Animale d'affezione e danno da sua perdita

Adriana Cassano Cicuto
29 Aprile 2014

Il danno da perdita di animale d'affezione rientra nella più ampia categoria del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), riconducibile, secondo un'opinione, alla specie danno esistenziale mentre, secondo diverso orientamento, al danno morale. Mentre infatti sembrava orientata nel primo senso seppure negandone la risarcibilità Cassazione (Cass. sez. III, sent. n. 14846/2007), si esprime invece a favore della qualificazione nell'ambito del danno morale la più recente Cass., sez. III, sent. n. 4493/2009. Non si può però escludere anche la possibilità che la perdita dell'animale d'affezione possa determinare un vero e proprio danno biologico qualora la perdita comporti nel “padrone” dell'animale l'insorgenza di una vera e propria patologia (es: depressione). Relativamente al danno patrimoniale, invece, nessun dubbio sussiste sulla sua risarcibilità, commisurato al valore venale dell'animale o alle spese per le cure necessarie in caso di lesioni, non essendovi ragioni per discostarsi dai principi generali in tema di risarcibilità del danno emergente conseguente a fatto illecito. Gli animali d'affezione, pur essendo, come tutti gli animali, parificati alle cose che possono formare oggetto di diritti (art. 810 c.c.), sono caratterizzati dal particolare rapporto che li lega al padrone. Possono essere definiti quali animali d'affezione "tutti gli animali domestici e non, che hanno un proprietario o detentore a qualsiasi titolo, con l'esclusione di quegli animali che risultino essere impiegati nelle produzioni zootecniche, nelle attività sportive professionistiche e nei servizi sociali in genere ed, inoltre con l'esclusione di tutti gli animali di cui non è consentita la cattura, la vendita e la detenzione". Tale definizione è indicata nell'art. 2 Legge Regionale Campania, 24 novembre 2001, n. 16, recante "Tutela degli animali d'affezione e prevenzione del randagismo".

Nozione

Il danno da perdita di animale d'affezione rientra nella più ampia categoria del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), riconducibile, secondo un'opinione, alla specie danno esistenziale mentre, secondo diverso orientamento, al danno morale.

Mentre infatti sembrava orientata nel primo senso seppure negandone la risarcibilità Cassazione (Cass. sez. III, sent. n. 14846/2007), si esprime invece a favore della qualificazione nell'ambito del danno morale la più recente Cass., sez. III, sent. n. 4493/2009.

Non si può però escludere anche la possibilità che la perdita dell'animale d'affezione possa determinare un vero e proprio danno biologico qualora la perdita comporti nel “padrone” dell'animale l'insorgenza di una vera e propria patologia (es: depressione).

Relativamente al danno patrimoniale, invece, nessun dubbio sussiste sulla sua risarcibilità, commisurato al valore venale dell'animale o alle spese per le cure necessarie in caso di lesioni, non essendovi ragioni per discostarsi dai principi generali in tema di risarcibilità del danno emergente conseguente a fatto illecito.

Gli animali d'affezione, pur essendo, come tutti gli animali, parificati alle cose che possono formare oggetto di diritti (art. 810 c.c.), sono caratterizzati dal particolare rapporto che li lega al padrone. Possono essere definiti quali animali d'affezione "tutti gli animali domestici e non, che hanno un proprietario o detentore a qualsiasi titolo, con l'esclusione di quegli animali che risultino essere impiegati nelle produzioni zootecniche, nelle attività sportive professionistiche e nei servizi sociali in genere ed, inoltre con l'esclusione di tutti gli animali di cui non è consentita la cattura, la vendita e la detenzione".

Tale definizione è indicata nell'art. 2 Legge Regionale Campania, 24 novembre 2001, n. 16, recante "Tutela degli animali d'affezione e prevenzione del randagismo".

Elemento oggettivo

Per danno da perdita dell'animale d'affezione si intende il pregiudizio non patrimoniale derivante, in capo al padrone dell'animale, dalla perdita del proprio animale.

