Omesso versamento Iva. La riscossione dalla controparte come presupposto per la configurazione del reato

23 Novembre 2018

L'art. 10-ter del d.Lgs. 74/2000, punisce chiunque non versa l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a 250.000,00 per ciascun periodo d'imposta. La condotta incriminata si realizza allorquando il soggetto compie un'azione imponibile, percepisce dalla controparte commerciale il relativo corrispettivo, comprensivo di Iva, omette l'accantonamento dell'Iva riscossa...
Abstract

L'art. 10-ter del d.Lgs. 74/2000, punisce chiunque non versa l'imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a 250.000,00 per ciascun periodo d'imposta.

La condotta incriminata si realizza allorquando il soggetto compie un'azione imponibile, percepisce dalla controparte commerciale il relativo corrispettivo, comprensivo di Iva, omette l'accantonamento dell'Iva riscossa, effettua la dovuta dichiarazione annuale e volontariamente omette il versamento dell'imposta per un importo superiore alla soglia di punibilità indicata dalla norma.

Il reato è punibile a titolo di dolo generico e difatti, per la commissione del reato, è sufficiente la coscienza e la volontà di non versare all'Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato. Tale coscienza e volontà deve investire anche la soglia di Euro 250.000,00, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore.

Fonte: ilTributario.it

La giurisprudenza di legittimità sull'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 10-ter d.lgs. 74/2000

L'analisi dell'elemento soggettivo è stato ampiamente affrontato dalla giurisprudenza di legittimità ed il fondamento dogmatico va rintracciato nella pronuncia della Cass. pen., Sez. unite, n. 37424/2013 (depositata il 12 settembre 2013), nella cui ampia motivazione si esamina anche, in termini di dolo, l'omesso versamento determinato da una crisi di liquidità del contribuente.

La predetta pronuncia chiarisce che nel reato in esame la prova del dolo è insita in genere nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge il dovuto e che «il debito verso il fisco relativo ai versamenti Iva è normalmente collegato al compimento delle operazioni imponibili. Ogni qualvolta il soggetto d'imposta effettua tali operazioni riscuota già (dall'acquirente del bene o del servizio) l'Iva dovuta e deve, quindi, tenerla accantonata per l'erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere l'obbligazione tributaria».

Pertanto, «Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non fare debitamente fronte alla esigenza predetta».

La Corte ha precisato che devono essere assolti precisi oneri di allegazione, che devono investire sia l'aspetto della non imputabilità al contribuente della sua crisi economica, sia che la crisi non poteva in alcun modo essere adeguatamente fronteggiata.

Ne deriva che il contribuente può invocare la causa di non punibilità ex art. 45 c.p., escludendo pertanto la propria colpevolezza, ogni qualvolta dimostri con estremo rigore che il mancato versamento all'Erario delle somme dovute a titolo di IVA, sia stato determinato da una crisi di liquidità a lui non imputabile e per cause non dipendenti dalla sua volontà (cfr. “L'inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all'imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico” (cfr. Cass. 8352/2015).

A parere di chi scrive, il punto dolente della questione riguarda tutti quei casi in cui l'imprenditore, pur effettuando operazioni imponibili, non incassi gli importi destinati all'Erario a titolo di IVA e, proprio per la mancanza di liquidità, ne ometta il successivo versamento.

In altri termini, ci si chiede quali conseguenze scaturiscano in capo al contribuente, qualora non versi all'Erario l'IVA dichiarata ma, tuttavia, mai incassata dalla propria controparte commerciale.

Tale questione è stata affrontata più volte dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha ritenuto di doversi applicare, anche in questo caso, qualora vi fosse la concreta sussistenza, la causa di non punibilità sopra indicata.

Invero la Suprema Corte con recenti pronunce si è spinta oltre, ritenendo che il mancato incasso dell'IVA stessa porta ad escludere la sussistenza del dolo in capo all'agente, in quanto viene totalmente a mancare la concreta esistenza della possibilità di adempiere il pagamento: “Dal momento infatti che l'elemento soggettivo relativo al reato in esame è costituito dal dolo generico, inteso quale mera consapevolezza dell'illiceità della condotta omissiva finale, senza cioè essere caratterizzato da una specifica finalità di evasione, è l'esistenza concreta della possibilità di adempiere il pagamento, costituita dalla riscossione dell'IVA dalla controparte commerciale in relazione alle prestazioni fatturate e dal suo doveroso accantonamento in vista della scadenza del debito erariale, che costituisce, come già affermato da questa Corte, indefettibile presupposto della sussistenza della volontà in capo al soggetto obbligato di non effettuare nei termini il versamento dovuto” ( cfr. Cass. pen., n. 8054/2018).

Tale pronuncia, in chiara evoluzione con le precedenti, attribuisce una efficacia esimente al mancato incasso dell'IVA, ritenendolo addirittura un presupposto per la sussistenza dell'elemento soggettivo ed è stata recepita anche dai giudici di merito (cfr. Trib. Milano, sez. II, 19 febbraio 2018, n. 2136).

