Remunerazione della persona informata sui fatti per le false dichiarazioni alla P.G. Sulla (non) ravvisibità della corruzione

15 Novembre 2018

È questione di difficile soluzione, con non minimi margini di opinabilità, quella relativa a come qualificare la condotta di chi, nella qualità di persona informata sui fatti assunta dalla polizia giudiziaria, risulti in certo qual modo connivente con l'imputato...
Abstract

Chi remuneri la persona informata sui fatti per le false dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria non commette il reato di corruzione, in quanto la stessa, a differenza del testimone, non riveste la qualifica di pubblico ufficiale (Cass. pen., Sez. VI, 30 maggio 2018 - dep. 30 agosto 2018, n. 39280).

Introduzione

È questione di difficile soluzione, con non minimi margini di opinabilità, quella relativa a come qualificare la condotta di chi, nella qualità di persona informata sui fatti assunta dalla polizia giudiziaria, risulti in certo qual modo connivente con l'imputato, rendendo false dichiarazioni per il medesimo favorevoli in presenza ma anche in assenza di previo accordo.

La affronta indirettamente con una motivazione lunga e complessa la Corte di cassazione, Sezione VI penale, nella sentenza in commento. Si anticipa che la Corte ha deciso che le false dichiarazioni della persona informata sui fatti sono irrilevanti ai fini dei reati di intralcio alla giustizia (art. 377 c.p.) e di induzione a rendere dichiarazioni mendaci all'autorità giudiziaria (art. 377- bis c.p.); a fortiori lo sono ai fini dei reati di falsa testimonianza (art. 372 c.p.) e di false dichiarazioni al pubblico ministero (art. 371 c.p.), potendo al più sostanziare la materialità del reato di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.). È indiretta l'analisi sul punto della S.C. in quanto il caso devoluto alla sua cognizione riguardava in realtà la posizione di chi, avvantaggiandosi delle false dichiarazioni della persona informata sui fatti, la remuneri, anche ex post. La rilevanza penale della condotta di costui dipende, non tanto dalla rilevanza penale, e dalla connessa qualificazione giuridica, della condotta della persona informata sui fatti ma dal suo status di pubblico ufficiale o meno. Solo qualora si attribuisca a essa detto status, infatti, può configurarsi in capo all'elargitore della remunerazione un'ipotesi di corruzione; diversamente, nella rigorosa ricorrenza però dei rispettivi presupposti, potranno trovare applicazione singole ipotesi di reato intese a colpire il turbamento del corretto corso della giustizia; in difetto anche di queste, potranno venire in rilievo i principi ordinari in tema di concorso di persone nel reato, i.e., nel reato della persona informata sui fatti; ma non essendo contemplato in Italia il concorso successivo, in tale ipotesi, siffatto elargitore deve essere mandato assolto da ogni addebito.

Il tema in questione è senz'altro meritevole di approfondimento, dal momento che la persona informata sui fatti – il cui inquadramento processual-penalistico è di per se stesso problematico (si segnala in argomento la completa e approfondita analisi di C. Conti–C. Bonzano, Persona informata sui fatti), contribuisce al procedimento penale con dichiarazioni che, per quanto non paragonabili per valore e funzione a quelle rilasciate dal testimone nella fase dibattimentale o nel corso dell'incidente probatorio, rappresentano pur sempre un contributo conoscitivo di rilevante entità, talora persino unico o comunque determinante, non solo ai fini dell'impulso delle indagini preliminari ma anche ai fini della decisione nelle parentesi cautelari che si aprono in seno a queste ultime e, oltre, in sede propriamente giudiziale, nei moduli consensuali ovvero anche nel modulo classico in funzione di accordi sull'inserimento di atti di indagine nel fascicolo del dibattimento.

