Riflessioni sul danno morale: l'evidence deve essere il vero punto di riferimento del medico legale

30 Novembre 2018

In tempi del tutto recenti è tornato d'attualità il dibattito intorno al danno morale, che ha visto la pubblicazione di un prezioso contributo da parte di autorevoli esponenti del mondo dottrinario medico-legale ( Accertamento & valutazione medico-legale della sofferenza morale, SIMLA, 2018) e di un “Decalogo” della Suprema Corte in tema di danno risarcibile (Cass. civ., sent. 27 marzo 2018 n. 7513), con riferimenti anche alla c.d. sofferenza interiore.
Introduzione

In tempi del tutto recenti è tornato d'attualità il dibattito intorno al danno morale, che ha visto la pubblicazione di un prezioso contributo da parte di autorevoli esponenti del mondo dottrinario medico-legale (Accertamento & valutazione medico-legale della sofferenza morale, SIMLA, 2018) e di un “Decalogo” della Suprema Corte in tema di danno risarcibile (Cass. civ., sent. 27 marzo 2018 n. 7513), con riferimenti anche alla c.d. sofferenza interiore.

Storicamente, nel 1930, anno di emanazione del vigente Codice Penale, l'unica norma positiva che esplicitamente prevedeva il risarcimento del danno non patrimoniale era l'art. 185 c.p.: tale tipologia di pregiudizio era all'epoca individuata nella sofferenza contingente, nel turbamento dell'animo (c.d. danno morale soggettivo). Si è a lungo ritenuto, dunque, che il danno non patrimoniale fosse risarcibile solo se derivante da reato, ed esclusivamente nella forma del danno morale “soggettivo” correlato all'evento pregiudizievole.

Negli anni '70, tuttavia, ebbe inizio l'iter evolutivo giurisprudenziale che portò alla configurazione concettuale del danno biologico così come oggi è ancora inteso. All'epoca la sua risarcibilità era stata affermata sulla base dell'art. 2043 c.c. in combinazione con l'art. 32 Cost., presupponendo che la violazione del diritto alla salute integrasse un danno ingiusto. Nel 1979 la Corte Costituzionale, con sentenza n. 88 del 12-26 luglio, stabilì che la tutela risarcitoria dovesse basarsi non più sull'art. 2043 c.c., bensì sull'art. 2059 c.c., essendo il danno alla persona di natura non patrimoniale.

Nel 1983 la Cassazione Civile attribuì a tale danno un primo profilo concettuale, definendolo come menomazione dell'integrità psico-fisica (Cass. civ., sent. 6 aprile 1983 n. 2396). Lo snodo fondamentale si ebbe nel 1986, quando furono conferiti specifici connotati giuridici, tali da delineare una precisa distinzione tra danno non patrimoniale – inteso come danno morale in senso stretto, ossia una situazione di ansia e angoscia, associata a sofferenze fisiche e psichiche, da risarcire secondo l'art. 2059 c.c. – e danno biologico o alla salute, da risarcire secondo il combinato disposto dell'art. 2043 c.c. e dell'art. 32 Cost.

La storica sentenza della Corte Costituzionale del 1986 precisò che il danno biologico era rappresentato dalla menomazione dell'integrità psicofisica del soggetto, ritenendo che tale pregiudizio non fosse equiparabile al momentaneo, tendenzialmente transeunte, turbamento psicologico del danno morale subiettivo (BUZZI F., VANINI M., Guida alla valutazione psichiatrica e medico-legale del danno biologico di natura psichica, Giuffrè, 2006).

Nel 1996 si iniziò a riportare il danno biologico nell'alveo del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.: il dibattito interpretativo non cessò e i giudici, per motivare la risarcibilità, continuarono ad oscillare tra l'aggancio all'art. 2043 c.c. e all'art. 2059 c.c. Seguirono le cosiddette “Sentenze Gemelle” del 2003 (Cass. civ., sent. 31 maggio 2003 n. 8827 e 8828), grazie alle quali l'interpretazione restrittiva dell'art. 2059 c.c. basata sull'art. 185 c.p. venne abbandonata, rilevando che tale articolo non dovesse tutelare solo il danno morale derivante da reato, ma avesse a coprire anche ogni altra fattispecie lesiva del valore inerente la persona. Siffatta interpretazione fu quindi confermata dalla Corte Costituzionale, con sentenza n. 233 del 2003.

