Incapacità a testimoniare: casistica, profili processuali e il vaglio critico nella giurisprudenza europeaFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 246
18 Dicembre 2018
Premessa
Ai sensi dell'art. 246 c.p.c. non possono testimoniare le persone le quali abbiano un interesse che potrebbe legittimarne la partecipazione in giudizio. La norma introduce una regola di esclusione della testimonianza fondata sulle qualità soggettive del teste, effettuando una valutazione a priori delle ipotesi nelle quali lo stesso non può essere obiettivo (Taruffo, 738). Peraltro – almeno astrattamente, salve alcune “discrasie” emerse in sede applicativa – l'interesse in questione deve essere giuridicamente rilevante e non di mero fatto, sicché caso paradigmatico è quello del soggetto che potrebbe intervenire volontariamente in causa ai sensi dell'art. 105 c.p.c.. La limitazione soggettiva della prova testimoniale sancita dall'art. 246 c.p.c., pur ritenuta non in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. (v. già Corte cost., 23 luglio 1974, n. 248) è stata oggetto di critica da parte di alcuni Autori che ne hanno evidenziato la sproporzione rispetto alla finalità perseguita che potrebbe giustificare, invece, un criterio di valutazione della prova (cfr. Comoglio, 41). Per altro verso, la problematica è stata esaminata anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, rispetto ad un ipotetico contrasto con l'art. 6, § 1, CEDU, quando il divieto in questione si traduce per la parte interessata nella concreta impossibilità di dimostrare un fatto in giudizio, compromettendo, di conseguenza, il diritto alla prova della stessa. In accordo con la consolidata giurisprudenza di legittimità, l'interesse che esclude la capacità a testimoniare del terzo è solo quello giuridicamente rilevante che, ai sensi dell'art. 100 c.p.c., che consentirebbe l'intervento dello stesso in giudizio, sebbene colui che, a norma dell'art. 246 c.p.c., è incapace a testimoniare in un determinato giudizio perché titolare di un interesse che potrebbe legittimarlo a partecipare allo stesso in qualità di parte. Tale soggetto, peraltro, non riacquista la suddetta capacità per l'intervento di un fatto estintivo del diritto che egli potrebbe far valere, in quanto l'incapacità a testimoniare deve essere valutata prescindendo da vicende che costituiscono un posterius rispetto alla configurabilità dell'interesse a partecipare al giudizio che la determina (cfr., tra le altre, Cass. civ., 28 luglio 2011, n. 16499). Non assume invece rilevanza ai sensi dell'art. 246 c.p.c. l'interesse di fatto ad un determinato esito del processo, né un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto della causa in atto, proponibili dal teste medesimo o contro di lui, a meno che il loro collegamento con la materia del contendere non determini già concretamente un titolo di legittimazione alla partecipazione al giudizio (Cass. civ., n. 13684/2018). Consegue a tali principi che la valutazione della sussistenza o meno dell'interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare è rimessa – così come quella inerente l'attendibilità del teste e la rilevanza della deposizione – al giudice del merito, ed è insindacabile in sede di legittimità ove congruamente motivata (Cass. civ., n. 167/2018, con nota di A. Farolfi, Quando il teste che può partecipare al giudizio è incapace?, in www.ilProcessoCivile.it).
Profili processuali
Il divieto sancito dall'art. 246 c.p.c. è posto nell'esclusivo interesse della controparte, che è pertanto tenuta a sollevare la relativa eccezione in sede di assunzione della prova o nella prima difesa successiva, anche ove, in precedenza, abbia già dedotto l'incapacità del teste (Cass.civ., n. 23896/2016, con nota di V. Amendolagine, La sanatoria dell'eccezione di nullità della prova testimoniale per incapacità del teste irritualmente sollevata, in www.ilProcessoCivile.it; conf. Trib. Salerno, sez. II, 25 luglio 2017, n. 3762). In coerenza con tale assunto, ove l'eccezione venga disattesa, la parte è tenuta a reiterarla al momento della precisazione delle conclusioni e, quindi, in sede di gravame della pronuncia che abbia deciso la causa in senso favorevole all'altra parte. Pertanto, qualora mediante ricorso per cassazione venga dedotta la omessa motivazione del giudice d'appello sulla eccezione di nullità della prova testimoniale, per incapacità ex art. 246 c.p.c., il ricorrente ha l'onere, anche in virtù dell'art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., di indicare che tale eccezione è stata sollevata tempestivamente ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c. subito dopo l'assunzione della prova e, se disattesa, riproposta in sede di precisazione delle conclusioni e in appello ex art. 346 c.p.c. dovendo, in mancanza, ritenersi irrituale la relativa eccezione e pertanto sanata la nullità, avendo la stessa carattere relativo (Cass. civ., n. 19144/2017).