La questione

La questione su cui è intervenuta la Corte di cassazione si contestualizza in una vicenda molto più ampia, coinvolgente due iniziali filoni di indagine. Il primo originava in quel di Ivrea in relazione alla commissione, a opera di C., di reati tributari per emissione di fatture inesistenti. Il secondo si apriva a Rimini in relazione a ipotesi di reato omogenee, per fatti collegati alle presunte “cartiere” del primo filone. Esso attingeva il predetto C. e un tale E., concludendosi con una sentenza, definitiva, di applicazione della pena su richiesta delle parti. Riguardo segnatamente alla posizione di E., scendeva l'accordo su un'imputazione, tra l'altro, di favoreggiamento personale (art. 378 c.p.), posto in essere a beneficio di C. mediante false dichiarazioni rese alla G.d.F. di Ivrea, da cui era stato escusso in ue occasioni.

La sentenza in commento definisce il troncone piemontese delle contestazioni mosse a C., tra l'altro chiamato a rispondere di corruzione per aver corrisposto una remunerazione ad E. dopo le due escussioni ad opera della G.d.F.

La S.C. – puntualizzato che «nessun elemento consente di affermare che la falsità delle dichiarazioni rilasciate dall'E. fosse stato oggetto di un preventivo e prezzolato accordo raggiunto con l'odierno ricorrente[, poiché] i giudici del Tribunale di Ivrea sono espliciti nel significare, per un verso, che fu il detto E., successivamente alla sua audizione, a contattare telefonicamente il C. (di cui aveva nel frattempo appreso il reale e significativo ruolo ricoperto in seno ai fatti, globalmente considerati), al quale rappresentò di aver detto il falso, quanto all'inesistente trasporto per cui aveva emesso una fittizia fattura; per altro verso, che fu l'anzidetto C., nel medesimo contesto, a manifestare la volontà di esprimere concreta gratitudine al proprio interlocutore (‘Nessun cane muove la coda per niente')» – afferma che «è da escludere, conformemente alla prospettazione difensiva, che all'E. vada riconosciuta la veste di pubblico ufficiale». In effetti la prospettazione difensiva – disattesa soltanto nella parte articolata sulla denunciata violazione, ad opera del giudice di merito, del principio del nemo tenetur se detegere (art. 63, comma 2, c.p.p.) riferito all'E., dal momento che nessun valore penale avrebbero assunto le eventuali ammissioni del dichiarante su se stesso – era nel senso l'E. mai avrebbe potuto essere considerato un pubblico ufficiale, in quanto assunto come mera persona informata sui fatti, e non come testimone, oltretutto dall'autorità di polizia giudiziaria, ben distinta dalla magistratura inquirente.

La soluzione della Corte di cassazione

La Corte di cassazione marca la differenza tra persona informata sui fatti e testimone, asserendo che, da un lato, la tutela della veridicità delle affermazioni del testimone e del suo prestigio personale – in considerazione del contributo che rappresentano alla formazione del convincimento del giudice – comporti, naturaliter, l'assunzione della veste di pubblico ufficiale; mentre, dall'altro, «così non è per la persona informata sui fatti, il cui contributo conoscitivo si colloca nella fase delle indagini preliminari, dunque in un momento in cui è ancora fluida l'acquisizione del materiale probatorio, che s'ignora addirittura se condurrà al rinvio a giudizio dell'indagato/imputato». Un'estensione della qualifica risulterebbe, in tale ottica, il ricorso a un illegittimo ragionamento analogico in malam partem.

A rafforzamento di tale tesi, la Corte ricorre ad argomenti tratti dalla sistematica dei reati contro l'amministrazione della giustizia.

Primario riferimento è quello all'art. 371-bis c.p., il quale – introdotto, si ricorda in motivazione, per colmare il vuoto di tutela riguardante le false informazioni rese di fronte al pubblico ministero – non contempla anche l'ipotesi delle falsità dichiarate all'autorità di polizia giudiziaria, neppure se delegata ad acquisire informazioni dal pubblico ministero.

Un ulteriore punto della motivazione è stato speso per escludere, a partire dalla medesima base ricostruttiva, anche differenti possibilità di qualificazione giuridica della condotta della persona informata sui fatti che renda false dichiarazioni all'autorità di polizia giudiziaria. Il richiamo è agli artt. 377 e 377-bis c.p., connotati entrambi dall'elemento delle dichiarazioni mendaci rese però davanti all'autorità giudiziaria, il che esclude quelle rese davanti all'autorità di polizia giudiziaria.

