Fatto notorio

14 Gennaio 2019

Il nostro processo civile è retto dal cosiddetto «principio dispositivo», in base al quale il giudice può decidere solo sulla base delle prove e delle allegazioni fornite dalle parti. L'eccezione è costituita dal cosiddetto «fatto notorio», alla cui stregua il giudice di merito può tenere conto anche di elementi non presentati dalle parti, a condizione che trattasi di fatti a tutti noti, che non richiedano neanche di essere provati.
Inquadramento

L'art. 115 c.p.c. costituisce un'applicazione del principio dispositivo in virtù del quale spetta alle parti il compito di indicare gli elementi di prova utili ai fini della decisione ed il giudice non può attingere al di fuori del processo la conoscenza dei fatti da accertare, prescindendo dalle prove ritualmente acquisite nel corso dello stesso.

Il limite che incontrano le parti coincide con il potere direttivo riconosciuto al giudice, il quale può escludere le prove superflue, indicare alle parti le lacune probatorie da colmare, e può intervenire nell'indagine istruttoria disponendo d'ufficio i mezzi istruttori che la legge mette a sua disposizione. Quanto detto non si applica nei procedimenti c.d. speciali, nei quali c'è una forte attenuazione del principio dispositivo e delle garanzie processuali delle parti per una maggiore celerità di giudizio.

È in questo contesto che si inseriscono i fatti notori e le massime di esperienza.

Il concetto di “fatto notorio”, proprio per la sua portata derogatoria al principio dispositivo, è sempre stato inteso in modo rigoroso e stretto dalla giurisprudenza: non costituiscono fatti notori gli elementi valutativi che implichino cognizioni particolari o che richiedano preventivi accertamenti particolari (per esempio, la stima del valore di mercato di un immobile); restano estranee al concetto di fatto notorio anche le nozioni oggetto della scienza privata del giudice, in quanto le particolari conoscenze del giudice (anche quando gli derivano dalla pregressa trattazione di controversie similari) non hanno quel carattere “universale” che contraddistingue la categoria del “notorio”.

In evidenza

Che significa principio dispositivo?

Il nostro processo civile è retto dal cosiddetto «principio dispositivo», in base al quale il giudice può decidere solo sulla base delle prove e delle allegazioni fornite dalle parti (iudex iuxta alligata et probata iudicare debet). Anche nel processo penale (dove vale il c.d. principio accusatorio) sono solo le parti ad introdurre nel processo i fatti e le relative prove e il giudice non può andare oltre le prove presentate nel corso del processo. Ciò significa che il giudice può decidere solo sulla base delle prove e delle allegazioni presentate dalle parti. Pur riconoscendo, pertanto, che vi sono ulteriori prove che potrebbero essere prodotte per condurre ad una soluzione diversa della lite, il magistrato non può che riferirsi solo ai documenti e ai testimoni, rispettivamente, depositati dalle parti ed escussi nel corso del giudizio. Se le prove sono insufficienti, il giudice non può chiederne di altre o, a maggior ragione, di sua iniziativa, procurarsele lui stesso.

L'eccezione è costituita dal cosiddetto «fatto notorio», alla cui stregua il giudice di merito può tenere conto anche di elementi non presentati dalle parti, a condizione che trattasi di fatti a tutti noti, che non richiedano neanche di essere provati.

Il c.d. “fatto notorio” è previsto dall'art. 115 c.p.c., ai sensi del quale il giudice può «senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza».

Orientamenti a confronto

CLASSIFICAZIONE FATTO NOTORIO: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Integrano fatto notorio i canoni locativi applicati in una determinata zona ed il valore di mercato delle auto usate

Cass. civ., sez. III, 23 settembre 2013, n. 21716

La variazione del valore di un immobile in un ben determinato periodo di tempo, richiedendo accertamenti circostanziati, anche attraverso pubblicazioni di dati attuariali, non può ascriversi al fatto notorio

Cass. civ., sez. I, 29 gennaio 2014, n. 1904

Il “fatto notorio” richiede che fatto o la circostanza riferiti abbiano un grado di certezza da apparire incontestabili

