La riforma dell'ordinamento penitenziario e il nuovo art. 678 c.p.p. per la definizione agevolata dei procedimenti

Fabio Fiorentin
12 Novembre 2018

La riforma dell'ordinamento penitenziario varata dal governo in attuazione (parziale) della delega di cui alla l. 103/2017 si articola su tre decreti legislativi, rispettivamente dedicati alla riforma dell'ordinamento penitenziario minorile (d.lgs 2 ottobre 2018, n. 121), alla riforma dell'ordinamento penitenziario (d.lgs 2 ottobre 2018, n. 123) e...
Abstract

La riforma dell'ordinamento penitenziario varata dal governo in attuazione (parziale) della delega di cui alla l. 103/2017 si articola su tre decreti legislativi, rispettivamente dedicati alla riforma dell'ordinamento penitenziario minorile (d.lgs 2 ottobre 2018, n. 121), alla riforma dell'ordinamento penitenziario (d.lgs 2 ottobre 2018, n. 123) e alla disciplina del lavoro penitenziario e di alcuni aspetti della vita detentiva (d.lgs 2 ottobre 2018, n. 124), tutti pubblicati nel supplemento ordinario n. 50L alla G.U. Serie Ordinaria del 26 ottobre 2018. Si tratta di atti normativi che, pur riprendendo in molte parti i testi predisposti sul finire della trascorsa legislatura, riflettono un'idea di esecuzione penale e penitenziaria profondamente diversa da quella che aveva avviato e sostenuto il percorso riformatore inaugurato con gli Stati generali dell'esecuzione penale. Tra i profili più innovativi della riforma, particolare interesse riscuote l'intervento sulla procedura camerale partecipata di cui all'art. 678 c.p.p.

La riforma del procedimento di sorveglianza (art. 678 c.p.p.). Profili generali

Le modifiche introdotte dal d.lgs. 123/2018 in tema di procedura camerale partecipata (art. 678 c.p.p.) intendono dare attuazione alla direttiva delega contenuta nella l. 103/2017, il cui art. 1, comma 85, lett. a), prevedeva la «semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione». La ratio sottesa a tale prescrizione è connessa all'obiettivo di accrescere la tempestività delle decisioni della magistratura di sorveglianza, in un particolare settore – la materia delle misure alternative alla detenzione e dei benefici penitenziari - in cui è essenziale assicurare una efficace gestione dei flussi in uscita dagli istituti penitenziari, non solo per offrire una effettiva risposta di giustizia a tutti quei condannati che potrebbero espiare la propria pena accedendo al circuito esecutivo extramurario ma che, per le attuali tempistiche, spesso non vi accedono o vi accedono solo nella parte terminale della pena, ma anche per contribuire al contenimento delle eccessive presenze nelle carceri, tornate a livello di guardia, evitando così che il nostro Paese possa trovarsi nuovamente sul banco degli imputati di fronte alla Corte dei diritti umani di Strasburgo.

In questa prospettiva, l'attenzione si è focalizzata sul segmento che costituisce la maggioranza statistica delle esecuzioni, rappresentato dalle condanne a pene di breve durata – in rapporto alle quali i tempi di definizione dei procedimenti di sorveglianza rappresentano una variabile spesso decisiva sul percorso esecutivo dei condannati (è, infatti, evidente che tanto più l'accesso alle misure alternative ha probabilità di conseguire l'effetto della risocializzazione del condannato quanto più esso si colloca a distanza ravvicinata dalla conclusione della vicenda processuale).