La formula adottata dalla Corte, all'esito del percorso argomentativo qui riportato nelle sue linee fondamentali, è quella dell'annullamento senza rinvio per insussistenza del fatto, chiaramente nei limiti del devoluto.

Considerazioni sulla persona informata dei fatti

Ribadendo quanto già detto in premessa riguardo alle evidenti difficoltà ricostruttive della figura in sé della persona informata sui fatti, le argomentazioni addotte dalla S.C. a sostegno della decisione in esame, possono, in astratto, presentarsi come non incontestabili. Esse hanno sicuramente il pregio di un ferreo radicamento nella lettera delle varie disposizioni volte a delineare, e quindi a delimitare, la rilevanza penale delle false dichiarazioni della persona informata sui fatti; tuttavia, sul rilievo che siffatta delimitazione circoscrive il novero delle condotte penalmente rilevanti dall'angolo di visuale della persona informata sui fatti e non, o almeno non automaticamente, altresì dall'angolo di visuale di chi con la medesima si relazioni, non sono pochi gli elementi testuali e, ci si potrebbe spingere persino a dire, ontologici che, sul piano dello status della persona informata sui fatti, paiono suscettibili di rendere labile la linea di demarcazione tra la medesima e il testimone. Sia consentito al riguardo di rilevare che è proprio sulla predetta linea di demarcazione che in principalità ha ritenuto la Corte di fondare la decisione, rilevando come il testimone è pubblico ufficiale perché dialoga direttamente con il giudice e influisce altrettanto direttamente sul suo convincimento, mentre la persona informata sui fatti non lo è perché, in specie quando dialoga con l'autorità di polizia giudiziaria, offre un contributo alle indagini e non al giudizio e pertanto non influisce direttamente sul convincimento del giudice, che conosce del tema della penale responsabilità dell'imputato solo a giudizio già instaurato.

Nondimeno, sia autorevole dottrina che, in ordine più sparso, la giurisprudenza costituzionale e la stessa giurisprudenza di legittimità hanno più volte efficacemente posto in luce come tra persona informata sui fatti e testimone non corra, al fondo, una diversità sostanziale.

Innanzitutto, come reso evidente dal rinvio alle norme sulla testimonianza effettuato dall'art. 362, comma 1, c.p.p., cui a sua volta rinvia (con tecnica legislativa di opinabile qualità) l'art. 351, comma 1, c.p.p., anche le persone informate sui fatti sono sottoposte, qualora ovviamente non risultino successivamente coinvolti come indagati o imputati per il medesimo reato (art. 63, comma 2, c.p.p.), al nucleo degli obblighi fondamentali riguardanti il testimone, in specie quanto al doversi presentare dietro convocazione ed al dover affermare il vero senza reticenze. Lo stesso dicasi per i diritti che scattano con l'acquisizione del ruolo: spettano anche alla persona informata sui fatti il privilegio contro l'auto-incriminazione, il diritto alla tutela del segreto professionale e il diritto all'astensione in caso di relazioni di prossimità con l'indagato (cfr. soprattutto P. Tonini, Diritto processuale penale, Milano, 2018, pp. 403-404; pur con accenti diversi, sottolinea egualmente la continuità fra le due figure anche N. Triggiani, Le indagini preliminari, in AA. VV., Manuale di procedura penale, Torino, 2015, p. 456).

Non solo.