Poiché il bene tutelato è la relazione affettiva tra uomo ed animale di compagnia (da cui, il concetto di “animale d'affezione” comunemente impiegato dalla giurisprudenza), motivo per cui il soggetto danneggiato non deve necessariamente essere individuato nel proprietario dell'animale, ma piuttosto con il suo “padrone”.

Il danno in questione, infatti, non attiene alla perdita di un bene in proprietà (anche se, naturalmente, la perdita dell'eventuale valore economico dell'animale resta separatamente risarcibile) ma alle conseguenze negative, sulla vita e sulla psiche del padrone, quale conseguenza della perdita del rapporto con l'animale. Pertanto, il soggetto titolare del diritto al risarcimento non può che essere individuato in quello avente una relazione affettiva con l'animale stesso.

Il riconoscimento del valore – e dunque della risarcibilità della relativa perdita – di tale relazione affettiva, tuttavia, è ancora notevolmente controversa nel nostro ordinamento.

La risarcibilità del danno da perdita dell'animale d'affezione

Il danno da perdita dell'animale d'affezione costituisce voce del danno non patrimoniale la cui risarcibilità è attualmente notevolmente controversa in dottrina e giurisprudenza.

Secondo Cassazione attualmente prevalente e confermata dalle note pronunce c.d. di San Martino del 2008 infatti, la perdita di un animale da affezione non è riconducibile ad una lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente tutelata (Cass., sez. III, sent. n. 14846/2007).

Sul tema peraltro si sono espresse, nel 2008, anche se incidentalmente, le SS.UU., (Cass., S.U. n. 26972/2008) nelle note pronunce di San Martino, laddove, dopo aver affermato la bipolarità del sistema risarcitorio, articolantesi nelle due poste di danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e non patrimoniale (art. 2059 c.c.), precisavano che, mentre la prima voce rimane tradizionalmente atipica, in quanto volta ad attribuire meritevolezza ad ogni interesse giuridicamente rilevante come peraltro già precisato e non più posto in discussione da altra storica decisione, la n. 500 del 1999; la seconda voce deve qualificarsi, al contrario, come tipica.

Tre, infatti, sono le ipotesi nelle quali, ad avviso della Corte, il danno non patrimoniale può trovare ingresso nell'ordinamento:

  1. in ipotesi di fatto costituente reato, atteso il tradizionale collegamento della norma di cui all'art. 2059 c.c. con quella di cui all'art. 185 c.p.;
  2. in caso di riconoscimento espresso da parte del legislatore di un danno non patrimoniale;
  3. in presenza di lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.

In tale ultima ipotesi, peraltro, la selezione del danno viene ad essere svolta dal Giudice, con valutazione che non può prescindere dalla individuazione della sussistenza degli elementi strutturali dell'art. 2043 c.c.: condotta - nesso causale - danno.

Proprio nella consapevolezza del potere discrezionale del Giudice nella individuazione di tali diritti, ed in particolare, nella consapevolezza della capacità dilatatoria delle previsioni di cui all'art. 2 Cost., la Corte, dopo aver censurato l'indiscriminato riconoscimento di tutela concesso sia dai giudici di merito, sia dalle stesse sezioni semplici, connesso al riconoscimento di un non riconoscibile e non tutelabile diritto alla felicità, precisa quali siano i confini entro i quali il Giudice, nell'esercizio del detto potere debba attenersi.

Si afferma, così, che il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, come tale in grado di cagionare un serio pregiudizio e che la lesione debba eccedere una soglia minima di offensività. Proprio a tal proposito la Corte per quel che attiene ai danni tradizionalmente individuati come bagatellari, afferma espressamente che “al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l'errato taglio di capelli, l'attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l'invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell'animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall'individuazione dell'interesse leso, e quindi del requisito dell'ingiustizia”.

Tuttavia, nonostante tale presa di posizione delle Sezioni Unite, la giurisprudenza di merito successiva si è fortemente divisa.

