Valore della causa e misura dell'indennizzo in tema di violazione del termine ragionevole del processo

Giuseppe Lauropoli
08 Gennaio 2019

La pronuncia in commento ha offerto una buona occasione per un esame di alcuni aspetti della normativa dettata in tema di liquidazione dell'indennizzo da violazione del termine ragionevole del processo, soffermandosi in particolare, anche in termini critici, sulla previsione normativa, introdotta per effetto del d.l. n. 83/2012, di un limite massimo all'indennizzo liquidabile.
Massima

In tema di equa riparazione, in caso di violazione del termine di ragionevole durata del processo di esecuzione, il valore della causa va identificato, in analogia con il disposto dell'art. 17 c.p.c., con quello del credito azionato con l'atto di pignoramento.

Il caso

Viene in rilievo una pronuncia di sicuro interesse in tema di rapporti fra processo esecutivo e quantificazione dell'indennizzo relativo ad equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo.

Il caso all'esame della Corte era il seguente: un creditore era intervenuto nel corso di una procedura esecutiva nel lontano 1991, conseguendo in sede di riparto, nell'ottobre 2014, una somma di € 35,63.

Il ricorso per la liquidazione dell'indennizzo da equa riparazione per irragionevole durata del processo esecutivo, proposto dinanzi alla Corte d'appello di Lecce, veniva respinto.

Contro tale ricorso veniva spiegata opposizione dinanzi alla medesima Corte d'appello ai sensi dell'art. 5-ter della l. n. 89/2001 e tale opposizione veniva rigettata, in considerazione del modestissimo importo liquidato in favore del creditore all'esito della procedura esecutiva, tale da non giustificare, alla luce del contenuto dell'art. 2-bis, comma 3, della l. n. 89/2001, la liquidazione di alcun importo a titolo di indennizzo.

Contro tale provvedimento veniva dunque proposto ricorso dinanzi alla Corte di cassazione, la quale lo accoglieva, ritenendo che il giudice del merito avesse errato nel ritenere che il limite dell'indennizzo imposto dal comma 3 dell'art. 2-bis della citata legge andasse ragguagliato all'effettiva utilità conseguita dal creditore all'esito della procedura esecutiva, dovendo piuttosto farsi riferimento, ai fini della individuazione del valore della causa e, dunque, ai fini della determinazione dell'indennizzo massimo globalmente liquidabile, all'entità del credito azionato con l'atto di pignoramento.

La questione

La l. n. 89/2001 ha introdotto l'equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, dando così concreta applicazione nel nostro ordinamento all'art. 6, par. 1, della Convezione per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali.

La legge, nella sua attuale formulazione (risultante dalle significative modifiche introdotte per effetto del d.l. n. 83/2012, conv. con modif. nella l. n. 134/2012) prevede espressamente che l'indennizzo spetti anche con riguardo alla durata del processo esecutivo, il cui termine di durata ragionevole viene fissato - dall'art. 2, comma 2-bis, della l. n. 89/2001 - in tre anni.

In merito alla misura dell'indennizzo spettante alla parte che assuma di aver subito un danno per effetto della violazione del termine ragionevole del processo, il primo comma del citato art. 2-bis fissa la stessa in un minimo di 500 euro e in un massimo di 1.500 euro per ciascun anno (o frazione di anno superiore a sei mesi) che ecceda il termine ragionevole di durata del processo.

Il terzo comma dell'appena citato art. 2-bis prevede anche un limite massimo che l'indennizzo, globalmente inteso (è stata la Cassazione, nella pronuncia n. 25804/2015, a precisare che un tale limite non vada riferito a ciascun anno, ma all'indennizzo inteso nella sua globalità), non può superare: esso non può mai eccedere il valore della causa (quella protrattasi per un tempo irragionevole) o, se inferiore, quello accertato dal giudice all'esito del giudizio.