Si è, altresì, sviluppata una riflessione sull'assetto della magistratura di sorveglianza, articolato sulla suddivisione ratione materiae tra competenze monocratiche attribuite al magistrato di sorveglianza e materie riservate alla cognizione del tribunale di sorveglianza. La legislazione degli ultimi anni ha, invero, spinto sull'acceleratore della sempre più accentuata “monocratizzazione” delle competenze della magistratura di sorveglianza allo scopo di imprimere una maggiore celerità alla procedure, così che attualmente il magistrato di sorveglianza è competente ai fini dell'applicazione delle misure alternative alla detenzione in via provvisoria, della concessione della liberazione anticipata, dell'applicazione dell'esecuzione della pena presso il domicilio (l. 199/2010). Nella medesima ottica, si è esteso sempre di più il ricorso a modelli procedurali strutturati sul “contraddittorio eventuale”, attivato, cioè, solo in caso di decisione sfavorevole e su iniziativa di parte, mediante lo strumento dell'opposizione (art. 667, comma 4, c.p.p.: cfr. l'attuale procedura a contraddittorio “eventuale” prevista dall'art. 69-bis, ord. penit. in materia di liberazione anticipata e dal comma 1-bis dell'art. 678 c.p.p. nelle materie ivi indicate), ovvero sul “contraddittorio differito” come accade nel caso delle procedure di decisione in via cautelativa adottate dal magistrato di sorveglianza sulle istanza di applicazione delle misure alternative (art. 47, comma 4, ord. penit.).

L'attuazione della direttiva di delega sopra richiamata è andata, tuttavia, incontro a notevoli problemi per l'individuazione del concreto ambito di operatività dell'intervento, atteso che l'ulteriore implementazione delle ipotesi di procedure ispirate al modello di contraddittorio “eventuale” o “differito” è operazione che la genericità della delega (che si limita ad escludere dalla prevista semplificazione i procedimenti in materia di revoca delle misure alternative alla detenzione) non avrebbe consentito di indirizzare su specifici istituti o materie.

Nell'intento di contemperare tutte le variabili in gioco, il Legislatore delegato si è orientato nella ulteriore valorizzazione del ruolo del magistrato di sorveglianza, se pure senza alcuna modifica della attuale ripartizione delle competenze tra organo monocratico e assise collegiale, bensì operando nell'ambito del procedimento di sorveglianza e nelle materie attribuite alla competenza del tribunale di sorveglianza. La soluzione che ne è scaturita – come subito si vedrà – rappresenta il punto di sintesi tra le diverse sensibilità di quanti ritenevano opportuna, nella prospettiva della razionalizzazione e velocizzazione delle procedure, una ancor più decisa monocratizzazione delle funzioni della magistratura di sorveglianza e quanti, invece, ne evidenziavano le possibili conseguenze negative, intravedendovi uno snaturamento delle peculiarità della giurisdizione di sorveglianza, incentrata sul principio della collegialità perfetta e dell'apporto dei saperi extragiuridici fornito dai componenti esperti dei collegi del tribunale di sorveglianza.

(Segue). La modifica dei commi 1 e 1-bis, art. 678 c.p.p.

Il d.lgs 123/2018, con l'art. 4, interviene sull'art. 678 c.p.p. sotto articolati profili. È, anzitutto, modificato il comma 1 dell'art. 678 c.p.p. (art. 4, comma 1, lett. b), n. 1), d.lgs 123/2018): viene soppresso il riferimento alla disciplina del successivo comma 1-bis e la dizione è integrata con le parole «se non diversamente previsto». Tale inciso si riferisce ai casi in cui il giudice, anziché adottare il procedimento di sorveglianza, si avvalga, per le decisioni in tema di misure alternative, di un rito “semplificato”. Tale modifica – pur a rigore non necessaria atteso il rapporto di specialità intercorrente tra la norma dell'art. 678 c.p.p. e il modello procedurale di cui all'art. 666 c.p.p. – è, tuttavia, opportuna per chiarire il perimetro applicativo della disposizione in analisi, dal quale restano fuori:

  • le ipotesi in cui il giudice di sorveglianza, anziché adottare il procedimento di sorveglianza, adotti, per le decisioni in materia di benefici penitenziari o misure alternative alla detenzione, di un rito semplificato”;
  • la peculiare regolamentazione, sul piano delle garanzie processuali, diversa rispetto a quella stabilita nell'art. 666 c.p.p.