Cass. civ., sez. III, 6 aprile 2001, n. 5146; Cass. civ., sez. III, 13 gennaio 2009, n. 482; Cass. civ., sez. III, 6 marzo 2008, n. 6041

É ammesso il ricorso al fatto notorio anche nel processo tributario, dovendosi ritenere l'esercizio del relativo potere discrezionale da parte del giudice di merito sindacabile, in sede di legittimità, solo se la decisione della controversia si basi su un'inesatta nozione del notorio – da intendersi come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo – e non anche per inesistenza o insufficienza della motivazione, non essendo egli tenuto ad indicare gli elementi su cui si fonda la sua determinazione

Cass. civ., 10 settembre 2005, n. 2017

Il fatto notorio deve rientrare nelle circostanze conosciute e comunemente note nel luogo in cui abitano il giudice e le parti in causa

Cass. civ., sez. II, 21 dicembre 2001, n. 16165

I fatti notori e le massime di esperienza

Il fatto notorio deve essere acquisito alla conoscenza della collettività (o, almeno, di una particolarmente qualificata cerchia sociale), sia pure in un dato momento storico, con tale grado di certezza da apparire incontestabile (Cass. civ., sez. lav., 7 marzo 2005, n. 4862), soprattutto perchè in relazione allo stesso non è ammessa prova contraria.

Un fatto può essere qualificato come notorio, qualora, seppure non faccia parte delle cognizioni dell'intera collettività, rientri — come i particolari geografici o topografici di una città — nelle circostanze conosciute e comunemente note nel luogo in cui abitano il giudice e le parti in causa (cfr., in tal senso, Cass. civ., sez. II, 21 dicembre 2001, n. 16165, secondo cui, inoltre, l'addotta inveridicità di tale fatto non è denunciabile con ricorso per cassazione ma, ricorrendone gli estremi, solo in sede di revocazione).

Sono «notori» i fatti conosciuti dalla generalità delle persone di media cultura e quelli che rientrano nella comune esperienza. Essi possono essere affermati, dalle parti o dal giudice, senza bisogno di prova.

Sono tali, ad esempio, i fenomeni dell'inflazione e della svalutazione monetaria, il terremoto che colpisce una determinata zona, il dissesto di una banca locale, che una lieve inabilità permanente non può avere ripercussioni psichiche nei confronti dei genitori della persona lesa, ecc.

Non si considerano, invece, fatti notori le nozioni tecniche e le valutazioni che richiedono il preventivo accertamento di particolari dati, come, ad esempio, la determinazione del valore di mercato degli immobili (Cass. civ., n. 1956/2007). Anche le ricerche fatte su internet dal giudice, di sua spontanea volontà, non possono considerarsi fatti notori (v. infra).

L'ambito di applicazione del fatto notorio: le differenze con figure affini

Per quanto spesso i due concetti vengano accomunati, mentre i fatti notori (vale a dire, ai sensi dell'art. 115, comma 2, c.p.c., le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza) sono fatti storici e, quindi, accadimenti reali, le massime di esperienza sono regole (logiche e di valutazione) di giudizio (anche non giuridiche), proprie di una certa società in un determinato momento storico, che il giudice utilizza (si pensi al calcolo della strada percorsa da una certa autovettura in determinate circostanze spazio-temporali).

In particolare, le massime di esperienza costituiscono un semplice criterio di valutazione del fatto accertato e non già, come invece il fatto notorio, il mezzo di accertamento del fatto stesso.

Il riferimento a tali regole è implicito nei numerosi casi in cui si afferma che nella valutazione discrezionale delle prove il giudice usa criteri tratti dall'id quod plerumque accidit.

