Fine della convivenza e contributi per la costruzione della casa: disciplina dell'arricchimento senza causa
02 Novembre 2018
Massima
In caso di rottura di una relazione sentimentale, l'ex partner ha diritto a riavere il denaro e un indennizzo per il tempo libero impegnato nel lavoro per la costruzione di una casa comune, anche se questa è di esclusiva proprietà del compagno, allorquando i contributi in lavoro o in natura prestati dal partner per la realizzazione della casa non siano prestati a vantaggio esclusivo dell'altro, ma in vista di un progetto di vita comune sfumato, essendo l'azione proposta qualificabile come domanda di arricchimento senza causa, in assenza di donazioni o di conferimenti spontanei e non essendo applicabile il principio delle obbligazioni naturali. Il caso
La sentenza in commento, origina dal giudizio instaurato con ricorso avverso la sentenza della Corte d'appello di Venezia 20 gennaio 2015, n. 94, emessa in parziale accoglimento della sentenza del giudice di prime cure e ha riconosciuto il diritto dell'ex convivente ad ottenere, da parte del partner, un indennizzo per arricchimento senza giusta causa ex art. 2041 c.c., per il lavoro prestato e il denaro impiegato, prima ancora dell'inizio della convivenza, nella costruzione della casa di comune residenza ma di esclusiva proprietà del partner. Nello specifico, il Tribunale aveva rigettato il ricorso dell'ex convivente che in via principale aveva avanzato richiesta di accertamento della cessazione della convivenza, nonché della sussistenza del patrimonio comune, di cui aveva chiesto la divisione in parti uguali e, in via subordinata, aveva invocato l'azione generale di arricchimento ex art. 2041 c.c.. La Corte d'appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, pur riconoscendo la tardività della domanda ex art. 936 c.c., accoglieva quella di ingiustificato arricchimento, affermando che le prestazioni realizzate in sede di convivenza, nel caso di specie, non potevano essere ricondotte alla categoria dell'obbligazione naturale ex art. 2034 c.c. e, pertanto esse erano irripetibili, in quanto esorbitanti e quindi non proporzionali rispetto alle condizioni economiche di colei che le aveva adempiute; oltretutto, le suddette prestazioni erano state effettuate prima ancora che la convivenza avesse inizio, dunque non erano riconducibili ai doveri morali e sociali, considerati alla base della convivenza di fatto, concretizzantisi nel lavoro e nel denaro apportati da ciascun partner quale proprio contributo all'esigenze della famiglia. La Corte d'appello difatti, riconosceva all'appellante un equo indennizzo per il lavoro prestato e la ripetizione del denaro investito nella costruzione della casa, di cui riteneva provato il conferimento. Infine, riconosceva la comproprietà delle somme residue sul conto corrente cointestato e, disponeva la divisione in parti uguali ai due ex conviventi. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per Cassazione, in qualità di erede, la moglie del condannato. La Suprema Corte disattendeva il primo motivo di gravame, relativo all'improponibilità dell'azione ex art. 2041 c.c., escludendo che la domanda proposta riconducibile a quella di cui all'art. 936 c.c.. Essa riteneva invece la domanda proposta qualificabile come azione di arricchimento senza causa, di cui all'art. 2041 c.c., escludendo l'applicabilità nel caso di specie della disciplina delle obbligazioni naturali. La questione
La questione posta nella pronuncia in esame attiene alla qualificazione giuridica (se ai sensi dell'art. 936 c.c. in tema di opere fatte da un terzo con materiali propri sul suolo altrui ovvero come domanda di arricchimento senza causa) dell'azione posta in essere, a seguito della rottura di un rapporto di fidanzamento, poi divenuto convivenza, nei confronti del proprietario del suolo, da parte dell'ex compagna, quale conseguenza delle prestazioni di lavoro e dazioni di denaro effettuate per la costruzione della casa che sarebbe dovuta diventare l'abitazione comune. Difatti, le prestazioni di opera e di denaro sono andate tutte a vantaggio del partner proprietario esclusivo del fondo sul quale l'opera fu edificata che, per il principio di accessione, ha acquistato la proprietà di quanto realizzato mediante il contributo della partner, avvenuto non già per mero spirito solidaristico o di liberalità, bensì nell'ambito di un progetto di vita comune. Le soluzioni giuridiche
