Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione dopo il d.lgs. 11/2018

Sergio Beltrani
12 Novembre 2018

L'autore rivisita il c.d. principio di autosufficienza in relazione ai poteri-doveri del giudice di legittimità (penale), alla luce del nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p., introdotto dal d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, e contenente disposizioni in ordine agli adempimenti connessi alla trasmissione degli atti al giudice dell'impugnazione. Il d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 ha introdotto il nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p., contenente disposizioni in ordine agli adempimenti connessi alla trasmissione degli atti al giudice dell'impugnazione.
Abstract

L'autore rivisita il c.d. principio di autosufficienza in relazione ai poteri-doveri del giudice di legittimità (penale), alla luce del nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p., introdotto dal d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, e contenente disposizioni in ordine agli adempimenti connessi alla trasmissione degli atti al giudice dell'impugnazione.

Il nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p.

Il d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11ha introdotto il nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p., contenente disposizioni in ordine agli adempimenti connessi alla trasmissione degli atti al giudice dell'impugnazione.

Il secondo comma della citata disposizione stabilisce che:

«Nel caso di ricorso per cassazione, a cura della cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, è inserita in separato fascicolo allegato al ricorso, qualora non già contenuta negli atti trasmessi, copia degli atti specificamente indicati da chi ha proposto l'impugnazione ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lettera e), del codice; della loro mancanza è fatta attestazione».

Questa disciplina comporta, all'evidenza, due conseguenze:

  1. nel caso in cui il ricorso per cassazione denunzi il motivo di cui all'art. 606, comma 1, lettera e), c.p.p., ovvero un vizio di motivazione, la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato deve inviare alla Corte di cassazione copia degli atti specificamente indicati dal ricorrente, attestando altresì eventualmente che gli atti indicati dal ricorrente non sono allegabili perché non presenti nei fascicoli del dibattimento di primo e secondo grado;
  2. tale disciplina non è prevista anche per il caso in cui il ricorso per cassazione denunzi gli ulteriori motivi di cui all'art. 606, comma 1, c.p.p. (inclusio unius, exclusio alterius …).
Il c.d. principio di autosufficienza del ricorso per cassazione

La giurisprudenza di legittimità penale accoglie tradizionalmente il principio della c.d. autosufficienza del ricorso, inizialmente elaborato dalla giurisprudenza di legittimità civile.

Valorizzando in passato la previgente formulazione dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (a norma del quale, le sentenze pronunziate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per Cassazione «[…] 5) per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio»; la disposizione stabilisce attualmente, all'esito delle modifiche apportate dall'art. 54 d.l. 83/2012, convertito in l. 134/2012, che le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado possono essere impugnate con ricorso per cassazione «[…] 5) per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti»), e successivamente la formulazione (introdotta dal d.lgs. 40/2006) dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. (a norma del quale il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità: «[…] 6) la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda»), la giurisprudenza civile afferma correntemente che il ricorso per cassazione, in relazione al principio dell'autosufficienza che deve connotarlo, risulta ammissibile quando sia dato evincere, in qualunque modo (non necessariamente riproducendo pedissequamente i motivi del gravame che era stato proposto contro la decisione del giudice di primo grado) ma senza la necessità di utilizzare atti diversi, la questione che era stata devoluta al giudice di appello e le ragioni che il ricorrente aveva inteso far valere in quella sede: tali elementi devono essere univocamente desumibili sia da quanto nel ricorso stesso viene riferito circa il contenuto della sentenza impugnata, sia dalle critiche che ad essa vengono rivolte (Cass. civ., Sez. II, n. 26234/2005; Cass. civ., Sez. lav., n. 14561/2012; Cass. civ., Sez. II, n. 17449/2015, per la quale, da ultimo, «È inammissibile, per violazione del criterio dell'autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano "nuove" e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all'esame dei fascicoli di ufficio o di parte»).