Sebbene, come detto, sia errato far coincidere i due concetti, le massime o nozioni di comune esperienza costituiscono regole di giudizio di carattere generale, derivanti dall'osservazione reiterata di fenomeni naturali e socioeconomici di cui il giudice è tenuto ad avvalersi, in base all'art. 115 c.p.c., come regola di giudizio destinata a governare sia la valutazione delle prove che l'argomentazione di tipo presuntivo. Equità ed esperienza, tuttavia, costituiscono tecniche di apprezzamento dei fatti che, per quanto omogenee, non sono tra loro sovrapponibili; ne consegue che la quantificazione di una somma (si pensi a quella concernente le prestazioni extra-contratto di un appalto) può logicamente ascriversi a regole di esperienza solo quando abbia ad oggetto una prestazione di carattere usuale suscettibile di oscillazioni minime da caso a caso, oppure quando tale determinazione costituisca la risultante concreta di fatti notori e di nozioni di pratica comune (Cass. civ., sez. II, 4 ottobre 2011, n. 20313).

Ciò nonostante, non di rado si assiste ad una sovrapposizione terminologica tra fatto notorio e massime di esperienza, nozioni utilizzate quali termini del tutto fungibili. La confusione pare originata dallo stesso tenore dell'art. 115, comma 2, c.p.c., che fa testuale riferimento non al fatto notorio, bensì alle «nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza». Tali due concetti, invero, non paiono perfettamente sovrapponibili, essendo il secondo di essi (le «nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza») idoneo a ricomprendere, oltre ai fatti notori stricto sensu intesi, anche le leggi logiche, scientifiche e naturali universalmente riconosciute, capaci in quanto tali di guidare il processo inferenziale su cui si fonda il ragionamento del giudice, ossia, appunto, le massime di esperienza. Dovrebbe allora risultare più chiara la differenza intercorrente tra le due categorie: le massime di esperienza attengono alla formazione del ragionamento giudiziale - ad esempio, quali regole idonee a fondare il libero convincimento del giudice nella valutazione delle prove a norma dell'art. 116 c.p.c. –, e, come tali, appartengono antropologicamente alle capacità cognitive e intellettuali del giudicante; mentre i fatti notori – cui sono da ricondurre quelli rilevanti nel caso di specie -, ineriscono, all'opposto, all'estensione dei facta probanda.

Non integrano un fatto notorio le opinioni sociologiche meramente soggettive e regole di parziale valutazione della realtà costituiscono fatti a valenza solo suggestiva, sicché non posseggono un grado di univocità e sicura percezione da parte della collettività da risultare indubitabili e incontestabili. In applicazione di tale principio, Cass. civ., sez. V, 29 ottobre 2014, n. 22950, ha cassato la decisione che aveva fondato la ricostruzione dei ricavi e del maggior reddito di un professionista sulla circostanza che "i clienti meridionali non sempre corrispondono onorari conformi alle tabelle professionali".

D'altra parte, il «notorio» al quale allude il secondo comma dell'art. 115 c.p.c., è costituito dalle cognizioni comuni e generali in possesso della collettività nel tempo e nel luogo della decisione, senza necessità di ricorso a particolari informazioni o giudizi tecnici. In applicazione di tale principio, Cass. civ., sez. III, 21 maggio 2004, n. 9705, ha cassato la sentenza di merito che aveva giustificato la mancata utilizzazione di un generatore di corrente per sopperire ad un guasto delle linee elettriche, con la «oggettiva difficoltà» di uso di tale apparecchio e con la necessità di controllarne il funzionamento e rifornirlo di combustibile, assumendo che tali circostanze, non provate in causa, costituissero nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza.

E' opportuno precisare che le nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza, che, ai sensi del secondo comma dell'art. 115 c.p.c., il giudice può porre a base della decisione, non costituiscono presunzioni iuris et de iure, dovendo pertanto il giudice accogliere le richieste istruttorie finalizzate a contrastare l'applicabilità, nella specie, delle ravvisate presunzioni. É questa la ragione per cui Cass. civ., sez. II, 19 gennaio 2006, n. 981, in una fattispecie relativa a opposizione a sanzione amministrativa per abbandono di animale domestico, ha cassato la sentenza del giudice di pace che aveva negato la prova circa lo smarrimento dell'animale e le ricerche effettuate dal proprietario, presumendo che il ritrovamento nei pressi di un'area di servizio dell'autostrada dimostrasse che l'animale era stato ivi intenzionalmente abbandonato, in conformità a un diffuso malcostume.