Già precedentemente alle Sentenze Gemelle le pretese risarcitorie, basate su sempre nuove voci di danno, avevano iniziato a moltiplicarsi: in un tale contesto si sviluppò il concetto, del tutto autonomo, del danno esistenziale, cagionato dalla lesione di un bene fondamentale dell'individuo ex art. 2 Cost. e differente rispetto al danno biologico, in quanto incidente sulle abitudini di vita del soggetto leso.

A seguito delle numerose duplicazioni risarcitorie caratteristiche di quegli anni si giunse così al 2008, quando le sentenze c.d. “di San Martino” delle Sezioni Unite definirono il danno non patrimoniale, di cui all'art. 2059 c.c., quale categoria unitaria non suscettibile di suddivisione in sottogruppi, in modo tale da arginare e contenere il fenomeno degli automatismi risarcitori che si erano realizzati nei primi anni 2000 (Cass. civ., Sez. Un., sent. 11 novembre 2008 nn. 2697226975). Il riferimento a molteplici tipologie di pregiudizio, in vario modo denominate (morale, biologico ed esistenziale) appariva dunque funzionale a mere esigenze descrittive, senza implicare il riconoscimento di distinte categorie di danno.

Pur avendo un impatto enorme, particolarmente in ambito assicurativo, la giurisprudenza successiva alle sentenze di San Martino è stata alquanto ondivaga in ordine al risarcimento del danno non patrimoniale: non sempre, infatti, i giudici hanno correttamente recepito l'orientamento del 2008 e hanno provveduto a risarcire solo il danno biologico, procedendo alla personalizzazione del risarcimento solo nel caso in cui fosse provata la presenza di circostanze specifiche ed eccezionali che rendessero il nocumento in concreto più grave rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone di pari età.

Le novità giurisprudenziali del 2018

Recentemente, con le sentenze n. 901/2018 e 7513/2018, la Cassazione è entrata ancora una volta nel merito della questione, affermando che il danno da sofferenza soggettiva interiore (ex morale) e il danno esistenziale/dinamico relazionale sono danni “ontologicamente diversi”, ove la sfera del danno morale, della sofferenza, del dolore e della vergogna rappresentano elementi di cui tener contoper il risarcimento e la liquidazione del danno alla persona.

In particolare, la sentenza n. 901/2018, cassando la decisione della Corte d'Appello di Roma, ha affermato che il Giudice aveva ritenuto del tutto erroneamente «che il danno morale è incluso nel calcolo tabellare, onde il suo riconoscimento avrebbe comportato duplicazione risarcitoria».

Di pari passo l'indirizzo della Cass. civ., n. 7513/2018, che, pur premettendo la natura unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale, ha sostenuto, contrariamente a quanto affermato dalle sentenze di San Martino, la separata valutazione e liquidazione del danno dinamico-relazionale e del danno da sofferenza interiore: «In presenza d'un danno alla salute, non costituisce duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione d'una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno biologico, e d'una ulteriore somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)».

Parimenti, la dottrina medico-legale, precedentemente allineata alle indicazioni fornite dalla Suprema Corte nel 2008, è arrivata a sostenere l'autonomia ontologica della sofferenza morale rispetto al danno alla salute, fattispecie definita dagli Autori quale «stato emotivo della persona, temporaneo e/o permanente, produttivo di percezione di disagio/degrado/dolore, rispetto alla condizione anteriore».

A tal proposito gli estensori del documento SIMLA hanno ritenuto che fosse di precipua competenza dello specialista medico legale intervenire nell'accertamento e nella valutazione qualora derivante da una lesione-menomazione all'integrità psico-fisica.

Autonomia ontologica del danno morale?

In un tale, controverso e dibattuto contesto, va ricordato anzitutto come già nel 2003 la Suprema Corte, nella valutazione dei pregiudizi non patrimoniali da lesione di interessi costituzionalmente protetti, segnatamente in relazione al danno morale, affermava la sussistenza di «innegabili difficoltà nella distinzione di pregiudizi che, pur ontologicamente diversi tra loro, concernono ambiti che tendono talora a sovrapporsi».

Orbene, pur nella difficoltà di argomentare efficacemente in un campo che continua ad essere estremamente oscuro e nebuloso, a parere dello scrivente le condizioni che rientrano nella sofferenza, nel disagio, nel dolore e nel degrado e che fanno parte della sfera morale, non possono essere oggetto di accertamento da parte del medico legale: laddove, infatti, si voglia intendere la sofferenza morale quale uno stato di patimento eminentemente intimo e personale, quello che si chiederebbe allo specialista in medicina legale di rendere oggettivabile una condizione che, per definizione, è esclusivamente soggettiva, e come tale non può essere estrapolata facendo ricorso a scale “tecniche” di valutazione che, per come formulate, a seconda dei casi comporterebbero quantomeno un alto rischio di sovra- o sottostima del reale grado di sofferenza.