Vero è che le dichiarazioni rese dalla persona informata sui fatti non sono, “di norma”, utilizzabili in dibattimento: ma, appunto, “di norma”, perché è parimenti vero che siffatta regola conosce le pur limitate eccezioni di cui all'art. 500 c.p.p., il quale, interpretato in un'ottica costituzionalmente orientata, sembra inteso a colmare i vuoti di tutela altrimenti lasciati aperti da un'ipostatizzazione del principio del contraddittorio nel processo, non tutelabile anche nelle evenienze in cui, per eventi extra-processuali, non trova concreta possibilità di estrinsecazione perché la persona informata sui fatti non può essere escussa ‘anche' come testimone in dibattimento (G. Garuti, Il giudizio ordinario, in AA. VV., Procedura penale, Torino, 2015, pp. 581-582). Si aggiunga che agli eventi extra-processuali possono affiancarsi precise scelte processuali delle parti, comportanti una “rinuncia incrociata” al contraddittorio nel senso più pregnante del termine (Corte cost., 26 giugno 2009, n. 184, nel rigettare la Q.L.C. degli artt. 442 e 546 c.p.p.) e per l'effetto una piena “ri-espansione” dell'utilizzabilità giudiziale degli atti di indagine, tra cui in primis i processi verbali di sommarie informazioni rese da persone informate sui fatti, come accade nella stragrande maggioranza dei casi, all'autorità di polizia giudiziaria che procede d'iniziativa.

Appurato che l'impermeabilità della fase giudiziale alle sommarie informazioni della persona informata sui fatti è tutt'altro che assoluta e infrequente, in quanto, se non è raro che ricorra alcuno dei casi legittimanti le letture delle stesse in dibattimento, è comunissima la definizione alternativa del procedimento, che presuppone l'utilizzabilità in toto degli atti contenuti nel fascicolo del P.M., e rilevato dunque che di per sé vacilla l'assioma secondo cui le sommarie informazioni medesime hanno valore di «documentazione dotata di efficacia processuale», pur se priva di rilevanza probatoria ai fini della decisione (F. D'Alessio, Sub Art. 351, in G. Lattanzi-E. Lupo, Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, Aggiornamento a cura di P. Bronzo, Vol. V, Milano, 2017, 214 s.), corrisponde alla fisiologia del modello che esse godano di piena utilizzabilità nella fase delle indagini preliminari, nel cui contesto tengono luogo della testimonianza. Talché, mentre in fase giudiziale la decisione, “di norma”, poggia sulla testimonianza, nella fase delle indagini preliminari sia le determinazioni del pubblico ministero sia, e soprattutto, le decisioni del giudice negli incidenti cautelari poggia sulle sommarie informazioni. Sin da subito dimostra di aver colto il punto la giurisprudenza di legittimità allorquando, agli albori dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, si è premurata di precisare che «il fatto che le sommarie informazioni alla polizia giudiziaria […] non abbiano alcuna rilevanza probatoria ai fini della decisione, non esclude che le stesse - debitamente documentate (art. 357, comma 1,) e destinate a formare il fascicolo del P.M. (art. 373, comma 5, c.p.p.) – possano essere utilizzate, nell'ambito della fase delle indagini preliminari, da sole o unitamente agli altri elementi posti a fondamento della contestazione, nei limiti di cui all'art. 191 stesso codice, ai fini della valutazione della gravità degli indizi di colpevolezza per l'emanazione di provvedimenti restrittivi della libertà personale»(Cass. pen., Sez. II, 20 febbraio 1991, n. 1344).

Viene a questo punto in linea di conto una certa difficoltà a condividere l'assunto corrente, che pare avere incontrato il favore anche della S.C. nella sentenza in commento, secondo cui le sommarie informazioni non concorrono a determinare la decisione del giudice: esso, peraltro al di fuori dei recuperi consentiti dall'art. 500 c.p.p., è corretto se per decisione si intende la sentenza e per giudice si intende il giudice del dibattimento; ma si rivela impreciso in una considerazione globale del procedimento, sol che si consideri che, in indagini, le sommarie informazioni costituiscono la base conoscitiva tipica del giudice che ad esse sovrintende, il giudice per le indagini preliminari, nella delibazione non solo di provvedimenti propulsivi, come ad esempio quelli in materia di autorizzazioni delle intercettazioni, ma anche di provvedimenti decisori, come quelli cautelari.

