scatta quando si propone una domanda basata su presupposti diversi da quelli dedotti a fondamento dell'originaria istanza, dando cosí luogo ad un'oggettiva trasformazione della controversia.

Si è rilevato che ogni motivo di impugnazione di delibera condominiale si risolve in un titolo autonomo e, quindi, in una domanda autonoma, conseguendone che la richiesta, in corso di causa, di declaratoria di nullità della stessa delibera per un motivo diverso da quello dedotto configura un mutamento dell'iniziale causa petendi, e pertanto una domanda nuova vietata dall'art. 345 c.p.c. (Cass. civ., sez. II, 18 febbraio 1999, n. 1378).

In questa prospettiva - per fare qualche esempio - chiesto l'annullamento di una delibera assembleare, nella parte concernente un argomento non posto all'ordine del giorno, costituisce domanda nuova, che immuta l'iniziale causa petendi ed introduce nel processo un tema di indagine nuovo, la domanda di annullamento della stessa delibera per non essere stato dato, o non essere stato dato tempestivamente, ad alcuni condomini l'avviso della convocazione dell'assemblea; viceversa, proposta una domanda di annullamento della delibera assembleare, per essere stata approvata senza il quorum della maggioranza prescritta dall'art. 1136 c.c., o comunque in violazione dei criteri legali o/e regolamentari relativi alla ripartizione delle spese - nella specie, per il rifacimento della recinzione dei terrazzi a livello e dei balconi - è inammissibile, perché da considerarsi nuova, la domanda con la quale si deduca l'invalidità della stessa in quanto riguardante un argomento non indicato nell'avviso di convocazione dell'assemblea (Cass. civ., sez. II, 18 marzo 1989, n. 1361).

Del resto, il comma 1 dell'art. 189 c.p.c. - nel testo sostituito dall'art. 23 della l. n. 353/1990, ed ora richiamato dall'art. 281-quinquies c.p.c., come inserito dall'art. 68 del d.lgs. n. 51/1998, che disciplina la fase decisoria nel procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica - prescrive che il giudice invita le parti a precisare le conclusioni “nei limiti di quelle formulate negli atti introduttivi o a norma dell'articolo 183” c.p.c., per cui un'eventuale nuova censura in ordine alla delibera impugnata, sollevata in un momento successivo al maturarsi delle preclusioni assertive, dovrebbe considerarsi d'ufficio inammissibile, anche in caso di accettazione del contraddittorio ad opera della controparte.

Resta inteso che i predetti rilievi operano soltanto con riferimento alla proposizione di domande nuove nell'àmbito dello stesso giudizio, non precludendo che nuovi motivi di impugnazione possano essere fatti valere in un diverso giudizio, salvi, ovviamente, gli effetti di eventuali decadenze medio tempore verificatesi.

L'onere della prova

In ordine alla questione relativa alla ripartizione dell'onere della prova tra condomino impugnante e condominio resistente nel giudizio di impugnazione di cui all'art. 1137 c.c., inizialmente, si riteneva che incombesse all'impugnante l'onere di fornire la prova negativa del mancato rispetto delle regole dettate per la formazione della volontà assembleare e, nello stesso ordine di idee, che era a carico dell'opponente la prova del vizio di costituzione dell'assemblea (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 8 novembre 1989, n. 4691).

In seguito, però, la giurisprudenza di legittimità si è correttamente orientata nell'affermare che, nel caso in cui il condomino agisca per far valere l'invalidità della predetta delibera, incombe sul condominio convenuto l'onere di provare che tutti i condomini siano stati tempestivamente avvisati della convocazione, quale presupposto per la regolare costituzione dell'assemblea, mentre resta a carico dell'istante la dimostrazione degli eventuali vizi inerenti alla formazione della volontà della medesima assemblea (Cass. civ., sez. II, 12 giugno 1997, n. 5267; Cass. civ., sez. II, 19 novembre 1992, n. 12379; Cass. civ., 9 dicembre 1987, n. 9109; Cass. civ., 22 novembre 1985, n. 5769, secondo cui l'avviso di convocazione previsto dall'art. 66, ultimo comma, disp. att. c.c. deve essere non solo inviato ma anche ricevuto nel termine ivi previsto di cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza; Cass. civ., sez. II, 14 dicembre 1982, n. 6863, per la quale è, invece, sufficiente provare che l'invito all'assemblea, indipendentemente dalla sua effettiva conoscenza, sia stato regolarmente fatto ad ogni condomino).

ONERE DELLA PROVA: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

A carico del condomino impugnante

Il condomino che deduca l'invalidità di una delibera assembleare deve fornire la prova che le condizioni previste per la regolare formazione della volontà dell'assemblea non sono state rispettate (Cass. civ., sez. II, 8 novembre 1989, n. 4691).

