La vexata quaestio della revoca del consenso al divorzio congiunto
16 Novembre 2018
Massima
La revoca del consenso da parte di uno dei coniugi non comporta l'improcedibilità della domanda congiunta di divorzio in quanto il tribunale deve comunque provvedere all'accertamento dei presupposti per la pronuncia richiesta, per poi procedere, in caso di esito positivo della verifica, all'esame delle condizioni concordate dai coniugi, valutandone la conformità a norme inderogabili e agli interessi dei figli minori. La domanda congiunta di divorzio dà, infatti, luogo ad un procedimento che si conclude con una sentenza costitutiva, nell'ambito del quale l'accordo sotteso alla relativa domanda riveste natura meramente ricognitiva, con riferimento alla sussistenza dei presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale ex art. 3 l. n. 898/1970, mentre ha valore negoziale per quanto concerne la prole e i rapporti economici. Il caso
Tizio e Caia presentavano ricorso congiunto per la cessazione degli effetti civili del loro matrimonio. All'udienza di comparizione personale, Caia revocava a verbale il consenso precedentemente prestato alla cessazione degli effetti civili. Il Tribunale adito per l'effetto dichiarava inammissibile la domanda; pronuncia confermata dalla Corte di appello. Tizio proponeva ricorso in Cassazione avverso tale ultima sentenza. La Suprema Corte ha accolto il ricorso, cassando la sentenza con rinvio alla Corte di appello affinché decidesse in diversa composizione. La questione
La domanda congiunta di cessazione degli effetti civili del matrimonio diviene inammissibile a seguito della revoca del consenso di uno dei coniugi? Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, motivando che la revoca unilaterale del consenso alla domanda congiunta di divorzio non impedisce, a differenza di quanto accade nella separazione consensuale, l'accertamento della sussistenza dei presupposti per la pronuncia di scioglimento del matrimonio e non comporta il venir meno degli accordi patrimoniali intervenuti tra i coniugi, a meno che la domanda non costituisca il frutto di errore, violenza o dolo. Sulla questione, la Cassazione ha richiamato i propri precedenti, ove si è già affermato che l'accordo sotteso alla relativa domanda riveste natura meramente ricognitiva con riferimento ai presupposti necessari per lo scioglimento del vincolo coniugale, la cui sussistenza è soggetta a verifica da parte del tribunale, avente pieni poteri decisionali al riguardo, mentre ha valore negoziale per quanto concerne la prole ed i rapporti economici, nel cui merito il tribunale non deve entrare, a meno che le condizioni pattuite non si pongano in contrasto con l'interesse dei figli minori; che la revoca del consenso da parte di uno dei coniugi, mentre risulta irrilevante sotto il primo profilo, in quanto il ritiro della dichiarazione ricognitiva non preclude al tribunale il riscontro dei presupposti necessari per la pronuncia del divorzio, è inammissibile sotto il secondo, dal momento che la natura negoziale e processuale dell'accordo intervenuto tra le parti in ordine alle condizioni del divorzio ed alla scelta dell'iter processuale esclude la possibilità di ripensamenti unilaterali, configurandosi la fattispecie non già come somma di distinte domande di divorzio o come adesione di una delle parti alla domanda dell'altra, ma come iniziativa comune e paritetica, rinunciabile soltanto da parte di entrambi i coniugi (cfr. Cass., sez. VI, 13 febbraio 2018, n. 10463; Cass., sez. I, 8 luglio 1998, n. 6664). Per tale motivo, la Cassazione ha censurato la pronuncia della Corte di appello, confermativa di quella di primo grado, secondo cui, analogamente a quanto accade nel procedimento di separazione consensuale, la revoca del consenso da parte di uno dei coniugi comporta il venir meno del requisito indispensabile per l'accoglimento della domanda, rappresentato dall'intesa tra le parti, configurandosi la stessa come un atto unitario ed essenzialmente negoziale, espressione della capacità dei coniugi di autodeterminarsi responsabilmente, rispetto al quale la pronunzia del tribunale è rivolta unicamente ad attribuire efficacia dall'esterno all'accordo stipulato dai coniugi; che la prospettata analogia tra la separazione consensuale e il divorzio a domanda congiunta si pone d'altronde in contrasto con le profonde differenze riscontrabili tra le relative discipline, una delle quali (come riconosciuto dalla stessa sentenza impugnata) individua il presupposto sostanziale della fattispecie nell'accordo tra i coniugi, al quale il tribunale è chiamato ad attribuire efficacia dall'esterno, mediante un'attività di controllo che non può mai tradursi in un'integrazione o una sostituzione del consenso delle parti, mentre l'altra, pur muovendo da un ricorso congiunto, richiede una pronuncia costitutiva, fondata sull'accertamento dei presupposti richiesti dall'art. 3 legge n. 898/1970, con la conseguenza che mentre il primo procedimento è annoverabile tra quelli di giurisdizione volontaria, il secondo costituisce espressione di giurisdizione contenziosa. La Cassazione, ad ulteriore conforto della tesi sostenuta, richiama le differenze disciplinari dettate per l'ipotesi in cui le condizioni relative all'affidamento e al mantenimento dei figli appaiano in contrasto con il loro interesse, dal momento che per la separazione l'art. 158, comma 2, c.c. consente al tribunale di suggerire le necessarie modificazioni e, in caso d'inidonea soluzione, di rifiutare allo stato l'omologazione, mentre l'art. 4, comma 16, legge n. 898/1970 prevede l'adozione dei provvedimenti temporanei e urgenti e la prosecuzione del giudizio nelle forme contenziose. La Corte conclude quindi che la revoca del consenso da parte dell'intimata non può comportare l'arresto del procedimento, dovendo il tribunale provvedere ugualmente all'accertamento dei presupposti per la pronuncia del divorzio, per poi passare, in caso di esito positivo della verifica, all'esame delle condizioni concordate dai coniugi, valutandone la conformità a norme inderogabili e agli interessi dei figli.