A fronte di pronunce che si conformano alle S.U., quali ad esempio Trib. Milano, sez. V, sent. n. 9453/2010 che nega la risarcibilità del danno non patrimoniale da morte di un animale di affezione, poiché non sarebbe configurabile alcuna lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente protetta, numerose altre statuizioni ne hanno invece ammesso la risarcibilità.

Quest'ultima giurisprudenza di merito muove fondamentalmente dal riconoscimento del valore sociale del rapporto animale-padrone che si inserisce in una di quelle attività realizzatrici della persona che la stessa carta Costituzionale all'art. 2 Cost. tutela.

Pertanto la tutela dell'animale di affezione dovrebbe ritenersi dotata di un valore sociale tale da elevarla al rango di diritto inviolabile ex art. 2 Cost.

Tale assunto viene confermato dalla medesima giurisprudenza di merito dalla constatazione della presenza, all'interno del nostro ordinamento, di una serie di “indici normativi” a favore del riconoscimento del valore sociale di tale rapporto.

Viene in rilievo a tal fine, in primo luogo (come sottolineato, ad esempio, da Trib. Rovereto, 18 ottobre 2009), la L. 14 agosto 1991, n. 281, c.d. Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo, nell'ambito della quale si prevede che “Lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali di affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti ed il loro abbandono, al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l'ambiente”. (art.1).

Peraltro l'introduzione effettuata con legge 11 luglio 2004, n. 189 di specifiche norme all'interno del codice penale (ci si riferisce agli artt. 544 da bis a sexiesc.p.), volte a sanzionare i c.d. delitti contro il sentimento per gli animali, con le quali vengono punite, quali forme di reato, le condotte di coloro che, con crudeltà o senza necessità, maltrattino o cagionino la morte di animali, confermano, a parere della medesima giurisprudenza, la risarcibilità ai sensi degli artt. 2059 c.c. e 185 c.p.c., del danno non patrimoniale patito dal soggetto legato da rapporto di affezione all'animale sottoposto ai detti maltrattamenti.

Le norme penali in questione, pur non rilevando nei casi in cui la perdita dell'animale non risulti connessa ad un fatto di reato quale quelli descritti dalle fattispecie in questione, risultano comunque essere chiaro indice della consapevolezza del legislatore di non poter equiparare, ai fini anche risarcitori gli animali ed in particolare, gli animali c.d. di affezione, agli altri beni della vita quotidiana (Trib. Rovereto, 18 ottobre 2009).

Va rilevato, peraltro, che alcune più recenti pronunce di merito hanno ribadito la risarcibilità del danno in questione anche in considerazione della l. n. 201/2010, con cui lo Stato Italiano ha ratificato la Convenzione Europea per la protezione degli animali da compagnia (la quale valorizza l'importanza di questi ultimi a causa del contributo che essi forniscono alla qualità della vita e dunque il loro valore per la società), in virtù della quale il rapporto tra padrone ed animale da affezione deve essere oggi ritenuto espressione di una relazione che costituisce occasione di completamento e sviluppo della personalità individuale e quindi un vero e proprio bene della persona tutelato dall'art. 2 della Costituzione (Trib. Torino 29 ottobre 2012).

Deve rilevarsi tuttavia che vi è un diverso orientamento della giurisprudenza di merito che ravvisa il fondamento della risarcibilità del danno in questione sulla base di un diverso ragionamento, basandola sulle esigenze di tutela del diritto di proprietà sull'animale stesso (Trib. Bari, sez. Monopoli, 22 novembre 2011).

Secondo tale orientamento, infatti, il danno non patrimoniale “esistenziale” da perdita dell'animale d'affezione, andrebbe risarcito trattandosi di violazione del diritto di proprietà, rientrante nella categoria dei diritti fondamentali inerenti alla persona, tutelato sia a livello costituzionale (art. 42 Cost.) che comunitario (art. 17 CEDU letto in combinato con l'art. 6 del Trattato istitutivo dell'Unione Europea), purché venga allegata e provata la sussistenza di un rapporto consolidato tra il proprietario e l'animale leso dal fatto illecito.