Inoltre con una recente sentenza (cfr. Cass. pen., n. 37089/2018) - avente ad oggetto il caso di un contribuente che invocava la causa di non punibilità, lamentando il mancato versamento dell'IVA all'Erario a causa dell'inadempienza dei suoi debitori (successivamente coinvolti in fallimenti) - la Corte ha precisato, senza ulteriormente argomentare, che “che nessuna omissione nel versamento Iva vi sarebbe stata (…), atteso che la creditrice non avrebbe ricevuto alcun pagamento riguardo alle fatture in effetti emesse” e “nessun pagamento della prestazione, quindi, così come nessun pagamento dell'Iva; dal quale, poi, sarebbe derivata l'assenza di un dovere di accantonamento in capo all'ente e, di fatto, l'insussistenza della condotta contestata”.

Il dolo generico e la causa di non punibilità

Tuttavia la recentissima pronuncia in esame (Cass. pen., Sez. III, 13 agosto 2018, n. 38595) ha ristabilito quelli che sono i confini per l'applicabilità della causa di non punibilità, escludendo indirettamente che la mancata riscossione dell'Iva e, di conseguenza il suo accantonamento, possano rappresentare un presupposto per la sussistenza dell'elemento soggettivo.

La Suprema Corte, precisando che per la configurazione del reato è sufficiente il dolo generico, ha ribadito che lo stesso risulta integrato “dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato.” La Corte ha inoltre evidenziato che il reato di cui al D.Lgs. n. 74/2000, art. 10-ter, “è unisussistente, di natura omissiva e istantanea. Ne consegue che, ai fini della sua perfezione, sono necessarie e sufficienti la coscienza e la volontà dell'azione che devono sussistere nel momento esatto in cui matura il tempo (lungo) dell'obbligazione tributaria, non un attimo prima, non un attimo dopo”. La scelta consapevole di non versare le somme all'Erario è già quindi sufficiente a provare il dolo.

Per la configurazione della forza maggiore, quindi, deve esserci l'assoluta impossibilità e non la mera difficoltà di porre in essere il comportamento omesso.

La Corte ha indicato che ai fini dell'integrazione della causa devono sussistere le condizioni che seguono: “a) il margine di scelta esclude sempre la forza maggiore perchè non esclude la "suitas" della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all'adempimento dell'obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta/politica imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) non si può invocare la forza maggiore quando l'inadempimento penalmente sanzionato sia stato con-causato dai mancati accantonamenti e dal mancato pagamento alla singole scadenze mensili e dunque da una situazione di illegittimità; d) l'inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all'imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico”.

Da quanto sopra, si evince come la Cassazione abbia implicitamente escluso qualsiasi forza esimente alla mera mancata riscossione dell'Iva ed al suo accantonamento.

In conclusione

L'analisi sopra esposta e le pronunce richiamate, non possono che non porre una dovuta riflessione conclusiva.

Proprio partendo dalla sentenza sopra citata si ricava che: “L'incriminazione, ad opera del D.L. 4 luglio 2006, art. 35, comma 7, convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, della condotta di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto dichiarata dal contribuente costituì una novità assoluta, inserita dal legislatore per impedire l'ingente evasione della relativa imposta, non adeguatamente nè tempestivamente contrastata dai normali rimedi esecutivi nè dalla criminalizzazione delle condotte prodromiche all'evasione.”

Del resto, con il reato in questione, si vuole punire chi si sottrae all'obbligo tributario nella mera consapevolezza della sussistenza di tale obbligo e che si concretizza nel non versare l'Iva dichiarata e riscossa.

Ne dovrebbe discendere che l'obbligo dell'accantonamento dell'IVA appare pertanto giustificato in quanto si vuole evitare che il soggetto obbligato al versamento disponga ad libitum degli importi equivalenti all'IVA incassata, che, con ogni evidenza, devono essere versati all'Erario. È in tale circostanza quindi che dovrebbe essere ricercata la volontà legislativa di punire tali omessi versamenti e lo precisa anche la stessa giurisprudenza: “occorre chiedersi la ragione per cui il legislatore ha ritenuto di sanzionare solo questi – e non altri – omessi versamenti, e la ragione va individuata nella natura appropriativa dei medesimi” (cfr. Trib. Bergamo, 2 ottobre 2017, n. 1907).

Dalla natura appropriativa della fattispecie delittuosa si potrebbe invece ipotizzare che la mancata riscossione dell'Iva dalla controparte commerciale farebbe venir meno il dovere di accantonamento e così l'obbligo di versamento. Del resto la stessa Cassazione ha precisato “nessun pagamento della prestazione, quindi, così come nessun pagamento dell'Iva; dal quale, poi, sarebbe derivata l'assenza di un dovere di accantonamento in capo all'ente e, di fatto, l'insussistenza della condotta contestata” (v. infra).

Pertanto, a parere di chi scrive, il mancato incasso dell'imposta sul valore aggiunto potrebbe apparire semmai un presupposto implicito del reato, un elemento oggettivo costitutivo della fattispecie, tale per cui, in mancanza di ciò, la rilevanza penale dovrebbe essere esclusa in quanto la condotta difetterebbe nel suo presupposto appropriativo.

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