In questa prospettiva, le sommarie informazioni della persona informata sui fatti si distinguono bensì dalla testimonianza ma per la sedes in cui sono rese le prime rispetto alla seconda. Non è un caso che una delle notazioni più interessanti in dottrina sulla figura della persona informata sui fatti riguarda la possibilità – ma, a ben vedere, si potrebbe meglio parlare di potenzialità – della stessa di venir successivamente ammessa (se ed in quanto se ne paventi la necessità) come testimone (in tal senso è particolarmente netto M. Chiavario, Diritto processuale penale, Torino, 2017, 246 s., il quale specifica come la persona informata sui fatti sia «normalmente destinata a diventare» testimone). Questa qualità potenziale della persona informata sui fatti costituisce, peraltro, una delle principali acquisizioni del modello accusatorio nella sua versione originale, da cui autorevole dottrina trae la designazione alternativa di tale soggetto come “possibile testimone” (P. Tonini, loc. ult. cit., e C. Conti–C. Bonzano, loc. ult. cit.). Merito evidente di una simile scelta definitoria è quello di sottolineare già a partire dal nomen juris il legame e la continuità fra le due figure della persona informata sui fatti e del testimone, invece di postulare una separatezza che appare piuttosto frutto di un artificio.

Alla luce delle superiori osservazioni, potrebbe non essere un fuor d'opera l'attingimento di conclusioni divergenti da quelle della S.C. a proposito della mancanza, da questa ritenuta, della qualifica di pubblico ufficiale in capo alla persona informata sui fatti. Invero anche la persona informata sui fatti, al pari del testimone, esercita una «pubblica funzione giudiziaria» (art. 357, comma 1, c.p.), che, attesa l'onnicomprensività della lettera della legge, non esclude le indagini preliminari sol perché anteriori al giudizio vero e proprio.

Limiti reali e apparenti della normativa sostanziale alla qualificazione come pubblico ufficiale della persona informata sui fatti anche se assunta dalla polizia giudiziaria

Resta da stabilire se le conclusioni testé raggiunte siano inficiate dal fatto che il diritto sostanziale, con precipuo riferimento agli artt. 377 e 377-bis c.p., sembra ostacolare l'attribuzione di rilevanza penale alle false informazioni rese da una persona informata sui fatti che – come nel caso di specie – sia assunta dalla polizia giudiziaria, d'iniziativa o anche su delega del pubblico ministero.

Invero, le figure delittuose di cui si tratta, nel collocarsi nel medesimo alveo di quelle di cui agli artt. 371-bis e, mutatis mutandis, 371-ter c.p., integrano una categoria di reati contro l'attività giudiziaria in senso lato (M. Riverditi, Reati contro l'amministrazione della giustizia, in F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, Vol. II, Milano, 2016, 581 ss.; similmente G. Piffer, I delitti contro l'amministrazione della giustizia, in G. Marinucci–E. Dolcini, Trattato di diritto penale, Parte speciale, Vol. IV, Padova, 2005, 6 ss.), siccome volte a punire la lesione del bene giuridico ‘finale' dell'amministrazione della giustizia attraverso l'aggressione ‘strumentale' alla genuinità delle dichiarazioni dotate, a vario titolo, secondo le differenti fasi procedimentali, di rilevanza, con conseguente emersione di un bene giuridico ‘intermedio', tuttavia oggetto immediato della condotta, rappresentato dall'ordinato svolgimento del procedimento (G. Fiandaca–E. Musco, Diritto penale, Parte speciale, Vol. I, Bologna, 2014, 377, 384 ss., 400 e 403).