Tale lesione consentirebbe la tutela non solo del pregiudizio patrimoniale conseguente alla perdita dell'animale, ma anche del danno morale, in termini di sofferenza psichica, causato dalla recisione del rapporto animale-padrone, rapporto dal quale il padrone ritiene un'utilità che non è unicamente economica. D'altro canto, secondo questa giurisprudenza, sarebbe irragionevole un sistema risarcitorio che prevedesse il ristoro per il valore economico del cane, ma non per il pregiudizio non patrimoniale costituito dalla perdita affettiva, laddove sia quest'ultima la maggiore utilità del “bene” oggetto della lesione.

Elemento soggettivo

Per la giurisprudenza che ne ammette la risarcibilità il danno da perdita dell'animale d'affezione può essere conseguenza di qualsiasi tipo di illecito, sia che questo costituisca reato che nel caso di illecito civile, e sia questo doloso, colposo o rientrante in ipotesi di responsabilità oggettiva.

Nesso di causalità

Il danno da perdita dell'animale di affezione può essere conseguenza di responsabilità civile contrattuale o extracontrattuale.

La condotta illecita deve ledere il rapporto tra padrone e animale.

Va peraltro rilevato che nessun dubbio si pone qualora il pregiudizio lamentato sia di natura patrimoniale: in tal caso il soggetto avente diritto al risarcimento andrà individuato in quello che può vantare un “diritto di proprietà” con l'animale e che dunque può lamentare la perdita di un elemento avente valore economico del proprio patrimonio.

Quanto invece al danno non patrimoniale, come si è detto, la sua risarcibilità spetta al soggetto (o ai soggetti) in grado di dimostrare di avere avuto una relazione affettiva con l'animale, ragion per cui la sua scomparsa sia in grado di provocare un peggioramento della qualità della vita o, addirittura, l'insorgenza di una patologia di natura psichica.

Onere della prova

Sul danneggiato incombe la prova della lesione del rapporto, nonché delle concrete conseguenze della perdita dell'animale sulla propria vita.

La Suprema Corte, nel negare la risarcibilità di tale voce di danno, ha comunque avuto modo di chiarire che la parte che domanda la tutela di tale danno ha l'onere della prova sia per l'an che per il quantum debeatur mentre non appare sufficiente la deduzione di un danno in re ipsa, con il generico riferimento alla “perdita delle qualità della vita”. (Cass., sez. III, n. 14846/2007).

Anche se la prova del danno esistenziale, può essere data anche a mezzo di presunzioni, è comunque onere del danneggiato allegare circostanze concrete che consentano la prova, anche presuntiva del danno, costituendo la lesione di valori costituzionali un semplice indizio, sia pure particolarmente significativo, dell'esistenza del danno che, tuttavia, dovrà essere provato in concreto.

Ancor più rigorosa, per quanto attiene alla prova, appare quella giurisprudenza – che pur ne riconosce l'astratta risarcibilità - in relazione al danno biologico da perdita dell'animale. Si è affermato, infatti, che “non appare sufficiente la produzione di certificati medici, redatti da medico non specializzato in malattie della psiche, che attestino l'esistenza di uno stato di ansia e depressione senza l'esecuzione di accertamenti diagnostici o clinici obiettivi sulla base di traumi nervosi non riscontrati bensì semplicemente riferiti dal paziente […] non basta un peggioramento della qualità della vita se non si prova che esso consegue a una lesione all'integrità psicofisica” (App. Milano, sez. II civile, 17 aprile 2012). Qualora il “padrone” lamenti un danno di natura di natura biologica, dunque, particolare rilevanza assumerà, dunque, l'indagine sul nesso eziologico (presumibilmente affidata al consulente medico-legale) tra la morte dell'animale e la “malattia” del padrone. Il danno alla salute, dunque, non può risolversi in un mero pregiudizio alla qualità della vita, presupponendo sempre necessariamente una vera e propria lesione dell'integrità psico-fisica.