Con questo non si intende contestare la sussistenza di tale posta di danno, né si è dell'opinione che la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale neghi la distinta natura fra danno morale e danno biologico: la sofferenza interiore non costituisce certo il medesimo pregiudizio che si identifica nel danno alla salute o nel danno esistenziale, ma, come affermato con esaustiva argomentazione dalle Sezioni Unite, la liquidazione del danno-conseguenza deve obbligatoriamente avere riguardo al danno non patrimoniale, nel complesso, subito dalla vittima, al fine di evitare una frammentazione delle voci di danno e non correre il serio rischio di duplicazioni risarcitorie.

Ammettendo dunque l'autonomia ontologica del danno morale nei termini indicati dalla più recente dottrina, seppur ricondotto all'interno dell'alveo del danno non patrimoniale, appare contraddittorio che il medesimo stato di sofferenza intima e personale in un caso (allorché vi sia lesione psico-fisica) possa essere accertata da un medico legale, mentre in un altro (qualora venga a mancare tale insulto alla persona) il giudizio e la valutazione vengano demandati ad altre figure non meglio precisate.
Si ritiene dunque che la sofferenza morale non possa che essere oggetto di analisi esclusivamente da parte del giurista (SPERA D., Time out: il “decalogo” della Cassazione sul danno non patrimoniale e i recenti arresti della Medicina legale minano le sentenze di San Martino, in Ridare.it), laddove il medico legale, allorché tale patimento non assuma franchi caratteri psicopatologici con precisa connotazione diagnostica ovvero incida in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali della persona, potrà al più fornire il proprio contributo in termini meramente descrittivi, senza scendere in valutazioni di merito che non appartengono alla sfera medica.

La vera questione a carattere medico rimane invece quella legata alla sussistenza di un danno biologico di natura psichica e alla sua valutazione, ancora oggi oggetto di molteplici interpretazioni che lo riportano all'interno del danno morale soggettivo od anche tra le pieghe del c.d. danno esistenziale, contribuendo così ad una segmentazione del valore persona che non trova fondamenti scientifici né tantomeno medico-legali.

A differenza della soggettività della sofferenza morale, infatti, il danno psichico è sostanziato da alterazioni francamente patologiche, nonché definibili e classificabili secondo la criteriologia clinica della psichiatria, e deve essere tenuto rigorosamente distinto da condizioni soltanto apparentemente simili, ma completamente carenti dei fondamentali presupposti dell'evidence vidimabile attraverso la predetta criteriologia, come nel caso della sofferenza morale o del danno esistenziale: l'evidence deve continuare ad essere il vero punto di riferimento dello specialista in medicina legale, il quale non può che attenersi alla rigorosità del metodo scientifico, rifuggendo dall'esprimere valutazioni su tematiche del tutto aliene alla propria professione.

In conclusione

A fronte di un apparente ennesimo cambio di rotta della giurisprudenza e della dottrina nella definizione e nella valutazione del danno non patrimoniale, ed in particolare della sofferenza morale, la soluzione proposta rischia di generare nuova confusione senza significativi effetti pratici, disattendendo i principi e il rigore metodologico che le Sezioni Unite avevano efficacemente tratteggiato con le sentenze di San Martino: a dispetto di una illusoria omogeneità di contenuti, infatti, nelle sentenze sopracitate il richiamo all'unitarietà del danno non patrimoniale sembra piuttosto aspirare ad accentuare la duplice natura dei pregiudizi del danno relazionale-esistenziale e del danno da sofferenza interiore-morale, quale base per una separata liquidazione che, a giudizio di chi scrive, appare non condivisibile.

In un tale scenario è auspicabile, al contrario, che si mantenga un unico criterio di reintegro del danno non patrimoniale, evitando il ritorno ad una inutile e dannosa frammentazione delle voci di danno risarcibile, ove la figura del medico legale sia professionista di riferimento al fine di valutare il danno biologico nella sua componente psico-fisica e l'incidenza della menomazione sugli aspetti dinamico-relazionali del danneggiato, demandando al giurista l'apprezzamento di categorie di danno che non appartengono per cultura e formazione alla sfera medica.

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