L'art. 936 c.c. conferma il principio del quidquid inaedificatur solo cedit, ossia il principio dell'accessione, in base al quale tutto ciò che viene edificato sul suolo ha carattere accessorio e pertanto rientra in automatico nella proprietà del titolare del diritto di proprietà del fondo su cui è stato eretto, nonostante il materiale impiegato sia di proprietà di terzi. Purtuttavia, il legislatore ha sancito che tale acquisto della proprietà non può contestualmente concretizzarsi in un ingiustificato arricchimento e quindi viene riconosciuto al proprietario dei materiali che abbia edificato la costruzione o la piantagione il diritto ad ottenere il valore dei materiali impiegati e della manodopera prestata, oppure il corrispondente aumento di valore del fondo, consequenziale alla costruzione (cfr. Cass. civ., S.U., 23 marzo 1963, n. 740). Fondamentale presupposto dell'esperibilità dell'azione ex art. 936 c.c., per giurisprudenza consolidata (Cass. civ., sez. II, 8 maggio 1996, n. 4273; Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2010, n. 20508), è l'assenza di qualsivoglia tipo di rapporto intercorrente tra il proprietario del suolo e quello dei materiali, sicché non deve sussistere alcun vincolo negoziale che abbia ad oggetto la regolamentazione dell'edificazione dell'opera, piantagione o costruzione, ossia che attribuisca il diritto di costruire al terzo. Il principio è talmente ancorato alla tradizione giuridica che non prevede deroghe nemmeno nel rapporto coniugale: invero, anche se un coniuge contribuisce alla realizzazione di un edificio situato sul fondo di esclusiva proprietà dell'altro, non acquista alcun diritto sullo stesso né esso può costituire oggetto di comunione. Il coniuge non proprietario potrà tutt'al più, chiedere la ripetizione di quanto versato, purché sia in grado di provarne i conferimenti (Cass. civ.,sez. I, 30 settembre 2010, n. 20508). Proprio tale ultimo presupposto, ovvero l'inesistenza di un rapporto di tipo negoziale concernente la costruzione dell'opera tra il proprietario del fondo e quello dei materiali, è stato ritenuto insussistente nel caso di specie dalla Corte d'appello, poi confermata dalla Suprema Corte. La ricorrente e il resistente erano fidanzati nel momento in cui contribuivano con dazioni di denaro e prestando il proprio lavoro, ai fini della realizzazione della casa che una volta terminata avrebbe costituito la loro residenza comune, sicché la ricorrente non poteva essere qualificata come terzo rispetto al suo partner proprietario del fondo: entrambi avevano deciso di contribuire con le proprie risorse alla realizzazione dell'opera. La Corte concludeva dunque che, non trattandosi di edificazione di un'opera da parte di un terzo su fondo altrui, e non potendo dunque la ricorrente essere qualificata come terzo estraneo, non era invocabile l'art. 936 c.c., tanto che la Cassazione confermava la qualificazione della domanda proposta, ai sensi dell'art. 2041 c.c., nel rispetto del principio di sussidiarietà. La Suprema Corte ha infatti ritenuto sussistente il requisito della sussidiarietà, a giustificazione dell'azione ex art. 2041 c.c., ovvero l'assenza di azioni in astratto esperibili per ottenere la riparazione per il pregiudizio subito (principio della sussidiarietà dell'azione di arricchimento senza giusta causa espresso dall'art. 2042 c.c.). Per quanto attiene al presupposto sub a), si sono affermati due orientamenti contrapposti: il primo, a sostegno della sussidiarietà in astratto, consistente nella possibilità di ricorrere all'azione ex art. 2041 c.c. soltanto nel caso in cui il legislatore non abbia previsto in astratto l'esperibilità di altra azione per il conseguimento dell'indennizzo dovuto per il pregiudizio subito nel caso concreto, a prescindere dalla concreta possibilità di ricorrervi o dalla sua utilità (rimanendo ad esempio preclusa l'azione ex art. 2041 c.c. nel caso in cui l'azione ad hoc prevista dal legislatore per il caso di specie, si