A carico del condominio resistente

Qualora il condomino impugni la delibera assembleare lamentando la mancata menzione della regolarità delle convocazioni, la prova che tutti i condomini siano stati tempestivamente avvisati incombe sul condominio, non potendosi porre a carico del condomino l'onere di una dimostrazione negativa, quale quella dell'omessa osservanza dell'obbligo di convocare l'universalità dei condomini, trattandosi di elemento costitutivo della validità della delibera (Cass. civ., sez. VI/II, 24 ottobre 2014, n. 22685).

Sempre sul presupposto che non può addossarsi al condomino impugnante, che deduce l'invalidità dell'assemblea, l'onere di fornire la prova negativa dell'inosservanza di tale obbligo, si è ribadito che risulta a carico del condominio, convenuto dal singolo per l'annullamento della delibera perché adottata senza convocarlo, l'onere di dimostrare, anche mediante presunzioni, che invece tutti i condomini siano stati tempestivamente avvisati ai sensi degli artt. 1105, comma 3, e 1136, penultimo comma, c.c. (Cass. civ., sez. II, 19 agosto 1998, n. 8199, in materia di supercondominio, secondo cui tale prova non può essere offerta con la dimostrazione della consegna dell'avviso a soggetti ai quali non è stato conferito uno stabile potere di rappresentanza nei confronti del condominio).

A rigore, però, reputando - segnatamente sull'abbrivio di Cass. civ., sez. un., 7 marzo 2005, n. 4806- che l'omessa convocazione del condomino all'assemblea comporti la mera annullabilità della delibera adottata in quella riunione, si dovrebbe coerentemente inferire che l'onere di provare l'esistenza del vizio sia posto a carico dello stesso condomino che agisce impugnando tale delibera, essendo espressione del principio generale che è sempre onere dell'attore allegare e provare i fatti costitutivi della domanda, e, quindi, in caso di impugnazione della delibera condominiale, i fatti dai quali discende l'invalidità del provvedimento assembleare.

Il rilievo d'ufficio

L'art. 183 c.p.c. - al comma 3 (versione 1995) o al comma 4 (versione 2006) - contempla la possibilità per il giudice, all'udienza di trattazione (o a quella eventualmente fissata per il tentativo di conciliazione), di richiedere alle parti, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari, e indicare le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritenga opportuna la trattazione.

Per quanto riguarda l'indicazione delle questioni rilevabili d'ufficio, è stato evidenziato che costituisca compito essenziale del giudice quello di attuare i criteri di accelerazione e concentrazione, chiarendo il thema decidendum ed eliminando ogni indagine sul superfluo o su quanto già accertato, per essere stato allegato e non contestato, e ciò ai fini di una rapida istruzione, limitata ai veri punti controversi della lite.

In altri termini, come un impegnato tentativo da parte del magistrato può aprire la strada alla conciliazione giudiziale, ed un efficace libero interrogatorio delle parti può evidenziare le questioni realmente controverse e semplificare spesso buona parte delle prove orali, così la tempestiva indicazione delle questioni rilevabili d'ufficio consente di indirizzare sùbito l'impugnazione della delibera condominiale verso la soluzione degli aspetti di maggiore importanza, ed evita che il giudizio debba regredire, mediante rimessione in termini, in caso di emersione tardiva delle eccezioni non riservate alla parte.

Comunque, l'esercizio di questo potere da parte del giudice deve avvenire sempre con la provocazione della garanzia del contraddittorio delle parti, onde evitare decisioni a sorpresa, o della c.d. terza via (tale rilievo potrà essere segnalato anche nel prosieguo del giudizio); significativo, in tal senso, il comma 2 dell'art. 101 c.p.c. - introdotto dalla l. n. 69/2009 - secondo il quale, se il giudice ritiene di porre a fondamento della decisione una questione rilevata d'ufficio, riserva la decisione assegnando alle parti, a pena di nullità, un termine, non inferiore a venti giorni e non superiore a quaranta dalla comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie contenenti osservazioni sulla medesima questione.

Problemi possono sorgere nelle ipotesi di contumacia di una delle parti, come nel caso del condominio convenuto che, sulla base della mancata allegazione, da parte del condomino attore, di una questione rilevabile d'ufficio - si pensi alla nullità della delibera impugnata che ha approvato a maggioranza le tabelle millesimali - abbia reputato superflua ogni difesa, omettendo di costituirsi nel relativo giudizio di impugnativa; in tal caso, per rispetto del contraddittorio, sembra corretto o che il giudice si astenga dall'indicazione di tale questione, oppure che il relativo verbale di udienza sia notificato al contumace.