Da non confondere con il fatto notorio è, infine, l'atto notorio, il quale non dà luogo ad una presunzione legale, sia pure juris tantum, circa la spettanza delle indicate qualità di erede o di legatario, ma integra un mero indizio, che deve essere comprovato da altri elementi di giudizio. In applicazione dell'enunciato principio, Cass. civ., sez. VI, 29 dicembre 2011, n. 29830, ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto mancante la prova della legittimazione all'impugnazione in capo agli appellanti, i quali, assumendo di avere la qualità di eredi della parte originaria, si erano limitati a produrre un atto notorio attestante l'avvenuto decesso di quest'ultima e la loro asserita qualità).

L'orientamento prevalente restrittivo

Per una parte della giurisprudenza di merito, il ricorso ai «fatti notori» ovvero alle nozioni di «comune esperienza» deve essere accompagnato da «cautela», in quanto «ogni individuo ha una propria personalità, unica e diversa da ogni altro soggetto e, quindi, diverse da individuo a individuo saranno le conseguenze psichiche collegate a fatti illeciti di valenza simile, sotto il profilo della loro concreta incidenza sulla personalità del soggetto leso» (App. Milano, 29 gennaio 2003).

Per i Giudici di legittimità il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti delle stesse non vaglianti né controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile (e non quale evento o situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice; cfr., ex multis, Cass. civ., n. 2808/2013; Cass. civ., n. 16959/2012; Cass. civ., n. 23978/2007 e Cass. civ., n. 24959/2005, ma soprattutto Cass. civ., n. 6299/2014); non si possono di conseguenza reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione di analoghe controversie (Cass. civ., sez. II, 8 agosto 2002, n. 11946). In particolare, non possono farsi rientrare tra le nozioni di comune esperienza le acquisizioni scientifiche di natura tecnica e quegli elementi valutativi che richiedono il preventivo accertamento di particolari dati.

E' dunque viziata, ad esempio, la pronuncia di merito che fissa l'incidenza dei costi di produzione sui maggiori ricavi accertati sulla base dell'esperienza personale del collegio giudicante in relazione a problematiche “simili”.

In definitiva, è decisamente prevalente, nella giurisprudenza di legittimità, l'orientamento restrittivo in merito al concetto di “fatto notorio”.

Ulteriore corollario di questo approccio è che per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo, che si tratti di un fatto che si imponga all'osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perché appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perché le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista della sua incidenza sull'interesse pubblico che spinge ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo. Alla stregua di tali principi non rientra nella categoria del fatto notorio il valore di un determinato immobile, quando ne sia richiesta una precisa determinazione ai fini dell'individuazione della base imponibile di un tributo (Cass. civ., sez. I, 9 luglio 1999, n. 7181).

L'onere probatorio

Sul piano probatorio, Cass. civ., sez. VI-III, 28 agosto 2017, n. 20482, ha affermato un importante principio, confermando che il fatto “notorio” deve essere inteso come fatto che, rientrando nella comune esperienza, deve intendersi conosciuto senza necessità di essere specificamente provato e che, pertanto, deve essere specificamente accertato, anche a mezzo di CTU, onde essere individuato nella sua effettiva oggettività e poter costituire la base di un accertamento presuntivo non inficiato dall'incertezza dei fatti noti.