sia già prescritta). Il secondo orientamento è invece, a sostegno della sussidiarietà in concreto, da considerarsi più che altro in termini di residualità; pertanto, anche laddove in astratto siano previste azioni esperibili per il caso di specie, se queste non possono essere più impiegate oppure se non portano ad alcun risultato utile, è possibile impiegare lo strumento di cui all'art. 2041 c.c.. La giurisprudenza si è consolidata intorno al primo orientamento, anche perché, in caso contrario, si vanificherebbero gli effetti della decadenza o della prescrizione (cfr. Cass. civ., sez. III, 7 giugno 2018, n. 14732 e Cass. civ., sez. lav., 10 giugno 2005, n. 12265). La ratio dell'art. 2042 c.c. che contempla il principio di sussidiarietà dell'azione di arricchimento ingiustificato, è quella di evitare che in presenza di molteplici rimedi giurisdizionali, il depauperato possa a sua volta divenire autore di arricchimento ingiusto. Nel caso di specie, trova applicazione il principio di sussidiarietà, stante la non esperibilità del rimedio tipico previsto dall'art. 936 c.c., essendosi determinato uno squilibrio tra le sfere patrimoniali dei due ex conviventi, benché lo spostamento patrimoniale non fosse giustificato dalla presenza di alcun titolo, in quanto non era stato stipulato alcun contratto o instaurato altro tipo di rapporto. Altra questione affrontata dalla sentenza in esame riguarda l'assenza di giusta causa dello spostamento patrimoniale dall'impoverito all'arricchito: l'arricchimento senza giusta causa rientra pertanto, tra “gli altri fatti” di cui all'art. 1173 c.c., che sono idonei a costituire fonte delle obbligazioni. Si è in presenza di una giusta causa quando lo spostamento patrimoniale è avvenuto sulla base di un contratto, o di un altro rapporto compiutamente regolato (Cass. civ., sez. II, 31 gennaio 2008, n. 2312), o di un atto di liberalità, o ancora di un'obbligazione naturale. Questa esigenza è legata alla pretesa dell'ordinamento a che ogni «arricchimento dipenda dalla realizzazione di un interesse meritevole di tutela»(Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2009, n. 11330). La Cassazione ha applicato i principi di diritto stabiliti, proprio in tema di apporti patrimoniali avvenuti nel corso di una convivenza more uxorio poi terminata, da Cass. civ., sez. III, 15 maggio 2009, n. 11330, cit., la quale, partendo dal presupposto che l'arricchimento/depauperamento deve avere una giustificazione giuridicamente valida (secundum ius), intendendosi per tale un titolo legale o negoziale idoneo a sorreggere sia l'incremento, sia la connessa diminuzione patrimoniale, conclude che l'arricchimento risulterà "senza una giusta causa", quando è correlato ad un impoverimento non remunerato né conseguente ad un atto liberalità e neppure all'adempimento di un'obbligazione naturale; e ciò in quanto l'ordinamento esige che ogni arricchimento dipenda dalla realizzazione di un interesse meritevole di tutela. Conseguentemente, viene ritenuto possibile configurare l'ingiustizia del arricchimento del convivente more uxorio nei confronti dell'altro, in presenza di prestazioni a vantaggio del primo risultanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti da rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicando i limiti di proporzionalità e adeguatezza. Nel caso di specie viene escluso l'intento di liberalità, pur nella sussistenza della volontarietà del contributo, proprio perché il conferimento in termini economici e di lavoro da parte della donna, destinato alla dimora comune, non è stato effettuato ad esclusivo beneficio del partner ma in vista della costruzione di un futuro comune, ovvero per realizzare un immobile che la coppia avrebbe goduto insieme all'interno del proprio rapporto, nell'ambito della realizzazione di un progetto comune. È stata pure esclusa l'applicabilità alla fattispecie della disciplina delle obbligazioni naturali di cui all'art. 2041 c.c., sia in quanto all'epoca della realizzazione della casa i componenti della coppia erano fidanzati ma non ancora conviventi, sicché non sussisteva alcuna famiglia di fatto, sia perché si trattava di esporsi consistenti, che si collocavano oltre la