É importante sottolineare come le significative modifiche apportate alla l. n. 89/2001 per effetto del d.l. n. 83/2012 trovino applicazione solo con riferimento ai ricorsi per indennizzo depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo all'entrata in vigore della legge di conversione di tale decreto legge, pur dovendo osservarsi come il legislatore, nell'apportare tali modifiche, abbia per lo più recepito alcuni approdi ai quali era già giunta la Suprema Corte in sede di interpretazione della legge n. 89/2001.

Mentre la Suprema Corte si era già soffermata, con alcune importanti pronunce, sulla applicazione di un tale limite alla determinazione del valore complessivo dell'indennizzo spettante (si vedano la già citata Cass. civ., n. 25804/2015, ma anche Cass. civ., n. 25711/2015: pronunce che, a loro volta, facevano tesoro delle conclusioni alle quali era pervenuta la Corte costituzionale – si veda, per tutte, l'ordinanza n. 240/2014) allorché la causa che si assumeva affetta da irragionevole durata avesse ad oggetto un giudizio di cognizione, la pronuncia in commento pare la prima a soffermarsi sulla portata di una tale previsione normativa allorché il processo che si assume affetto da eccessiva durata sia una procedura esecutiva.

Le soluzioni giuridiche

La soluzione adottata dalla Corte nella sentenza in commento è esposta in termini sintetici e chiari (ma non per questo del tutto condivisibili) e conduce la Cassazione ad accogliere il ricorso.

Come esposto in precedenza, la Corte d'appello di Lecce aveva ritenuto insussistente il diritto del creditore intervenuto in una procedura esecutiva ad ottenere la liquidazione dell'indennizzo da durata non ragionevole del processo esecutivo sul presupposto che l'importo ricavato da tale creditore all'esito dell'esecuzione fosse talmente basso da rendere del tutto trascurabile l'entità dell'indennizzo liquidabile a norma del comma 3 dell'art. 2-bis della l. n. 89/2001.

La Corte, nel cassare una tale pronuncia, afferma che il giudice del merito ha fatto erronea applicazione del citato art. 2-bis, dal momento che per “valore della causa”, allorché si verta in materia di procedura esecutiva, non deve intendersi l'importo che il creditore abbia concretamente ricavato dalla procedura, bensì – facendo applicazione del criterio chiaramente individuato dall'art. 17, comma 1, c.p.c. (dettato in tema di determinazione del valore della causa avente ad oggetto una opposizione esecutiva ai fini della determinazione della competenza) – al credito per il quale si proceda, ossia a quello per il quale sia stato eseguito il pignoramento.

Una tale conclusione, osserva la Corte, risulta pienamente razionale, dal momento che la diversa soluzione, quella che privilegia, ai fini della determinazione del valore della procedura, quanto concretamente ricavato da parte del singolo creditore, non tiene conto del fatto che l'importo ricavato dalla procedura in sede di riparto risulta legato a molteplici fattori, «totalmente indipendenti sia dalla natura ed entità del credito azionato, sia dalla situazione soggettiva del creditore»(si veda la pronuncia in commento).

Osservazioni

Indubbiamente la sentenza che si annota affronta un problema di non facile soluzione e cerca di risolverlo facendo riferimento alla lettera del terzo comma dell'art. 2-bis della l. n. 89/2001.

Una soluzione, dunque, che appare formalmente corretta, avuto riguardo al tenore letterale della menzionata disposizione: la stessa, infatti, prevede un limite all'indennizzo liquidabile per equa riparazione con riferimento al «valore della causa» oppure, «se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice».

Ora - tale sembra il ragionamento seguito dai Giudici di legittimità - poiché nel caso dell'esecuzione forzata non si ha l'accertamento di un diritto da parte del giudice (in quanto vengono in rilievo diritti di credito che sono stati già accertati altrove o che risultano da titoli esecutivi stragiudiziali), deve concludersi che il limite di cui al menzionato terzo comma vada necessariamente determinato con riferimento al “valore della causa, il quale ultimo, nel caso della procedura esecutiva, deve essere determinato con riferimento al criterio indicato dall'art. 17, comma 1, c.p.c., dettato in tema di individuazione del giudice competente per valore nei giudizi di opposizione all'esecuzione.