La Corte europea dei diritti dell'uomo si è soffermata, in primo luogo, sulle implicazioni del divieto in esame, al lume del canone della parità delle armi tra le parti nell'istruzione probatoria, nella decisione resa nel caso Dombo Beer c. Paesi Passi (in Giur. it., 1996, I, 1, 153, con nota di Tonolli). Nella fattispecie concreta, la ricorrente, una società a responsabilità limitata, aveva denunciato alla Corte di Strasburgo di non aver potuto dimostrare in giudizio la fondatezza delle proprie pretese poiché il giudice nazionale non aveva ascoltato in qualità di teste il proprio direttore generale, mentre tale divieto non era stato esteso anche alla controparte, in quanto era stato sentito come teste il gestore della succursale della banca. La Corte europea ha ritenuto sussistente la denunciata violazione dell'art. 6 CEDU, rilevando che, quando una parte non può dimostrare altrimenti la fondatezza delle proprie affermazioni, il giudice non può dichiarare inammissibile l'unica prova a tal fine idonea, anche laddove ciò comporti l'inosservanza della normativa interna sulle prove, tanto più che nella fattispecie concreta era stata attribuita all'altra parte la possibilità di avvalersi della testimonianza di un soggetto che rivestiva una carica analoga nella società. Secondo una parte autorevole della dottrina tale pronuncia renderebbe palese il contrasto con l'art. 6 CEDU e con i principi del giusto processo dell'art. 246 c.p.c., laddove sancisce il divieto a testimoniare di un terzo il quale abbia un interesse in causa che ne giustificherebbe l'intervento nella stessa, divieto interpretato da una consolidata giurisprudenza quale preclusivo sia della testimonianza sia dell'interrogatorio libero dei terzi interessati anche laddove la stessa sia l'unico strumento probatorio a disposizione della parte per dimostrare il fondamento delle proprie pretese (in arg. cfr. Corte costituzionale la quale, con ord. 10 dicembre 1987 n. 494, in Riv. dir. proc., 1988, 812 ss., con nota critica di Montesano, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 246 c.p.c. nella parte in cui non consente, almeno nel processo ordinario di cognizione, l'interrogatorio libero dei terzi interessati Il tribunale di Napoli, richiamandosi anche ai principi sanciti dalla Corte di Strasburgo nell'arrêt Dombo Beer, aveva proposto questione di legittimità costituzionale dell'art. 246 c.p.c., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 e 117 Cost., nella parte in cui non consente, neppure nel caso in cui non si disponga di alcun altro strumento di prova, di assumere come testimoni soggetti portatori di interessi giuridicamente qualificati o addirittura già presenti nel processo come parti (Trib. Napoli, 26 aprile 2007). Nondimeno la Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata tale questione di legittimità costituzionale dell'art. 246 c.p.c., evidenziando che la previsione che impedisce a colui il quale sia portatore di un interesse che ne legittimerebbe la partecipazione al giudizio di essere teste nel medesimo processo risulta invero del tutto razionale, potendo detto soggetto giovarsi, in base alla disciplina sostanziale, degli effetti della sentenza. La Corte costituzionale ha precisato, inoltre, che l'irragionevolezza di tale disciplina non può farsi derivare dal diverso trattamento previsto per la testimonianza nel processo penale, ancorché resa da chi si sia costituito parte civile, trattandosi di due sistemi, quello civile e penale, autonomi e non comparabili ai fini della violazione del principio di uguaglianza, dovendosi altresì escludere che la violazione del principio della "parità delle armi" tra le parti, anche sotto il profilo della ridotta possibilità di esercitare il diritto a difendersi provando, e delle norme dell'ordinamento comunitario, poiché l'art. 246 c.p.c., applicandosi a tutte le parti del processo, non pone una delle due parti in causa in posizione di svantaggio nei confronti dell'altra (Corte cost., 8 maggio 2009 n. 143, in Giur. Cost., 2009, n. 3, 1553).
In conclusione
La disciplina dettata dall'art. 246 c.p.c. in tema di limiti soggettivi della prova testimoniale, di sola apparente semplicità, costituisce espressione di un'immanente tensione tra il diritto alla prova di una parte e la esigenza, a tutela dell'altra, che il terzo sia effettivamente tale e non, a propria volta, una potenziale parte in causa. La norma è stata peraltro interpretata in maniera rigorosa nella giurisprudenza di legittimità, nell'ambito della quale è stato invero affermato il principio secondo cui l'incapacità a testimoniare deve essere valutata prescindendo da vicende che costituiscono un posterius rispetto alla configurabilità dell'interesse a partecipare al giudizio che la determina (Cass. civ., 28 luglio 2011, n. 16499, cit.). Sia la regola normativa che la sua interpretazione giurisprudenziale potrebbero, tuttavia, essere giustificate rispetto all'obiettivo perseguito, senza per questo ledere irragionevolmente il diritto a difendersi dell'altra parte, qualora anche al di fuori del processo del lavoro fosse consentito al giudice di assumere l'interrogatorio libero del terzo “interessato” per trarne almeno argomenti di prova.
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