La novella del primo comma, inoltre, non contiene più il riferimento alla competenza del magistrato di sorveglianza sui ricoveri di cui all'art. 148, c.p. La ragione di tale soppressione – già contenuta nell'originario schema di decreto - risiedeva nella contestuale abrogazione della citata disposizione penalistica, contenuta nella medesima versione originaria del decreto attuativo, quest'ultima poi non riproposta nel testo definitivo adottato dal nuovo esecutivo. Benché sia molto probabile che la rilevata omissione costituisca una mera svista del legislatore, dovuta al particolarmente tormentato percorso di approvazione della riforma penitenziaria, non ci si nasconde che la novellata dizione possa offrire non trascurabili argomenti alla tesi di quanti ritengono che la disposizione dell'art. 148 c.p. sia stata implicitamente abrogata.

In secondo luogo, la riforma opera l'integrale sostituzione del comma 1-bis dell'art. 678 c.p.p. (art. 4, comma 1, lett. b), n. 2), d.lgs. 123/2018). Come è noto, si tratta della disposizione introdotta dal d.l. 146/2013 per ragioni di semplificazione ed economia processuale nei casi di procedure di natura essenzialmente cartolare e perlopiù destinate ad esito favorevole per l'interessato. Tale semplificazione ha riguardato talune materie, espressamente indicate dal testo normativo, che sono trattate con la procedura de plano di cui al comma 4 dell'art. 667 c.p.p. A fronte del già consistente intervento operato nel 2013, il Legislatore delegato del 2018 ha operato nella consapevolezza che molte delle materie attualmente trattate con il modello camerale “partecipato” (art. 666, 678 c.p.p.), quali i procedimenti in materia di misure di sicurezza o di applicazione delle misure alternative alla detenzione comprese quelle di natura “terapeutica” (artt. 90 e 94, d.P.R. 309/1990), sarebbero incompatibili con procedure che limitino o, addirittura, escludano la facoltà di interlocuzione diretta dell'interessato con il proprio giudice. Un'estensione di riti semplificati che non contemplino la partecipazione dell'interessato comporterebbe non soltanto una eccessiva limitazione alle possibilità di esercitare il diritto di difesa in procedimenti de libertate ma risulterebbe, altresì, non allineata alle caratteristiche e finalità della giurisdizione rieducativa affidata al giudice di sorveglianza, che involge la valutazione della personalità del condannato o dell'internato con il peculiare apporto dei “componenti esperti” del tribunale di sorveglianza, portatori di saperi scientifici il cui contributo è fondamentale nella formazione del giudizio sulla personalità, che rappresenta il proprium di quella giurisdizione.

In forza di tali ragioni, l'attuazione della direttiva di delega in analisi si è trovata ad operare entro un limitatissimo spazio e si è risolta, in definitiva, in una “rifinitura” della riforma portata dal d.l. 146/2013, non essendosi spinta oltre l'estensione del modello semplificato a contraddittorio eventuale (il cui archetipo è costituito dalla disciplina di cui all'art. 667, comma 4, c.p.p.) ad alcune materie prima trattate con la procedura partecipata e la cui definizione, non involgendo primariamente una valutazione sulla persona del condannato, si è ritenuto potesse sopportare un differimento del contraddittorio diretto con l'interessato e perfino una sua pretermissione in caso di decisione positiva per il soggetto.

Muovendosi dunque in linea di continuità e nella medesima prospettiva di semplificazione procedurale del precedente intervento del 2013, la riforma in analisi apporta un ulteriore ampliamento del perimetro applicativo della procedura de plano.Mentre non vengono toccate le materie monocratiche – già assoggettate al rito semplificato – di competenza del magistrato di sorveglianza, l'intervento si concentra sulle competenze del tribunale di sorveglianza, operando due innesti di materie che entrano, quindi, a far parte del novero delle procedure trattate in camera di consiglio senza la presenza delle parti.