Una tale scelta ermeneutica, spiega poi la Cassazione, appare anche ragionevole, dal momento che sarebbe del tutto ingiusto limitare l'ammontare dell'indennizzo liquidabile sulla base di una circostanza che può risultare del tutto estranea alla attività posta in essere dal creditore procedente o intervenuto nella procedura esecutiva: si pensi così al creditore procedente che si veda liquidare un importo minimo, in sede di riparto, a seguito di intervento nella procedura esecutiva di altro creditore munito di privilegio.

E, tuttavia, tali argomenti, seppure indubbiamente rilevanti, non sembrano decisivi e non consentono di superare qualche perplessità che ad avviso di chi scrive suscita la soluzione adottata dalla Corte.

Un dato di sicuro rilievo nell'interpretare il più volte citato terzo comma dell'art. 2-bis della legge Pinto è costituito da quanto a più riprese affermato dalla Cassazione, stando alla quale la disposizione in questione non ha fatto altro che positivizzare un'esigenza già in precedenza avvertita tanto dalla Corte EDU, quanto dalla stessa Cassazione, di evitare che l'indennizzo da equa riparazione diventi l'occasione per indebite «sovracompensazioni, se non addirittura di occasionali ed insperati arricchimenti» (Cass. civ., n. 25804/2015).

Una tale esigenza è stata dunque tradotta, nel più volte citato terzo comma dell'art. 2-bis, nella previsione di un indennizzo che «non può eccedere quello stesso valore economico che, essendo in bilico, provoca nella parte in causa l'ansia da attesa» (si veda ancora la appena citata pronuncia del 2015).

Sulla base di una tale premessa può allora ritenersi non del tutto condivisibile che il limite massimo dell'indennizzo venga ragguagliato all'entità dell'importo pignorato anche con riferimento al caso di un creditore che sia semplicemente intervenuto nella procedura (ossia che abbia spiegato atto di intervento ai sensi dell'art. 499 c.p.c.), se del caso con un credito del tutto irrisorio, perché davvero in questo modo esiste il pericolo che il giudizio per la determinazione di indennizzo per equa riparazione diventi l'occasione per «occasionali ed insperati arricchimenti».

Sotto altro profilo, poi, non pare del tutto condivisibile che il dato costituito dall'importo che il creditore abbia effettivamente conseguito dalla procedura esecutiva resti del tutto estraneo ed irrilevante ai fini della determinazione dell'indennizzo.

Se è vero, infatti, che in questo caso non può parlarsi di un diritto “accertato” dal giudice, ma piuttosto di una somma liquidata dallo stesso a seguito dell'espropriazione forzata di un bene, è anche vero che il dato oggettivo costituto dal vantaggio economico concretamente conseguito da parte del creditore all'esito della procedura parrebbe, quanto meno nelle intenzioni del legislatore, un elemento del quale tenere conto ai fini della determinazione dell'indennizzo massimo liquidabile ai sensi della Legge Pinto.

Forse la soluzione preferibile - ma certamente si tratta di una riflessione che merita un più ponderato approfondimento rispetto alle prime impressioni raccolte in questa nota – sarebbe quella di svincolare, allorché si verta in tema di processo esecutivo, la nozione di “valore della causa” prevista dal comma 3 dell'art. 2-bis, da un criterio rigido (quale è quello offerto dall'art. 17, comma 1, c.p.c.), accedendo ad un criterio che tenga conto delle specificità della procedura esecutiva in questione e del vantaggio economico concretamente perseguito.

La sentenza in commento ha offerto una buona occasione per un esame di alcuni aspetti della normativa dettata in tema di liquidazione dell'indennizzo da violazione del termine ragionevole del processo, soffermandosi in particolare, anche in termini critici, sulla previsione normativa, introdotta per effetto del d.l. n. 83/2012, di un limite massimo all'indennizzo liquidabile.

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