A indurre a operare tale costruzione è la specificazione, in entrambi gli artt. 377 e 377-bis c.p., del presupposto dell'assunzione delle dichiarazioni davanti all'autorità giudiziaria, seppure, in seno all'art. 377-bis c.p., nel più ampio corso del procedimento penale e non in quello, più limitato, del processo, cui necessariamente fa riferimento il delitto di falsa testimonianza. In disparte, per un attimo, la considerazione che la rilevanza delle dichiarazioni in rapporto al procedimento penale nel solo art. 377-bis c.p. porta taluno, in relazione al delitto di intralcio alla giustizia, già subornazione, ex art. 377 c.p. a parlare restrittivamente di «tutela del corretto svolgimento dell'attività [esclusivamente] processuale» (M. Riverditi, op. cit., 637), viene in linea di conto che, secondo l'opinione corrente (G. Piffer, op. cit., 421 e 621; G. Fiandaca–E. Musco, op. cit., 384), sia quanto all'art. 377 c.p. che quanto all'art. 377-bis c.p., emerge la figura polarizzante dell'autorità giudiziaria, non già semplicemente come titolare delle prerogative il cui corretto esercizio è dedotto a presidio della tutela penale, ma come protagonista dell'attività di raccolta degli elementi di valutazione funzionali all'estrinsecazione dei poteri riconnessi a tali prerogative. In buona sostanza, affinché ricorrano gli estremi dei delitti p. e p. da entrambi i predetti articoli, è l'autorità giudiziaria in persona del singolo magistrato a dover intervenire nell'assunzione delle informazioni, non essendo sufficiente che queste, da chiunque raccolte, siano destinate all'autorità giudiziaria nella veste, per così dire, istituzionale e quindi impersonale. Stando così le cose, gli artt. 377 e 377-bis c.p. completano, anticipandola, la tutela penale già apprestata dall'art. 371-bis c.p., nella dinamica della cui formulazione il soggetto preposto all'assunzione delle dichiarazioni è solo il pubblico ministero e non anche la polizia giudiziaria su delega del pubblico ministero (cfr. già Cass. pen., Sez. VI, 19 aprile 1993, n. 349).

Rispetto alla prospettiva testé illustrata, mette conto di specificare che essa, forse, non è l'unica possibile, dal momento che non pare difforme alla littera legis interpretare quel «davanti all'autorità giudiziaria» (art. 377 c.p.: «Chiunque offre o promette denaro o altra utilità alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all'autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso dell'attività investigativa […]»; art. 377-bis c.p.: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, con violenza o minaccia, o con offerta o promessa di denaro o di altra utilità, induce a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci la persona chiamata a rendere davanti alla autorità giudiziaria dichiarazioni utilizzabili in un procedimento penale […]») come un riferimento all'autorità giudiziaria quale destinataria delle dichiarazioni e non quale diretta assuntrice delle stesse, alla stregua di quanto invece previsto sia dall'art. 371-bis c.p., che incrimina chiunque è «richiesto dal pubblico ministero o dal procuratore della Corte penale internazionale di fornire informazioni ai fini delle indagini», sia dall'art. 372 c.p., che incrimina chiunque depone «come testimone innanzi all'autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale». D'altronde, a voler essere precisi, negli artt. 377 e 377-bis c.p., l'agente non si identifica con colui che rende non rende le dichiarazioni, ma semplicemente con colui che è «chiamato»a renderle. Inoltre, nell'art. 377 c.p., la promessa o l'offerta di denaro o altra utilità «alla persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all'autorità giudiziaria o alla Corte penale internazionale ovvero alla persona richiesta di rilasciare dichiarazioni dal difensore nel corso dell'attività investigativa, o alla persona chiamata a svolgere attività di perito«, deve essere finalizzata a «indurla a commettere i reati previsti dagli articoli 371-bis, art. 371-ter, 372 e 373»: isolando il richiamo dell'art. 371-ter c.p., l'induzione alla commissione del corrispondente reato: “False dichiarazioni al difensore”, la “persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all'autorità giudiziaria” in realtà le rende direttamente al difensore e solo indirettamente all'autorità giudiziaria.

Fermo quanto precede, devesi peraltro osservare come, in rapporto al tema della qualificabilità o meno della persona informata sui fatti, anche se assunta dalla polizia giudiziaria, come pubblico ufficiale, la rilevanza o l'irrilevanza penale delle false informazioni dalla medesima eventualmente rese – rilevanza o irrilevanza che si commisura solo sul terreno dei reati propri, incontestata essendo l'applicabilità comunque dell'art. 378 c.p. – non viene in linea di conto, giacché non vengono in linea di conto le conseguenze sanzionatorie di un dovere di cui chi versi in una certa situazione è destinatario ma il dovere stesso. A tale riguardo, come già visto, non può seriamente revocarsi in dubbio che sulla persona informata sui fatti incombano gli stessi doveri dichiarativi che incombono sul testimone e tanto, a meno di voler accordare un'efficacia costitutiva di status alla formula di impegno in apertura di testimonianza, è sufficiente a differenziare la persona infornata sui fatti, al pari del testimone, dal quisque de populo.