La prima inserzione – che si accompagna alla riforma dell'istituto sotto il profilo sostanziale – consiste nell'inserimento nel catalogo delle materie definite con procedura semplificata della pronuncia sull'esito della liberazione condizionale.Si tratta di un'addenda che risponde a ragioni di natura sistematica (già l'art. 236 disp. att. c.p.p. l'accomuna alla declaratoria di estinzione della pena in seguito ad affidamento in prova al servizio sociale) e di razionalizzazione ed economia processuale in un ambito che – dal punto di vista statistico – non importa se non in rari casi una pronuncia negativa per l'interessato.

Con la seconda aggiunta, il catalogo delle materie trattate de plano si estende alle ipotesi di differimento dell'esecuzione della pena nei casi previsti dal comma 1, nn. 1 e 2, dell'art. 146 c.p. Si tratta, precisamente, dei casi di rinvio dell'esecuzione nei confronti di donna incinta ovvero di madre di infante di età inferiore a un anno. La trasposizione di tali materie al rito de plano è giustificata, per un verso, dalla natura “obbligatoria” della concessione del beneficio, sostanzialmente vincolato alle risultanze istruttorie (relazioni mediche o documenti giudiziari e anagrafici), dall'altro dalla considerazione che la situazione è già trattata in assenza di interlocuzione diretta con l'interessato e il suo difensore nei casi di intervento “cautelativo” del magistrato di sorveglianza (art. 684, comma 2, c.p.p.). Stanti i termini assai circoscritti della modifica è, tuttavia, molto probabile che l'impatto sul versante deflattivo e sull'efficienza del sistema sarà poco significativo, trattandosi di fattispecie numericamente non rilevanti e dunque di assai limitato impatto sul piano del carico di lavoro gravante sulla magistratura di sorveglianza.

(Segue). Il nuovo subprocedimento per la definizione agevolata delle procedure in materia di misure alternative nel caso di condannati liberi e pene fino ad un anno e sei mesi (comma 1-ter, art. 678 c.p.p.)

L'intervento di più incisiva rilevanza è quello veicolato in materia di semplificazione del procedimento di sorveglianza, con l'introduzione di un nuovo comma 1-ter nell'art. 678 c.p.p. ad opera dell'art. 4, comma 1, lett. b), n. 1), d.lgs 123/2018. Va, anzitutto, precisato che l'intervento in esame non riguarda né le materie assoggettate al rito semplificato (comma 1-bis art. 678 c.p.p.), né le competenze assegnate al tribunale di sorveglianza quale giudice dell'impugnazione avverso i provvedimenti del magistrato di sorveglianza (es., in materia di concessione dei permessi, di applicazione della liberazione anticipata, di sottoposizione a controlli della corrispondenza, di misure di sicurezza) ovvero avverso le sentenze del giudice penale (art. 680 c.p.p.).

Così perimetrato l'ambito di operatività della riforma, si osserva che l'intervento coagula il punto di sintesi di profili controversi, suscettibili di esitare in unamolteplicità di soluzioni attuative della direttiva di delega iscritta all'art. 1, comma 85, lett. a), l. 103/2017, che sottrae espressamente alla semplificazione il solo procedimento di revoca delle misure alternative, mentre la successiva lett. c) prescriveva la «revisione della disciplina concernente le procedure di accesso alle misure alternative prevedendo […] che il procedimento di sorveglianza garantisca il diritto alla presenza dell'interessato e la pubblicità dell'udienza».

Va, infatti, considerato che l'ulteriore arretramento dell'area di operatività del procedimento camerale partecipato si pone in linea oggettivamente divergente rispetto alla ratio della direttiva che generalizza il diritto dell'interessato alla presenza in udienza e che presuppone, ovviamente, una procedura in cui le parti possano interloquire di fronte al giudice; da un altro punto di vista, però, il mantenimento dello status quo con riferimento alla materia delle misure alternative non avrebbe prodotto alcuna apprezzabile ricaduta ai fini della deflazione del carico di lavoro dei tribunali di sorveglianza e sulla relativa tempistica di definizione dei procedimenti.