In particolare, accogliendo l'appello incidentale proposto da un'assicurazione, il tribunale aveva rigettato la pretesa risarcitoria avanzata da un soggetto, in relazione a lesioni che lo stesso assumeva di essersi procurato andando ad urtare, col volto, contro la portiera di un'autovettura aperta improvvisamente dal conducente di un'auto mentre egli camminava sul marciapiede in prossimità del quale era stata parcheggiata la vettura. Il giudice di merito aveva ritenuto che la versione dei fatti prospettata dall'attore, risultante dalla denuncia di sinistro del convenuto, e confermata da un teste, non rispondesse al vero, in quanto contrastante con elementi di fatto notori che facevano escludere che l'attore avesse urtato lo sportello all'altezza della bocca. La Suprema Corte, con la sentenza menzionata, ha censurato la pronuncia del tribunale, atteso che, a suo avviso, i giudici di merito avevano posto a fondamento della loro decisione una erronea interpretazione della nozione di “fatti notori”. Ciò, in quanto: «il Tribunale ha individuato come fatti notori l'altezza dell'auto (indicata in non più di 1,55 mt), quella del marciapiede (indicata in almeno 10 cm) e quella della suola delle scarpe calzate dall'attore (“almeno 2 cm”) e ha concluso che, tenuta presente l'altezza dell'attore (indicata in 1,70 mt) e stimata in 12 cm fra la distanza fra la sommità del capo e la bocca dell'attore, non risultava verosimile che lo sportello lo avesse colpito alla bocca. È evidente, infatti, che l'altezza della vettura, quella del marciapiede e la distanza fra la bocca e la sommità del capo della vittima costituiscono elementi che non rientrano nella comune esperienza e che, pertanto, sarebbero dovuti essere specificamente accertati, eventualmente a mezzo di CTU, onde essere individuati nella loro effettiva oggettività e poter costituire la base di un accertamento presuntivo non inficiato dall'incertezza dei fatti noti».

Pertanto, secondo il ragionamento della Suprema Corte, la sentenza era viziata nella parte in cui aveva attribuito valenza di notorio a fatti che non rivestivano tale natura e che richiedevano, pertanto, di essere provati per poter essere posti a fondamento della decisione.

La discrezionalità del potere del giudice di merito

Il ricorso al fatto notorio (al pari del ricorso alle nozioni di comune esperienza), ai sensi dell'art. 115, comma 2, c.p.c., attiene all'esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito; pertanto, l'esercizio, sia positivo che negativo, di tale potere non è sindacabile in sede di legittimità, ed egli non è tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda, essendo, invece, censurabile l'assunzione, a base della decisione, di un'inesatta nozione del notorio, che va inteso quale fatto generalmente conosciuto, almeno in una determinata zona (cd. notorietà locale) o in un particolare settore di attività o di affari da una collettività di persone di media cultura. E così, ad esempio, Cass. civ., sez. III, 18 luglio 2011, n. 15715, ha ritenuto che correttamente il giudice di merito non avesse fatto ricorso alla nozione di notorio per configurare un danno alla salute causato dalla esposizione a rumore derivante da immissioni sonore provocate dall'attività notturna di locali pubblici.

In applicazione dello stesso principio, Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2003, n. 12112, in un giudizio avente ad oggetto il risarcimento dei danni derivanti dalla risoluzione per inadempimento del contratto di affitto di un'azienda alberghiera, ha confermato la sentenza impugnata, secondo la quale doveva ritenersi notorio che in Versilia la stagione turistica dura sei mesi.

Dal canto suo, Cass. civ., sez. III, 17 gennaio 2003, n. 609, ha reputato esente da vizi la sentenza del giudice di merito che non aveva ritenuto, ai fini della qualificazione del contratto, di far uso della nozione di comune esperienza secondo la quale, laddove nelle transizioni usualmente l'importo da corrispondere viene arrotondato, nelle semplici quietanze di pagamento esso viene riportato senza alcun arrotondamento.

Tuttavia, sul punto, la Suprema Corte ha chiarito che il mancato ricorso, da parte del giudice del merito, alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza, di cui all'art. 115 c.p.c., deve essere specificamente spiegato ed è suscettibile di essere apprezzato dal giudice di legittimità sotto il profilo del vizio di insufficiente motivazione. In quest'ottica, Cass. civ., sez. III, 10 aprile 2012, n. 5644, ha cassato la sentenza di merito che, omettendo di applicare la nozione di comune esperienza secondo cui un impianto di allarme specifico è in qualche misura utile per evitare il furto o per attenuarne le conseguenze, aveva escluso il nesso causale tra il malfunzionamento del dispositivo ed il furto, sul rilievo che il reato si era consumato nell'arco di pochi minuti, senza dar conto delle ragioni per le quali il suono della sirena non avrebbe potuto spiegare un effetto totalmente o parzialmente deterrente, idoneo ad impedire o ad attenuare i danni subiti dal creditore del soggetto che aveva fornito l'impianto e ne provvedeva alla manutenzione (in questi termini cfr. altresì Cass. civ., sez. III, 28 ottobre 2010, n. 22022).