Tenuto conto dei principi e delle finalità complessivamente sottesi al giudizio di legittimità, la giurisprudenza penale ha, a sua volta, affermato che il principio di autosufficienza del ricorso, elaborato in sede civile, deve essere recepito e applicato anche in sede penale.

Un orientamento ha, in proposito, affermato che, «quando la doglianza abbia riguardo a specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti specificamente indicati (ovviamente nei limiti di quanto era stato già dedotto in precedenza), posto che anche in sede penale - in virtù del principio di autosufficienza del ricorso come sopra formulato e richiamato - deve ritenersi precluso a questa Corte l'esame diretto degli atti del processo, a meno che il fumus del vizio dedotto non emerga all'evidenza dalla stessa articolazione del ricorso» (Cass. pen., Sez. I, n. 16706/2008 e Cass. pen., Sez. I, n. 6112/2009). Si è così ritenuto che è inammissibile per difetto di specificità il ricorso per cassazione che, deducendo il vizio di manifesta illogicità o di contraddittorietà della motivazione e richiamando atti specificamente indicati, non contenga la loro integrale trascrizione o allegazione e non ne illustri adeguatamente il contenuto, così da rendere lo stesso ricorso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze (Cass. pen., Sez. V, n. 11910/2010; Cass. pen., Sez. II, n. 26725/2013: fattispecie nella quale il ricorrente, pur lamentando l'esistenza di due verbali relativi alla medesima udienza con indicazioni tra loro incompatibili, non ne aveva allegato copia; Cass. pen., Sez. IV, n. 46979/2015: fattispecie nella quale il ricorrente, pur lamentando l'omessa valutazione di prova documentale e dichiarativa, aveva omesso sia di allegare sia di indicare i relativi atti processuali; Cass. pen., Sez. II, n. 20677/2017: fattispecie nella quale il ricorrente, pur lamentando l'assenza di precedenti condanne per estorsione, non aveva allegato il certificato del casellario giudiziale, e non aveva indicato per quali altri fatti era già stato condannato).

Altroorientamento, meno severo, riteneva (come si vedrà, più correttamente) che il ricorso per cassazione che denuncia il vizio di motivazione deve contenere, a pena di inammissibilità e in forza del principio di autosufficienza, le argomentazioni logiche e giuridiche sottese alle censure rivolte alla valutazione degli elementi probatori, e non può limitarsi a invitare la Corte alla lettura degli atti indicati, il cui esame diretto è alla stessa precluso (Cass. pen., Sez. VI, n. 29263/2010); il ricorso per cassazione con cui si lamenti la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione per l'omessa valutazione di circostanze acquisite agli atti non potrebbe, quindi, limitarsi, pena l'inammissibilità per difetto di specificità, ad addurre l'esistenza di atti processuali non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione del provvedimento impugnato ovvero non correttamente od adeguatamente interpretati dal giudicante, ma dovrebbe, invece (Cass. pen., Sez. VI, n. 45036/2010):

a) identificare l'atto processuale cui fa riferimento;

b) individuare l'elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza;

c) dare la prova della verità dell'elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonchè della effettiva esistenza dell'atto processuale su cui tale prova si fonda;

d) indicare le ragioni per cui l'atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l'intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale "incompatibilità" all'interno dell'impianto argomentativo del provvedimento impugnato.

Si è precisato che la condizione della specifica indicazione degli altri atti del processo, con riferimento ai quali, l'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., configura il vizio di motivazione denunciabile in sede di legittimità, può essere soddisfatta nei modi più diversi (quali, ad esempio, l'integrale riproduzione dell'atto nel testo del ricorso, l'allegazione in copia, l'individuazione precisa dell'atto nel fascicolo processuale di merito), purché detti modi siano comunque tali da non costringere la Corte di cassazione ad una lettura totale degli atti, dandosi luogo altrimenti ad una causa di inammissibilità del ricorso, in base al combinato disposto degli artt. 581, comma 1, lett. c), e 591 c.p.p. (Cass. pen., Sez. III, n. 43322/2014).