Nell'ottica sistematica, infine, si consideri che la fase dell'esecuzione penitenziaria, dopo la legge Simeone, prevede la possibilità di un intervento anticipatorio della decisione dell'organo collegiale da parte del magistrato di sorveglianza nei confronti dei condannati in stato di detenzione – ai quali il magistrato monocratico può applicare in via provvisoria, su istanza dell'interessato, il beneficio richiesto, qualora vi siano i presupposti per la concessione della misura e sussista, altresì, il grave pregiudizio derivante dal protrarsi della carcerazione nelle more della decisione del tribunale di sorveglianza. Analogo istituto “cautelare” non era, invece, previsto per i condannati liberi per sospensione dell'ordine di carcerazione, ed è su questo target che si indirizza ora l'attenzione del Legislatore.

Ciò premesso, il nuovo comma 1-ter dell'art. 678 c.p.p. introduce una procedura semplificata per la concessione delle misure alternative alla detenzione. Si tratta di un subprocedimento incidentale (ma non eventuale) che traccia una corsia preferenziale per la definizione di quei procedimenti sui quali si sia formata una prima decisione favorevole del magistrato designato quale relatore del relativo procedimento innanzi al tribunale di sorveglianza.

Il nuovo procedimento trova applicazione con riferimento a tutte le istanze di misure alternative alla detenzione presentate dai condannati “liberi sospesi” (art. 656, comma 5, c.p.p.) in relazione a pene che non superino (anche de residuo) la soglia di un anno e sei mesi. L'individuazione di tale limite coincide con quello che già oggi consente al magistrato di sorveglianza di applicare in via monocratica e de plano l'esecuzione domiciliare di cui all'art. 1 della l. 199/2010 e si colloca, pertanto, entro quell'area in cui il sistema presuppone che siano statisticamente prevalenti, nella grande maggioranza dei casi, gli elementi che consentano la concessione di benefici extramurari e che le esigenze preventive siano, nei medesimi casi, gestibili mediante la modulazione delle prescrizioni delle misure alternative al carcere.

Nei casi di procedimenti iscritti ai sensi del comma 5 dell'art. 656 c.p.p., il presidente del tribunale di sorveglianza acquisiti i documenti e le informazioni necessarie (compulsando eventualmente l'Uepe, le Forze dell'ordine, il Ser.D. etc.) designa il magistrato che sarà il relatore all'udienza collegiale. Quest'ultimo, sulla base degli atti presenti nel fascicolo trasmesso e nel termine fissato dal presidente del tribunale di sorveglianza, può applicare, con ordinanza adottata senza formalità e in via provvisoria una delle misure indicate nell'art. 656, comma 5, c.p.p.Si tratta, quindi, di un provvedimento emesso de plano senza disporre udienza, che assume la forma di un'ordinanza (formalmente intestata al tribunale di sorveglianza) con cui il magistrato relatore applica la misura alternativa disponendo, altresì, le necessarie prescrizioni a corredo della medesima. Stando al testo della norma in esame, il magistrato relatore può applicare una qualsiasi delle misure indicate nella richiamata disposizione processuale, anche se eventualmente non fosse oggetto dell'istanza dell'interessato. Si tratta di una previsione che, pur astrattamente compatibile con il contesto delle procedure di sorveglianza (a mente dell'art. 678 c.p.p., infatti, il giudice di sorveglianza può procedere anche d'ufficio), desta perplessità perché può consentire decisioni “a sorpresa” che potrebbero formare oggetto di immediata opposizione, così vanificando la ratio deflativa sottesa al sistema.

Il relatore ha a disposizione due opzioni: può non adottare alcuna decisione e, in questo caso, restituire il fascicolo al presidente entro la scadenza del termine assegnatogli; ovvero può emettere un'ordinanza di applicazione di una misura alternativa. Non è, infatti, testualmente contemplata la possibilità di emissione di un provvedimento di rigetto delle istanze. L'ordinanza – che viene emessa dal magistrato relatore quale articolazione del tribunale di sorveglianza - è comunicata al pubblico ministero (precisamente, la comunicazione va indirizzata al P.G., trattandosi appunto di subprocedimento relativo a materia ricadente nella competenza del tribunale di sorveglianza) e notificata all'interessato e al difensore.