Si pone, quindi, la questione relativa ai limiti del potere del giudice di rilevare d'ufficio eventuali motivi di nullità della delibera opposta che non siano stati specificatamente dedotti in sede di impugnazione dal condomino istante.

Alla stregua delle considerazioni che precedono - e soprattutto alla luce del nuovo art. 101, comma 2, c.p.c. - il giudice non potrebbe porre a fondamento della sentenza questioni rilevabili d'ufficio non sottoposte all'esame e alla discussione delle parti, e qualora il rilievo avvenga in fase decisoria, lo stesso dovrebbe disporre lo spostamento della causa nella sede istruttoria affinché le parti interloquiscano sul punto, anche per l'esercizio della facoltà di precisazione e modificazione delle rispettive difese, in conseguenza dell'impostazione data alla causa dal giudice medesimo (ne consegue un rinnovo della fase trascurata ed una reimpostazione della lite).

Così, per esempio, il giudice - una volta rilevata l'opportunità di prevedere la questione come decisiva e non indicata la stessa alle parti per la trattazione in contraddittorio - non potrebbe annullare una delibera assembleare per un difetto di quorum costitutivo nel caso sia stata lamentata soltanto l'indeterminatezza del relativo ordine del giorno, oppure annullare una delibera assembleare di approvazione dello stato di ripartizione per omessa convocazione di un condomino diverso da quello che si è opposto al decreto ingiuntivo fondato su tale riparto.

Nel caso in cui, invece, ciò avvenga, la parte soccombente, la quale si duole della questione rilevata d'ufficio in sede di decisione e non segnalata per tempo - a pena di nullità ex art. 101, comma 2, c.p.c. - potrà e dovrà far valere le proprie difese di merito come motivo di gravame, e proporre, in quella sede, le opportune difese, con la conseguenza che sarà il giudice dell'appello a pronunciare nel merito, non essendo ravvisabile alcuna ipotesi di rimessione della causa al giudice di primo grado (artt. 353 e 354 c.p.c.); in sede di gravame, la parte potrà, altresì, proporre nuovi mezzi di prova, necessari in relazione all'omissione operata dal giudice di prime cure (art. 345, ultimo comma, c.p.c.).

Il vizio di extrapetizione

Le suesposte considerazioni appaiono scontate qualora si tratti di annullabilità delle delibere, ma anche il principio, sancito dall'art. 1421 c.c., secondo cui la nullità può essere dedotta in ogni tempo e può essere rilevata d'ufficio, sembra trovare un'applicazione limitata nell'àmbito del giudizio di impugnazione della delibera condominiale.

Al riguardo, i magistrati di piazza Cavour hanno ripetutamente affermato che il potere del giudice di dichiarare d'ufficio la nullità ex art. 1421 c.c. - applicabile in questo caso per analogia anche oltre l'àmbito contrattuale - va coordinato con le regole fissate dagli artt. 99 e 112 c.p.c., con la conseguenza che, soltanto se sia in contestazione l'applicazione o l'esecuzione di un atto la cui validità rappresenti un elemento costitutivo della domanda, il giudice è tenuto a rilevare, indipendentemente dall'attività assertiva delle parti, l'eventuale nullità dell'atto stesso, mentre, qualora il thema verta direttamente sull'illegittimità di questo, una diversa ragione di nullità non può essere rilevata d'ufficio, né può essere dedotta per la prima volta in grado di appello, trattandosi di una domanda nuova e diversa da quella ab origine proposta dalla parte nell'esercizio del suo diritto di azione (Cass. civ., sez. I, 14 marzo 1998, n. 2772; Cass. civ., sez. II, 12 dicembre 1986, n. 7402; Cass. civ., sez. II, 29 novembre 1985, n. 5958.).

Invero, da un lato, l'art. 112 c.p.c. prescrive che il giudice non possa pronunciare oltre i limiti della domanda, per cui la rilevabilità ex officio della nullità di una delibera condominiale può operare, senza la necessità che la parte, nei cui riguardi si richiede che la delibera spieghi i suoi effetti, sollevi la relativa eccezione, soltanto quando si chieda in giudizio l'applicabilità della delibera medesima; al contrario, se non si invoca l'applicazione della delibera, e la declaratoria di nullità non sia domandata, mediante la proposizione della relativa azione, il giudice non può, di sua iniziativa, accogliere l'impugnazione della delibera stessa a seguito della valutazione di cause di nullità non dedotte dal condomino impugnante.