Rientrano nel fatto notorio le ricerche del giudice di merito su internet?

Anche se internet è alla portata di tutti e i contenuti ivi presenti sono pubblici e facilmente raggiungibili da chiunque, in qualsiasi momento, le nozioni apprese sul web non possono considerarsi fatti notori. Pertanto, il giudice non può, durante la causa, fare ricerche su internet per integrare le prove presentate dagli avvocati.

Pertanto, se, nel corso di una causa, gli avvocati delle parti non offrono al giudice sufficienti elementi di prova per decidere, quest'ultimo non può ricercare, di sua iniziativa, ulteriori fonti di prova attraverso indagini condotte in autonomia, come ad esempio andando a ricercare su internet informazioni e altri dati sui fatti relativi alla controversia (Cass. pen., 2 febbraio 2017, n. 4951). Nel caso esaminato, l'imputata si era lamentata del fatto che il giudice di primo grado – effettuando una navigazione su Internet in camera di consiglio e qualificando come “fatto notorio” le informazioni così acquisite sul web – aveva svolto un'attività inquisitoria illegittima, al di fuori del contraddittorio tra le parti.

Da ciò deriva che è illegittimo che un giudice faccia una navigazione in Internet, fuori dal contraddittorio delle parti, che lo porti ad accertare elementi e dati non forniti nel corso del giudizio dagli avvocati. Secondo i Supremi giudici, le informazioni così acquisite non possono rientrare nel fatto notorio. È fatto notorio solo quello che non richiede la verifica della prova. Quindi, in sostanza, il fatto che siano state necessarie ricerche per acquisire quelle informazioni rende di per sé evidente che non si tratta di un fatto notorio.

Secondo la Suprema Corte, nemmeno le informazioni tratte dal web rappresentano fatti notori: «la circostanza che attraverso il ricorso ai moderni strumenti informatici un'informazione sia agevolmente accessibile ad una vasta platea di soggetti non rende di per sé “notoria” l'informazione”; nel caso in esame, il fatto stesso che fossero state comunque necessarie delle ricerche su Internet per acquisire le informazioni contestate rende ispo facto evidente che non si trattava certo di un fatto notorio».

Appare in tal senso interessante anche un'ordinanza del Tribunale di Mantova del 16.05.2006, che ha dichiarato la parziale nullità di una consulenza tecnica, in quanto il CTU aveva irritualmente acquisito e utilizzato una serie di informazioni tratte dai siti web (l'utilizzo da parte del consulente d'ufficio di documentazione non ritualmente introdotta nel processo determina la nullità della relazione): osserva il Tribunale che «le notizie acquisite attraverso internet non possono definirsi nozioni di comune esperienza, a mente dell'art. 115 ult.comma c.p.c., dovendo la norma essere intesa in senso rigoroso, comportando la stessa una deroga al principio dispositivo, per cui “notorio” deve intendersi solo il fatto che una persona di media cultura conosce in un dato tempo e in un dato luogo, mentre le informazioni pervenute da Internet, quand'anche di facile diffusione ed accesso per la generalità dei cittadini, non costituiscono dati incontestabili nelle conoscenze della collettività».

Se Internet non può essere utilizzato da un giudice per supplire autonomamente alle carenze probatorie delle parti, ciò non significa che il web non possa costituire un'utile fonte di prove.

Con sentenza n. 9732/2015, per esempio, la Corte di cassazione ha ritenuto legittimo il ricorso ad Internet come fonte di indizi utili ad avvalorare un accertamento induttivo, in una fattispecie in cui l'amministrazione finanziaria aveva ricostruito i maggiori redditi di una società immobiliare basandosi – tra l'altro – anche sull'alto numero di inserzioni promozionali pubblicate su Internet dalla società per gli immobili da vendere. Inoltre, anche i social network possono rappresentare delle preziose fonti di notizie e informazioni utilizzabili processualmente: è sufficiente che siano le parti ad allegare tempestivamente e ritualmente nel giudizio le informazioni reperite sul web.