Vizi di motivazione, violazioni processuali ed accesso agli atti in Cassazione

I motivi di ricorso deducibili in sede di legittimità sono indicati dall'art. 606, comma 1, lett. da a) a e), c.p.p. Le conseguenze del principio di autosufficienza del ricorso, non affermato da alcuna norma ma desunto in via interpretativa, generalmente (anche se a volte solo implicitamente) considerandolo attributo della necessaria specificità del ricorso, non possono, pertanto, prescindere dalla disciplina dettata dall'art. 606 c.p.p., e dai poteri-doveri del giudice di legittimità che ne conseguono, diversi a seconda delle tipologie di motivo.

Può, ad esempio, ritenersi pacifico che, allorché sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, un error in procedendo ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., la Corte di cassazione sia giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può/deve accedere all'esame diretto degli atti processuali (Cass. pen., Sez. unite, n. 42792/2001: in applicazione del principio, in una fattispecie relativa alla denuncia di inutilizzabilità, in procedimento incidentale de libertate, di intercettazioni di comunicazioni tra presenti, la S.C. ha provveduto all'esame diretto dei decreti autorizzativi del giudice per le indagini preliminari e di quelli esecutivi del pubblico ministero; conformi, successivamente, Cass. pen., Sez. I, n. 8521/2013, avente a oggetto una doglianza di omessa notifica al difensore di fiducia del decreto di fissazione dell'udienza camerale nel procedimento di sorveglianza, e Cass. pen., Sez. III, n. 24979/2018).

Tuttavia, i poteri/doveri della Corte di cassazione di controllo degli atti per la verifica della fondatezza dei motivi inerenti ad asseriti errores in procedendo non possono esonerare il ricorrente dalla specifica indicazione dell'atto da esaminare e sul quale compiere la verifica richiesta (cfr., ad esempio, Cass. pen., Sez. VI, n. 10373/2002: fattispecie nella quale il ricorrente aveva contestato la competenza del giudice delle indagini preliminari, asserendo di aver tempestivamente eccepito la questione all'udienza preliminare e di averla riproposta nelle successive fasi di merito, senza tuttavia indicare nel ricorso la data delle relative udienze, e quindi i verbali specificamente rilevanti, e quindi da consultare; conforme, Cass. pen., Sez. VI, n. 17377/2016, che ha ritenuto affetto da genericità il motivo di ricorso per cassazione che - lamentando la violazione di norme processuali in relazione all'art. 601 c.p.p., per l'omessa notifica all'imputato del decreto di citazione a giudizio, a seguito del rinvio di ufficio disposto a causa dell'adesione del difensore all'astensione di categoria – aveva omesso di precisare a quale decreto di citazione si riferisse la doglianza).

In ordine agli errores in procedendo, quindi, l'onere di specificità del ricorso imposto dall'art. 581, comma 1, c.p.p. impone la specifica indicazione:

  • dell'atto viziato;
  • del vizio dedotto (con la sanzione prevista: se non sanzionati a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità, decadenza, gli errores in procedendo non sarebbero deducibili).

A ciò si aggiunge l'onere di procedere alla c.d. prova di resistenza. Invero, la sentenza impugnata, pur se formalmente viziata da inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità etc., intanto va annullata in quanto si accerti che la prova illegittimamente acquisita ha avuto una determinante efficacia dimostrativa nel ragionamento giudiziale, un peso reale sul convincimento e sul dictum del giudice di merito, nel senso che la scelta di una determinata soluzione, nella struttura argomentativa della motivazione, non sarebbe stata la stessa senza l'utilizzazione di quella prova, nonostante la presenza di altri elementi probatori di per sé ritenuti non sufficienti a giustificare identico convincimento (Cass. pen., Sez. unite, n. 16/2000: fattispecie nella quale, tra gli altri elementi a carico, era stata valutata la falsità di un alibi, rivelatasi non determinante ai fini della dichiarazione di colpevolezza). Ne consegue che, nell'ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti uno degli errores in procedendo deducibili, in ipotesi inficiante uno degli elementi “a carico”, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di aspecificità, l'incidenza dell'eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta prova di resistenza, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti e ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l'identico convincimento (Cass. pen., Sez. II, n. 7986/2018 e Cass. pen., Sez. III, n. 3207/2015).