soglia di proporzionalità e adeguatezza rispetto ai mezzi e al tenore di vita di entrambi i partner. In materia di famiglia di fatto, la giurisprudenza ha riconosciuto che alla base di essa vi siano degli obblighi di tipo solidaristico in capo a entrambi i conviventi, per cui le prestazioni realizzate reciprocamente dai partner, vengono qualificate come obbligazioni naturali, non essendo pertanto possibile per chi ha prestato, esigerne la ripetizione (questo è particolarmente rilevante in sede di cessazione della convivenza), salvi i requisiti di proporzionalità e di adeguatezza (cfr. Cass. civ., sez. I, 22 gennaio 2014, n. 1277; Cass. civ., sez. I, 25 gennaio 2016, n. 1266). Spesso è stato utilizzato il termine “precarietà” per definire il rapporto di convivenza, proprio per l'assenza di vincoli e quindi di stabilità del rapporto. In proposito, la sentenza in esame riprende ancora la sentenza Cass. civ. n. 11330/2009, la quale ha affermato che i conviventi, pur in assenza di obblighi giuridici, si impegnano reciprocamente con prestazioni di lavoro o di tipo pecuniario, al fine di contribuire al ménage familiare e, definendo le suddette come «prestazioni rese affectionis vel benevolentiae causa». La stessa sentenza però chiarisce che, non può invocarsi l'obbligazione naturale, pertanto l'irripetibilità della prestazione conseguita, laddove essa sia stata prestata al di fuori dei doveri morali e sociali sottesi alla famiglia di fatto, o in assenza di proporzionalità e di adeguatezza rispetto alle circostanze del caso. Ritornando alla sentenza in commento, le prestazioni pecuniarie e di lavoro furono rese dalla ricorrente prima ancora che iniziasse la convivenza con il partner e, in misura sproporzionata rispetto alle condizioni economiche della stessa. Neppure erano presenti il requisito della proporzionalità dell'adeguatezza e, tanto meno quello dei doveri morali e sociali. Osservazioni
La sentenza Cass. n. 14732/2018 affronta il tema spinoso della qualificazione giudica degli apporti in denaro e del lavoro che ciascun convivente, all'interno di una famiglia di fatto, eroga come contributo al ménage familiare. Sullo sfondo vi è la questione relativa al regime patrimoniale della famiglia di fatto, sulle conseguenze derivanti dalla cessazione della convivenza more uxorio, sulle garanzie giurisdizionali riconosciute ai conviventi e quindi sui rimedi che gli stessi hanno a disposizione per tutelare la propria sfera patrimoniale. Fino al 2016 non vi erano disposizioni normative, né codicistiche e né contenute in leggi speciali, che regolamentassero il rapporto tra conviventi, le ripercussioni della convivenza sulla sfera giuridica degli stessi, nonché le vicende attinenti alla cessazione della famiglia di fatto. Peraltro, la stessa Corte costituzionale aveva negato l'estensione automatica alla convivenza di fatto delle disposizioni stabilite dall'ordinamento per la famiglia legittima, essendo essa fondata sull'affectio quotidiana, liberamente scelta e in ogni istante revocabile da ciascuna delle parti, rispetto al rapporto coniugale, caratterizzato dalla stabilità e certezza e dalla reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono solo dal matrimonio (cfr. per tutte Corte cost. 18 gennaio 1996, n. 8). Essa era dunque caratterizzata dalla precarietà e da assenza di vincoli cogenti. Tutt'al più veniva attribuito ai conviventi qualche diritto o dovere (si pensi all'obbligo di istruire ed educare i figli anche nati fuori del matrimonio, ai sensi dell'art. 30 Cost.) e si ammetteva l'esistenza di generali obblighi di assistenza e di contribuzione al ménage familiare, di natura solidaristica. Una grande innovazione si è avuta con la legge 20 maggio 2016, n. 76, che per la prima volta ha introdotto una regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e della disciplina delle convivenze. La regolamentazione della convivenza di fatto, riguarda coppie di persone dello stesso sesso o di sesso opposto che hanno deciso di vivere il rapporto di coppia al di fuori dei vincoli giuridici del matrimonio o dell'unione civile. La legge cd. Cirinnà ha invero riconosciuto la convivenza quale forma alternativa di famiglia rispetto al modello