In conclusione

De jure condendo, in specie di fronte alle conclusioni fatte proprie dalla S.C. nella sentenza in commento, la questione ontologico-normativa della conformazione anzitutto processual-penalistica della persona informata sui fatti necessita di essere risolta in base ad una revisione ispirata alla sintesi, di guisa da delineare uno statuto unico della medesima a prescindere dall'autorità che contingentemente ne conduce l'assunzione. Una simile riforma, semplice da attuare, potrebbe proiettarsi verso traguardi certamente più ambiziosi se, a latere, il legislatore volesse finalmente decidersi a por mano ad una disciplina di parte generale – non a caso presente in altri ordinamenti europei (si veda per tutti il § 14 StGB) – della delega di attività di per se stessa considerata, ad evitare che il caso specifico di quella del pubblico ministero alla polizia giudiziaria ne escluda altri (come quella del difensore ad un collega fuori foro ovvero finanche del giudice alla polizia giudiziaria ove sia il medesimo, perché ad esempio richiesto in sede rogatoriale, a dover svolgere attività di indagini).

A ogni buon conto, tornando al tema, sarebbe sufficiente che le dichiarazioni della persona offesa fossero riguardate unitariamente come tutt'altro che incolori per il procedimento e per il processo penale nonostante che ad assumerle non sia il pubblico ministero in persona. Ciò avrebbe il pregio di prendere contatto con la realtà, che assai di rado contempla interventi diretti del pubblico ministero, e di riconciliare la realtà con il codice di procedura penale, che vuole il pubblico ministero piuttosto come dominus delle indagini che come onnipresente, e perciò dati i numeri quasi sempre assente, superpoliziotto.

Sarebbe poi opportuno un intervento di ragguaglio che operi nel senso di coordinare le acquisizioni processuali con le previsioni di diritto penale sostanziale, costruendo un'unica figura di reato riguardante le false dichiarazioni della dichiarazioni della persona informata sui fatti. Se poi si opinasse che siffatta costruzione involga troppo tempo e troppe energie, ci si potrebbe accontentare anche di un affiancamento – nel novero degli interlocutori de visu della persona informata sui fatti – della polizia giudiziaria, sia che operi d'iniziativa sia che operi su delega, al pubblico ministero e, per quanto di ragione, al difensore.

Infine, in entrambe le prospettive processuale e sostanziale, un emendamento a un tempo profondamente semplificativo e palesemente significativo potrebbe consistere nel sostituire la circonlocuzione persona informata sui fatti con altra evocativa del concetto, indicato in più sopra, di possibile testimone, quale potrebbe essere quella di testimone pregiudiziale, in modo da risultare chiara anche sul piano definitorio una piena anticipazione in capo al medesimo degli obblighi e delle prerogative testimoniali.

Anzi, probabilmente, attesa l'attuale insostenibile frammentarietà delle previsioni sia processuali che sostanziali relative alla persona informata sui fatto, proprio un aggiustamento definitorio relativo alla stessa nel senso testé indicato potrebbe avere, persino di per sé solo, e dunque a norme invariate, un apprezzabile ruolo chiarificatore, a rimarcare che la persona informata sui fatti non è un locutore qualunque, ma un locutore qualificato dall'interazione con il procedimento penale, in cui la spontaneità, genuinità e verità dei portati dichiarativi acquisiti, ben lungi dall'individuare valori fini a se stessi, sono funzionali a garantire che la privazione della libertà di una persona privatane non solo in forza titoli definitivi ma anche provvisori, poggi su basi ragionevolmente solide.

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