Non era, al contrario previsto (e non lo è tuttora, alla luce del nuovo art. 165-bis disp. att. c.p.p.) alcun onere di allegazione o trascrizione di atti.

Assolutamente non condivisibile risultava, quindi, l'orientamento, pur estremamente diffuso, per il quale, in asserita applicazione del principio di autosufficienza del ricorso, in tema di intercettazioni, qualora in sede di legittimità venga eccepita l'inutilizzabilità dei relativi risultati, sarebbe onere della parte, a pena di aspecificità del motivo, non soltanto – come doveroso - indicare specificamente l'atto che si ritiene affetto dal vizio denunciato, ma anche curare la produzione di esso nonché delle ulteriori risultanze documentali eventualmente addotte a fondamento del vizio processuale, in particolare curando che l'atto sia effettivamente acquisito al fascicolo o provvedendo a produrlo in copia (in tal senso, cfr. da ultimo, Cass. pen., Sez. IV, n. 18335/2018).

Detto orientamento grava inammissibilmente il ricorrente di oneri a ben vedere già prima dell'introduzione dell'art. 165-bis disp. att. c.p.p. gravanti sulla cancelleria dell'Ufficio a quo (la sola tenuta, in ossequio alle già vigenti disposizioni regolamentari, a formare il fascicolo da inviare in Cassazione), e ipotizza che l'inammissibilità del ricorso possa dipendere da fattori del tutto accidentali (la diligenza o meno della predetta cancelleria nella formazione del fascicolo da inviare in Cassazione), peraltro non verificabili ex ante, ovvero al momento della presentazione del ricorso, ma solo ex post, ovvero dopo la presentazione del ricorso (poiché è solo dopo la presentazione del ricorso che ha luogo la formazione del fascicolo da inviare in Cassazione, e la parte può verificare se un determinato atto vi sia stato, o meno, inserito), ipotizzando la configurabilità di una sorta di inammissibilità sopravvenuta (in caso di duplice inerzia, della cancelleria predetta e successivamente dello stesso ricorrente, tra l'altro in ipotesi tenuto ad attivarsi – in caso di lungaggini amministrative – anche a termine per il deposito del ricorso scaduto, il che non sarebbe comunque consentito) che nessuna disposizione vigente autorizza a configurare.

L'esame diretto degli atti processuali non è in assoluto precluso alla Corte di cassazione neppure quando risulti denunziata la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione: gli atti cui il giudice di legittimità può, e quindi, se necessario, deve, accedere sono, peraltro, soltanto quelli specificamente indicati nei motivi di gravame (così testualmente l'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., come modificato dalla l. 46 del 2006). “Indicati”: non “allegati” né “trascritti” ma unicamente “indicati”.

L'irragionevolezza dell'orientamento che, in nome del principio dell'autosufficienza, pretenderebbe di onerare il ricorrente dell'allegazione o trascrizione di atti, è confermata anche dal fatto che il ricorrente potrebbe, in ipotesi, allegare o trascrivere atti non facenti parte del procedimento, ovvero trascrivere erroneamente, o solo parzialmente, atti che ne facciano parte: per tale ragione, ragionevolmente, il codice di rito lo onera sempre e soltanto (con riferimento sia agli errores in procedendo che ai vizi di motivazione) da un onere di specifica indicazione, giammai di allegazione o trascrizione.