costituzionale della famiglia fondata sul matrimonio, cristallizzata nell'art. 29, comma 1, Cost., oltre che nella legge ordinaria, all'art. 143, c.c.. È stato dunque riconosciuto in capo ai partner di una convivenza, il dovere giuridico di assistenza morale e materiale, senza imporre però le modalità di contribuzione (a differenza dei coniugi, i quali a meno che non stipulino convezioni matrimoniali con le quali decidono il tipo di regime giuridico da applicare ai loro rapporti patrimoniali, sono soggetti ex lege al regime della comunione dei beni), perché saranno i conviventi a decidere il mezzo da impiegare al fine di provvedere all'adempimento della contribuzione ai bisogni della famiglia. I partner possono decidere di stipulare un contratto di convivenza (ex art. 1, comma 50, l. n. 76/2016) in cui stabilire l'entità del contributo dovuto da ciascuno, la scelta della residenza, l'adozione del regime della comunione dei beni, ma ad ogni modo, la stipulazione di tale contratto non è essenziale ai fini della configurabilità dell'esistenza di una famiglia di fatto. Benché tale contratto, se stipulato, si presenti come strumento utile alla risoluzione di controversie eventualmente insorte, i conviventi in realtà, potrebbero optare per la stipulazione di singoli negozi giuridici e comunque, in assenza di forme contrattuali, si ricorrerebbe all'istituto dell'obbligazione naturale ex art. 2034 c.c.. Qualunque sia la forma impiegata per la regolamentazione dei rapporti patrimoniali e quindi per l'adempimento del dovere di assistenza morale e materiale, ciò che preme ricordare è il cambio di opinione che è stato imposto dalla legge Cirinnà circa la qualificazione giuridica delle prestazioni adempiute dai partner in sede di convivenza, non più inquadrabili nella categoria della mera obbligazione naturale, derivante da doveri morali o sociali, quanto piuttosto configurabili come «obbligazioni in senso tecnico» (F. Caringella, L. Buffoni, Manuale di Diritto Civile, Roma, 2017, 1911.). In ogni caso, la convivenza di fatto, in assenza di apposita regolamentazione dei rapporti patrimoniali in un apposito contratto di convivenza, produce tra le parti limitati effetti di cui all'art. 1, comma 38 ss., legge n. 76/2016, che hanno un rilievo precipuamente assistenziale. Il caso al vaglio della sentenza in esame risale ad epoca gran lunga antecedente all'entrata in vigore della legge Cirinnà, per cui la convivenza che ha interessato i due soggetti coinvolti nella vicenda, deve essere valutata alla stregua della normativa all'epoca vigente. I due partner quindi, avevano la possibilità di gestire i propri rapporti patrimoniali mediante negozi giuridici all'uopo contratti o, semplicemente le prestazioni realizzate in sede di convivenza sarebbero state inquadrate nell'ottica dell'obbligazione naturale. Nella specie poi, il dato fattuale da cui è partita la Suprema Corte è che i conferimenti della richiedente erano stati erogati prima dell'inizio della convivenza, sicché neppure ha trovato applicazione la disciplina delle obbligazioni naturali, residuando l'azione sussidiaria di cui all'art. 2042 c.c.. Alla luce della disamina degli istituti richiamati dalla sentenza oggetto del presente commento, si ritiene condivisibile l'approdo a cui è giunto la Suprema Corte, la quale ha cercato di ricondurre il caso di specie a categorie giuridiche ed istituti che il legislatore ha introdotto nell'ordinamento per la regolamentazione di altre circostanze, o comunque ad istituti connotati da un alto tasso di genericità. Inoltre, la Corte ha dovuto cimentarsi nell'opera di coordinamento tra i vari istituti, dai confini incerti e facilmente sovrapponibili, purtuttavia, non violandone la natura, né forzandone la loro operatività. Inoltre, per quanto riguarda il tema centrale della convivenza di fatto, sembra che il contesto storico attuale, rappresenti il momento maturo per un'innovazione culturale e giuridica, ossia quella della rivalutazione di un modello di famiglia alternativo, con consequenziale superamento del dogma della famiglia legittima fondata sul matrimonio, per individuare soluzioni perequative, pur nella diversità dei modelli familiari e relazionali esistenti. |