Dall'altro lato, l'art. 99 c.p.c. sancisce che ogni azione è soggetta alla regola della domanda - secondo il noto principio dispositivo che presidia il processo civile - sicché il giudice non può dichiarare d'ufficio la nullità di una deliberazione assembleare della quale non si chieda in giudizio l'applicazione, dando luogo la violazione del divieto di decidere su domande non proposte ad un vizio di extrapetizione (v., in generale, tra le altre, Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 1997, n. 9877).

Di contro, sarà in facoltà del giudice rilevare l'eventuale nullità di una delibera non impugnata dal condomino, ma dalla quale esso pretende di far derivare conseguenze favorevoli, come nel caso in cui, a motivo dell'impugnazione, si deduca il contrasto con la regolamentazione adottata in ordine alle stesse questioni in una precedente delibera che risulti nulla; fermo restando, comunque, che la rilevabilità d'ufficio della nullità va sempre coordinata con i principi della domanda e della disponibilità delle prove e, pertanto, postula che risultino dagli atti i presupposti della nullità medesima, non potendo al giudice prospettarsi questioni giuridiche che presuppongano indagini per le quali manchino gli elementi necessari.

Ne consegue che, una volta spirati i termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c. - così come modificato dalla l. n. 80/2005 - si pone un barrage processuale insuperabile al fine della definizione del thema decidendum, sicché deve ritenersi preclusa sia la mutatio della causa petendi perché vietata, sia la emendatio perché tardiva (v. supra); ove si denunci un vizio di nullità della delibera condominiale, non per questo ne deriva sic et simpliciter la sua rilevabilità d'ufficio: il congegno del processo civile, basato sul principio dispositivo, esclude che il giudice, dinanzi al quale la deliberazione sia stata impugnata, ne possa, di sua iniziativa, dichiarare la nullità, ove tale accertamento presupponga l'esercizio di un'azione diversa da quella in effetti proposta, anche alla luce del nuovo art. 111, comma 2, Cost. che richiede di evitare, aldilà di precise e certe indicazioni normative, ampliamenti dei poteri di iniziativa officiosa.

Casistica

CASISTICA


Ius novorum in appello

In tema di impugnazione delle delibere condominiali, trova applicazione il principio dettato in materia di contratti secondo cui la richiesta di accertamento, per la prima volta in appello, di un motivo di nullità diverso da quelli proposti in primo grado è inammissibile, a ciò ostando il divieto di nova ex art. 345, comma 1, c.p.c., salva la possibilità per il giudice del gravame - obbligato comunque a rilevare d'ufficio ogni possibile causa di nullità - di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall'appellante, ai sensi dell'art. 345, comma 2, c.p.c. (Cass. civ., sez. II, 27 settembre 2017, n. 22678).

Principio della domanda

Poiché alle delibere condominiali si applica il principio dettato in materia di contratti, secondo cui il potere attribuito al giudice dall'art. 1421 c.c. di rilevarne d'ufficio la nullità deve necessariamente coordinarsi con il principio della domanda ex art. 112 c.p.c., il giudice non può dichiarare d'ufficio la nullità della delibera sulla base di ragioni diverse da quelle originariamente poste dalla parte a fondamento della relativa impugnazione, cosicché è inammissibile in appello, perché nuova, la domanda con cui si chiede di dichiarare la nullità di una delibera assembleare per un motivo diverso da quello fatto valere in primo grado (Cass. civ., sez. II, 27 giugno 2005, n. 13732).

Delibera a base del decreto ingiuntivo

Ben può il giudice rilevare di ufficio la nullità quando, come nella specie, si controverta in ordine all'applicazione di atti (delibera dell'assemblea di condominio) posta a fondamento della richiesta di decreto ingiuntivo, la cui validità rappresenta elemento costituivo della domanda (Cass. civ., sez. II, 27 aprile 2006, n. 9641).

Guida all'approfondimento

Scalettaris, La riforma del condominio: primi appunti in tema di controversie condominiali, in Arch. loc. e cond., 2013, 428;

Spinoso, Nuovo articolo 1137 c.c.: la riforma sceglie la strada della chiarezza, in Dossier condominio 2013, fasc. 137, 21;

Tamburro, Il restyling dell'art. 1137 c.c. in materia di impugnazione delle delibere dell'assemblea condominiale, in Arch. loc. e cond., 2013, 287;

Celeste, L'impugnazione delle delibere del condominio, Milano, 2010;

Cimatti, Sul rapporto tra il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo condominiale ed impugnazione della delibera condominiale, in Rass. loc. e cond., 2005, 187;

Manolo, Autosospensione dell'esecuzione di deliberazione condominiale e diniego di provvedimento cautelare in pendenza di altro giudizio, in Arch. loc. e cond., 2002, 55;

Crescenzi, Le controversie condominiali, Padova, 1991.

Sommario