Nessun autonomo problema sembra porsi per i motivi di cui alla lettera a) (ipotesi assolutamente residuale) e alla lettera b) (che possono riguardare unicamente questioni di diritto penale sostanziale).

Quanto ai motivi di cui alla lettera d), secondo un orientamento consolidato (Cass. pen., Sez. II, n. 41744/2015), la deduzione della mancata assunzione di una prova decisiva può essere proposta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l'assunzione a norma dell'art. 495, comma 2, c.p.p. ma non in relazione a quelli di cui l'ammissione non sia stata sollecitata, o sia stata sollecitata soltanto ai sensi dell'art. 507 dello stesso codice, né, tanto meno, con riferimento ad attività di indagine che - ad avviso del ricorrente - il P.M. avrebbe dovuto svolgere, ma che non è stata espletata. Ne consegue che, per essi, in ordine alla dimostrazione di avere previamente richiesto ex art. 495, comma 2, c.p.p. l'ammissione della prova che si assume decisiva, può valere quanto affermato in ordine ai motivi di cui alla lettera c): il ricorrente dovrà indicare specificamente l'udienza nella quale la richiesta era stata formalizzata, salvo il successivo controllo - demandato al giudice di legittimità - del contenuto del relativo verbale; dovrà altresì dar conto delle ragioni poste a fondamento della mancata ammissione: il rigetto della richiesta, ad esempio perché non preceduta dal prescritto deposito della lista, renderebbe il motivo di ricorso ex art. 606, comma 1, lett. d), non consentito (in difetto di previa rituale richiesta di ammissione ex art. 495, comma 2, c.p.p.). Quanto alla decisività della prova, incomberà certamente al ricorrente darne conto, previo specifico esame della motivazione posta a fondamento della contestata affermazione di responsabilità.

In conclusione

La Corte Edu ha avuto più volte modo di affermare che sono in contrasto con il diritto di accesso alla tutela giurisdizionale, garantito dell'art. 6, § 1, della Convenzione Edu, le limitazioni apposte dalla Corte di cassazione al diritto di accesso al sindacato di legittimità che risultino non proporzionate al fine di garantire la certezza del diritto e la buona amministrazione della giustizia (cfr., per tutte, Sez. I, 24 aprile 2008, caso K. ed altri c. Lussemburgo: nel caso di specie, i ricorrenti lamentavano il formalismo eccessivo asseritamente mostrato dalla Corte di cassazione lussemburghese nel dichiarare irricevibile il loro ricorso, per non essere stati articolati con sufficiente precisione i motivi di impugnazione, ed il conseguente pregiudizio al loro diritto di accesso ad un tribunale).

Come riconosciuto dalla Sezioni unite civili della Corte di cassazione (n. 17931/2013), la Corte Edu ritiene, quindi, che, nell'interpretazione e applicazione della legge processuale, «gli Stati aderenti, e per essi i massimi consessi giudiziari, devono evitare gli "eccessi di formalismo", segnatamente in punto di ammissibilità o ricevibilità dei ricorsi; consentendo per quanto possibile; la concreta esplicazione di quel "diritto di accesso ad un tribunale" previsto e garantito dall'art. 6 § 1 della Convenzione Edu». Tale principio non vieta, tuttavia, agli Stati aderenti «la facoltà di circoscrivere, per evidenti esigenze di opportunità selettiva, a casistiche tassative, in relazione alle ipotesi ritenute astrattamente meritevoli di essere esaminate ai massimi livelli della giurisdizione, le relative facoltà di impugnazione, con la conseguenza che non si ravvisa contrasto allorquando le disposizioni risultino di chiara evidenza senza lasciare adito a dubbi» ma «costituisce, nei diversi casi in cui le norme si prestino a diverse accezioni ed applicazioni, un canone direttivo nella relativa interpretazione, che deve in siffatti ultimi casi propendere per la tesi meno formalistica e restrittiva».