Il sindacato sul ricorso al fatto notorio

Non è revocabile in dubbio che, qualora il giudice del merito abbia posto alla base della decisione un fatto qualificandolo come notorio, tale fatto e la sua qualificazione sono anch'essi denunciabili in sede di legittimità sotto il profilo della violazione dell'art. 115, comma 2, c.p.c. e la Corte di cassazione eserciterà il proprio controllo ripercorrendo il medesimo processo cognitivo dello stato di conoscenza collettiva operato dal giudice del merito. Nell'affermare tale principio, da un lato, Cass. civ., sez. III, 29 novembre 2011, n. 25218, ha ritenuto notorio il fatto che la presenza di un secondo passeggero a bordo di un ciclomotore determini un carico eccessivo idoneo a ridurre sia la stabilità del mezzo che la sua capacità di frenata e, dall'altro, Cass. civ., sez. Lav., 9 settembre 2008, n. 22880, ha confermato la sentenza impugnata secondo cui rientrava nella comune esperienza, senza bisogno di prove, il fatto che per l'attività di chirurgo fosse essenziale un' adeguata manualità, e che la relativa professionalità decadesse in mancanza di esercizio.

In termini più generali, l'affermazione del giudice di merito circa la sussistenza di un fatto notorio può essere censurata in sede di legittimità solo se sia stata posta a base della decisione una inesatta nozione del notorio, da intendere come fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo, non anche per inesistenza o insufficienza di motivazione, poiché tale affermazione è frutto di un potere discrezionale dello stesso giudice che, pertanto, non è tenuto ad indicare gli elementi sui quali la determinazione si fonda. Peraltro, al giudice è data la possibilità di far capo anche alla comune cultura di una specifica e, se del caso, particolarmente qualificata cerchia sociale — definita come insieme di persone aventi tra loro una comunanza di interessi — così da far assurgere all'alveo del notorio anche nozioni sicuramente esorbitanti da quella cultura media che rappresenta il naturale parametro della nozione in oggetto. In adesione a tale impostazione, Cass. civ., sez. II, 19 aprile 2001, n. 5809, ha confermato quanto ritenuto dalla corte d'appello secondo cui l'imprenditore (gioielliere) generalmente opta per la formula di assicurazione a primo rischio assoluto, pur pagando un premio più elevato rispetto a quello dei contratti ex art. 1907 c.c., nell'intento di evitare contestazioni con l'impresa assicuratrice in caso di furto parziale della merce esistente.

Più di recente Cass. civ., sez. II, 22 agosto 2018, n. 20896, ha statuito che in sede di legittimità è censurabile per violazione di legge l'assunzione da parte del giudice di merito di una inesatta nozione di fatto notorio – da intendere come fatto conosciuto da uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo – e non anche il concreto esercizio del suo potere discrezionale di ricorrere alla massima di esperienza, che può essere censurato solo per vizio di motivazione.

In particolare, dinanzi alla Suprema Corte è possibile censurare, per violazione di legge, l'utilizzo del fatto notorio solo sub specie di doglianza alla nozione di notorietà assunta dal giudice di merito, rimanendo preclusa, viceversa, la possibilità di censurare il concreto esercizio, da parte dello stesso, del suo potere discrezionale di ricorrere al fatto notorio, potendo tale doglianza integrare soltanto un vizio di motivazione. La eventuale scelta compiuta dal giudice di merito di non considerare determinati fatti quali notori, e porli a base dell'accertamento del danno subito dagli attori, deve essere correttamente veicolato nelle forme del vizio motivazionale, ovviamente laddove i giudici territoriali non abbiano provveduto ad argomentare esaurientemente tali scelte.