Va in ogni caso precisato che, qualora si adotti la tesi della piena risarcibilità del danno da perdita dell'animale d'affezione, sarà il danneggiato a dovere specificare le poste di danno conseguenti a tale perdita essendo astrattamente ravvisabili – come si è detto - tutte le possibili voci di danno non patrimoniale.

Aspetti medico-legali

Non vi sono coinvolti aspetti di carattere medico-legale a meno che non venga allegata la sussistenza di un danno "medicalmente accertabile" nel padrone conseguente alla perdita dell'animale stesso, da ciò deriverebbe la necessità di esperire la consulenza tecnica medico-legale.

Criteri di liquidazione

Il danno esistenziale e morale da perdita dell'animale d'affezione non può che essere soggetto ad una valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., stante le difficoltà di pervenire, per la particolare natura del danno, ad una sua precisa quantificazione.

A tale liquidazione potrà essere aggiunta, quale ulteriore ed indipendente voce di danno, quella relativa al valore economico dell'animale, qualora fonte di un'utilità anche economica (si veda ad esempio, in proposito, la recente pronuncia del Trib. Firenze sez. II, 14 giugno 2013 sulla perdita di un cane da caccia). Nessun dubbio sussiste, infatti, sulla risarcibilità del danno patrimoniale conseguente alla perdita, commisurato al valore venale dell'animale o alle spese per le cure necessarie in caso di lesioni.

Più complesso appare invece la liquidazione del danno non patrimoniale, che seppure, come si è detto, necessariamente affidata ad una valutazione equitativa, può comunque essere parametrata ad alcuni parametri tendenzialmente ricorrenti, quali, ad esempio, l'età del padrone (si pensi all'anziano che vive solo, unicamente con la compagnia dell'animale), la durata del rapporto con l'animale, le abitudini di vita e le residue ed ulteriori opportunità di compagnia o affettive del padrone.

Aspetti processuali

Va rilevato che, nonostante la presa di posizione della Suprema Corte nel 2008, successivamente la stessa Cassazione pare aver delineato una situazione parzialmente differente per quanto attiene i giudizi “secondo equità” avanti al giudice di pace. In questi, casi, infatti, a parere della Corte, venendo in rilievo la c.d. equità formativa o sostitutiva della norma di diritto sostanziale, non opera la limitazione al risarcimento del danno non patrimoniale prevista dall'art. 2059 c.c., e dunque può essere riconosciuto il danno da perdita dell'animale. Il giudice di pace, infatti può disporre l'indennizzo del danno non patrimoniale anche fuori "dei casi determinati dalla legge e di quelli attinenti alla lesione dei valori della persona umana costituzionalmente protetti", se il danneggiato dimostra il pregiudizio subito” (Cass., sez. III, sent. n. 4493 del 25 febbraio 2009).