Ciò premesso quanto ai limiti che è legittimo apporre al diritto di accesso al sindacato di legittimità, appare evidente che risulterebbe anche convenzionalmente illegittimo condizionare l'accesso al sindacato di legittimità al soddisfacimento di un onere di allegazione o trascrizione normativamente non previsto, oltre che irragionevole e formalistico (avendo ad oggetto atti che è normativamente previsto sia compito della cancelleria del giudice a quo trasmettere in Cassazione, e che quindi – anche a prescindere dall'iniziativa del ricorrente – devono già fare parte del fascicolo).

Questa soluzione, attualmente imposta dal chiaro dettato del sopravvenuto art. 165-bis, comma 2, disp. att. c.p.p. ma che già in precedenza poteva ritenersi accolta dal codice di rito, si lascia preferire perché certamente più idonea a favorire l'instaurazione di una corretta dialettica processuale tra le parti, ed, in definitiva, un corretto controllo di legittimità, al contrario non assicurato dalla mera trascrizione od allegazione (che, oltre a non essere normativamente richieste, e non potere, quindi, ostacolare l'accesso al sindacato di legittimità, comporterebbero, inoltre, l'onere di verificare se la trascrizione dell'atto sia stata corretta e completa, e se l'atto trascritto od allegato facesse effettivamente parte del procedimento, e quindi imporrebbero quell'accesso promiscuo – non selettivo, come quello consentito dalla contraria soluzione accolta - agli atti, al contrario precluso, perché indebito, in sede di legittimità).

Va quindi certamente recepito e applicato anche in sede penale il principio della “autosufficienza del ricorso”, elaborato in sede civile; deve, peraltro, precisarsi che esso comporta unicamente che:

  • quando sia denunziato uno degli errores in procedendo indicati dall'art. 606, comma 1, lett. c), c.p.p., il ricorrente – pur nel silenzio del nuovo art. 165-bis, comma 2, disp. att. c.p.p. - conserva l'onere di indicare specificamente l'atto da esaminare (ma tale onere può ritenersi soddisfatto implicitamente, quando non vi sia possibilità di incertezze: si pensi al caso in cui sia denunziata una omessa citazione a giudizio inerente a giudizio celebratosi in una sola udienza), oltre che di operare, quando necessario, la c.d. prova di resistenza;
  • quando sia denunziato un vizio di motivazione avente a oggetto determinati atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, conformemente a quanto espressamente previsto dal nuovo art. 165-bis, comma 2, disp. att. c.p.p., è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante la specifica indicazione dei singoli atti richiamati e della loro sede processuale, oltre che del loto richiamato contenuto, non potendo egli limitarsi ad invitare sic et simpliciter la Cassazione alla lettura degli atti indicati, posto che (come in sede civile) anche in sede penale è precluso al giudice di legittimità l'esame diretto e indiscriminato degli atti del processo per ragioni di merito.

In entrambi i casi, la materiale allegazione nel fascicolo da inviare in Cassazione degli atti specificamente indicati in ricorso rientra esclusivamente nei compiti della cancelleria del giudice a quo, cui potranno in ogni momento essere richieste le necessarie integrazioni (se del caso, anche fuori dal contradditorio, trattandosi di atti necessariamente noti alle parti).

Con riguardo ai soli errores in procedendo, nel silenzio dell'art. 165-bis disp. att. c.p.p., un onere di allegazione potrà al più essere configurato a carico del ricorrente unicamente con riguardo agli atti del procedimento non confluiti nei fascicoli del dibattimento di primo e secondo grado, ma rimasti in quello del P.M. (si pensi, ad esempio, ai decreti autorizzativi di intercettazioni, rilevanti per delibare questioni di inutilizzabilità, nei limiti in cui esse risultino deducibili o rilevabili anche d'ufficio per la prima volta in sede di legittimità, ovvero all'avviso ex art. 415-bis c.p.p., in ipotesi esibito in visione al Gup o al tribunale procedente, ma non acquisito agli atti).

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