A questo punto, nei confronti dell'ordinanza (non ancora efficace), le parti possono proporre opposizione al tribunale di sorveglianza entro il termine di dieci giorni dalla notifica o dalla comunicazione, a pena di decadenza. L'opposizione si propone con atto scritto depositato presso la cancelleria del tribunale di sorveglianza, ovvero formalizzata in un verbale redatto presso detta cancelleria o, se l'interessato è detenuto, presso l'ufficio matricola del carcere. Durante il termine per l'opposizione e fino alla decisione sulla stessa, l'esecuzione dell'ordinanza provvisoria è, pertanto, sospesa. Si tratta di una previsione che, pur contrastando la ratio di velocizzazione delle procedure, è nondimeno idonea ad assicurare il necessario riequilibrio in favore delle ragioni della difesa che, compresse nella fase “cautelare”, potranno eventualmente svilupparsi nell'ambito del giudizio di opposizione in sede camerale partecipata.

In caso di opposizione – così come nell'ipotesi in cui il magistrato relatore non si sia pronunciato nel termine assegnatogli – il tribunale di sorveglianza definisce il procedimento con procedura camerale partecipata secondo le modalità “classiche”.

Qualora le parti non propongano, invece, opposizione alla decisione adottata de plano dal magistrato designato come relatore, la decisione assunta dal relatore diviene esecutiva e il tribunale di sorveglianza conferma senza formalità di procedura la decisione, a meno che il collegio, di avviso diverso rispetto al relatore, ritenga invece di non confermare la decisione provvisoria e di rinviare la trattazione ad udienza camerale partecipata. Una tale ipotesi potrebbe verificarsi, in particolare, qualora nel corso dell'esecuzione della misura provvisoriamente concessa si siano verificati fatti o comportamenti negativi da parte del condannato, che possono indurre il collegio – che conserva intatti i propri poteri decisori - a rivedere la decisione assunta dal relatore.

Le nuove disposizioni, non essendovi una disposizione transitoria, hanno efficacia a decorrere dall'entrata in vigore del decreto attuativo (10 novembre 2018). Deve pertanto ritenersi che – trattandosi di disposizioni di natura processuale – esse troveranno applicazione con riferimento alle nuove iscrizioni di procedimenti di competenza del tribunale di sorveglianza successive alla vigenza delle medesime ed a quei procedimenti – già incardinati – per i quali non vi sia stata ancora la celebrazione dell'udienza camerale (tempus regit actum).

In conclusione

L'introduzione della fase de plano con la possibilità di opposizione delle parti costituisce una scelta legislativa che – se pure animata dal condivisibile intento di razionalizzazione e semplificazione procedurale, sconta il rischio di alcune possibili criticità sul piano della prassi operativa. Un possibile punto critico potrebbe essere costituito dai tempi di decisione del magistrato designato come relatore: il procedimento incidentale introdotto dalla riforma potrebbe, infatti, costituire una sorta di “collo di bottiglia” qualora le decisioni “cautelari” non dovessero seguire una tempistica rapida. Protocolli istruttori concordati e intese con gli Uepe e i Ser.d. potranno rendere più snello il processo di approvvigionamento istruttorio, relegando la necessità per il relatore di richiedere un'integrazione istruttoria a casi sporadici. Un secondo profilo su cui si giocherà il successo sul piano operativo della riforma sarà il governo che del nuovo istituto farà la magistratura di sorveglianza. È, infatti, probabile che il sistema produca effettivamente positive ricadute in termini di deflazione del carico dei tribunali di sorveglianza e di celerità delle procedure solo nella misura in cui il tasso di concessione provvisoria delle misure si attesti su percentuali significative e qualora, correlativamente, rimanga isolato il ricorso allo strumento dell'opposizione.

Guida all'approfondimento

F. FIORENTIN, La riforma dell'ordinamento penitenziario (dd.lgs. 2 ottobre 2018, nn. 121, 123 e 124), Giuffré Francìs Lefebvre 2018, in corso di pubblicazione

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