Osservazioni
Il caso giudicato dalla Corte di cassazione nell'ordinanza in commento riguarda una ipotesi che frequentemente si verifica nelle aule dei Tribunali: ossia il ripensamento di uno dei coniugi all'accordo per la definizione in forma consensuale di un procedimento di separazione o di divorzio. Diverse possono essere le motivazioni sottese al repentino ripensamento di un coniuge: - uno dei coniugi può d'impatto aderire alla proposta di accordo dell'altro accondiscendendo alle sue condizioni pur di troncare totalmente il rapporto personale con lui, salvo poi cambiare idea il giorno dell'udienza dopo una più meditata riflessione sulla non rispondenza delle condizioni regolamentate alle proprie aspirazioni; - la sostituzione del difensore in prossimità dell'udienza, laddove l'avvocato subentrante rappresenti al suo assistito la non convenienza dell'accordo raggiunto in precedenza con l'altra parte tramite la mediazione del precedente difensore; - il mutamento di talune condizioni nel lasso di tempo che intercorre tra la data di stipula della scrittura privata e quella in cui è fissata l'udienza di comparizione coniugi, ecc. A prescindere dai motivi, la revoca del consenso prestato nell'accordo incide in maniera diversificata nei procedimenti di separazione e divorzio. Nel primo caso, la revoca del consenso prestato nell'accordo di separazione consensuale rende inammissibile la domanda, mentre il procedimento di divorzio congiunto prosegue e deve essere definito in ogni caso con una pronuncia costitutiva del Tribunale adito. Questo indirizzo interpretativo è oramai consolidato in giurisprudenza di legittimità e confermato nell'ordinanza in commento. La diversa incidenza della revoca del consenso nell'uno o nell'altro tipo di giudizio discende dalla diversità di disciplina e di effetti che governa entrambi: la separazione non incide in modo irreversibile sullo status coniugale, che difatti rimane integro fino alla pronuncia di divorzio, ma determina solo una sospensione temporanea degli obblighi connessi allo status coniugale. Diversamente la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario o di scioglimento del matrimonio civile hanno efficacia estintiva dello status coniugale. Da tale motivo discende la diversità di disciplina codicistica contenuta nell'art. 158 c.c. da un lato e nella legge di divorzio dall'altro. L'art. 158 c.c. sancisce che «la separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l'omologazione del giudice»; pertanto l'omologazione è un provvedimento giurisdizionale che conferisce efficacia esterna all'accordo inter partes liberamente raggiunto dai coniugi. Analoga previsione non è contenuta nella legge divorzile, che si conclude sempre con una sentenza, ancorché la domanda sia proposta in forma congiunta, proprio perché la decisione ha efficacia costitutiva. Ed infatti, l'accordo tra i coniugi non esautora il Tribunale dal controllo sui presupposti formali per la pronuncia della cessazione degli effetti civili del matrimonio o dello scioglimento del matrimonio civile, ma attiene solo alla c.d parte eventuale del divorzio, attinente agli aspetti economici all'affidamento ed alla regolamentazione del diritto di visita dei figli. In caso di revoca del consenso da parte di un coniuge, quindi, il Tribunale deve in ogni caso pronunciarsi sulla domanda principale di cessazione degli effetti civili del matrimonio o di scioglimento del matrimonio civile, rispetto alla quale la presentazione del ricorso unilaterale o congiunta riveste solo natura ricognitiva; la revoca del consenso quindi incide solo sulla parte eventuale, il cui contenuto verrebbe ad essere stabilito dal Tribunale, in funzione suppletiva del revocato accordo, nell'interesse dei coniugi e della prole. |