Casistica

  • Pret. Rovereto, 15 giugno 1994: “L'atto illecito che determina la malattia o la morte di un animale da compagnia è fatto produttivo di danni morali nei confronti di chi lo accudiva e ne aveva cura, in ragione del coinvolgimento in termini affettivi che la relazione tra l'uomo e l'animale domestico comporta, dell'efficacia di completamento e arricchimento della personalità dell'uomo e quindi dei sentimenti di privazione e di sofferenza psichica indotti dal comportamento illecito”.
  • Trib. Roma, 17 aprile 2002: chiamato ad esaminare l'ipotesi di uno yorkshire che, incappato in una rissa con ben due pit bull aveva perso la vita, aveva negato ingresso al risarcimento, ritenendo la impossibilità di configurare un danno morale in assenza di reato; affermando, peraltro, la indubbia esistenza di danno esistenziale, non risarcito solo in considerazione della totale assenza di allegazioni sul punto. La pronuncia, peraltro, è di interesse laddove individua il soggetto danneggiato non tanto nel “proprietario” dell'animale quanto nel soggetto che gli era legato da rapporto affettivo: “Il problema merita in questa sede di essere ulteriormente affrontato, dal momento che proprio il danno per la perdita dell'animale d'affezione non sembra richiedere alcuna finzione del verificarsi della lesione. Non è cioè necessario ricorrere alla nozione di danno-evento, danno in sè considerato, in un campo in cui la realtà e concretezza del dolore patito dal «padrone» per effetto della perdita dell'animale — un certo pudore induce ad evitare l'espressione «lutto» — è nozione dì comune esperienza. Diremmo, dunque, che la connotazione affettiva della relazione instaurata tra l'uomo e il cane non richieda neppure di essere sottolineata… In conclusione, tornando al tema, la relazione affettiva con l'animale può avere rilevanza sul piano della tutela aquiliana, potendo richiedere che questa si estenda al risarcimento del danno non patrimoniale patito in conseguenza della perdita di un affetto che può essere annoverato tra i beni della personalità. Come è stato osservato in dottrina, la rilevanza autonoma della relazione affettiva può separare la posizione risarcitoria del proprietario da quella del «padrone» dell'animale: nel caso di uccisione di animali senza valore, nulla può essere dovuto al proprietario, ma molto può essere dovuto al «padrone» dell'animale.
  • Quanto al rapporto tra risarcibilità del danno e fattispecie delittuose, va rilevato che la Suprema Corte, risolvendo un caso in cui si discuteva dell'ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo penale, ha chiarito che “in tema di maltrattamenti di animali, seppure la "ratio" dell'incriminazione di cui all'art. 727 c.p. è l'esigenza di tutelare il sentimento di comune pietà verso gli animali e di promuovere l'educazione civile, la qualifica di persona danneggiata dal reato compete al proprietario dell'animale che abbia subito sevizie da parte di altri, anche se non abbia assistito personalmente alla commissione del fatto, avendo egli ricevuto un danno morale per il vincolo di affetto che lo lega all'animale” (Cass., sez III, sent. n. 36059/2004).
  • Giudice di Pace Ortona, sent., 8 giugno 2007. “E' risarcibile il danno esistenziale derivante dall'uccisione del proprio cane. Il danno esistenziale può essere definito come mancato guadagno non patrimoniale oppure, se si preferisce, mancato guadagno esistenziale. La sentenza in questione ammette il risarcimento del danno esistenziale derivante dall'uccisione di un animale di affezione, quale il cane pastore tedesco, che era vissuto con la famiglia danneggiata per circa cinque anni. Il danno esistenziale viene, nel caso di specie, ricostruito come mancato guadagno non patrimoniale ovvero mancato guadagno esistenziale, nascente da una lettura combinata degli artt. 2059-2056 c.c. con l'art. 1223 c.c. e con i diritti e/o interessi di rango costituzionale inerenti alla persona. Più chiaramente, viene detto che il danno esistenziale andrebbe ricostruito come mancato guadagno non patrimoniale, per merito dell'art. 2056 c.c. che rinvia all'art. 1223 c.c.; orbene, tale “rinvio all'art. 1223 c.c. fatto dall'art. 2056 c.c. è collocato nell'ambito dei fatti illeciti che, come noto, riguardano entrambe le tipologie di danni menzionate; se, pertanto, l'art. 1223 c.c. deve riguardare anche i danni non patrimoniali, allora, deve comprendere la perdita (danno emergente) e i mancati guadagni (lucro cessante), che nella sostanza sarebbero il danno biologico ed il danno esistenziale. In termini diversi, accogliendo tale ricostruzione, il danno non patrimoniale va suddiviso in un danno effettivo, che spesso è costituito dal danno biologico, ed in un danno inteso come mancato guadagno (non patrimoniale o esistenziale) ovvero il non poter più fare ciò che si sarebbe voluto fare, definito comunemente come danno esistenziale; id est, il danno esistenziale non è altro che un mancato guadagno non patrimoniale, ex art. 1223 c.c., oppure, se si preferisce, un mancato guadagno esistenziale cioè una rinuncia forzata ad un'attività realizzatrice della persona umana, guadagnando di meno in termini esistenziali o di qualità della vita”.
Sommario