Casistica

CASISTICA

Le tabelle utilizzate in un determinato ufficio giudiziario per la liquidazione del danno non patrimoniale

Le tabelle utilizzate in un determinato ufficio giudiziario per la liquidazione del danno non patrimoniale non rientrano (fatta eccezione per quelle elaborate dal Tribunale di Milano) tra le nozioni di fatto di comune esperienza (tanto è vero che il giudice, qualora vi ricorra, deve indicare i criteri adoperati per il caso concreto).

In passato (vale a dire, prima che le tabelle milanesi assurgessero al rango di parametro di riferimento a livello nazionale), in tema di liquidazione del danno biologico, il giudice, se adottava le tabelle in uso presso il proprio ufficio (inteso come tribunale), non doveva motivare detta adozione, poiché il fondamento della tabella era la media dei precedenti giudiziari in un dato ambito territoriale e la finalità era (ed è tuttora) quella di uniformare i criteri di liquidazione del danno, mentre, se adottava le tabelle in uso presso altro ufficio, doveva motivare detta scelta. Era irrilevante, pertanto, qualora il giudicante avesse adottato le tabelle in uso presso il proprio ufficio, che esistessero altre tabelle, di altri uffici, con valutazioni (eventualmente) più favorevoli al danneggiato e che il giudice non avesse motivato tale propria scelta. In definitiva, le tabelle del tribunale erano considerate un fatto notorio solo localmente ed andavano adeguatamente spiegate (Cass. civ., sez. III, 2 marzo 2004, n. 4186).

Il maggior danno da svalutazione monetaria

  • Nella determinazione del coefficiente di svalutazione monetaria da applicare ad un danno derivante da responsabilità amministrativa, il giudice può discrezionalmente riferirsi a nozioni di comune esperienza, ai coefficienti dell'istituto di statistica o anche non indicare gli elementi su cui la sua determinazione si fonda (nella specie, allo scopo di ancorare il notorio o dati valutabili obiettivamente, si è fatto riferimento agli indici ISTAT richiamati dall'art. 150 disp. att. c.p.c.) (Corte Conti, sez. riun., 19 febbraio 1986, n. 470).
  • In presenza di una obbligazione contrattuale inadempiuta - tale essendo anche quella che abbisogna di determinazione aritmetica o tariffaria – il creditore ha diritto all'adempimento della prestazione dedotta in contratto e ad un quid pluris corrispondente al danno subito in dipendenza dell'inadempimento. Tale danno va accertato dal giudice del merito valutando ogni utile elemento presuntivo – ivi compreso il fatto notorio della svalutazione monetaria – o probatorio acquisito al fine di determinare quali utilità, maggiori degli interessi al saggio legale, sarebbero derivati al creditore dall'impiego della somma che fosse stata tempestivamente corrisposta (Cass. civ., sez. II, 18 giugno 1980, n. 3871).
  • In tema di responsabilità contrattuale conseguente alla verificazione della mora debendi, in tanto può essere affermata l'esistenza di un maggior danno risarcibile, in quanto questo si ponga come conseguenza immediata e diretta del comportamento del debitore. Consegue che, in presenza di un fatto notorio qual è la svalutazione monetaria, il giudice può procedere alla liquidazione del danno da essa (come concausa) derivante nell'ipotesi in cui si fornisca la prova, sia pure in via presuntiva, che dall'inadempimento sia derivato al creditore un maggior danno per effetto della svalutazione stessa. Il mero riferimento alle qualità personali del creditore (nella specie, imprenditore commerciale) non vale ad integrare la prova predetta (Pretura Roma, 20 febbraio 1978).
  • Nelle obbligazioni pecuniarie il maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, c.c., rispetto a quello già coperto dagli interessi moratori, è in via generale riconoscibile in via presuntiva, per qualunque creditore che ne domandi il risarcimento, nella eventuale differenza, a decorrere dalla data di insorgenza della mora, tra il tasso del rendimento medio annuo netto dei titoli di Stato di durata non superiore a dodici mesi ed il saggio degli interessi legali determinato per ogni anno ai sensi del comma 1 dell'art. 1284 c.c., salva la possibilità per il debitore di provare che il creditore non ha subìto un maggior danno o che lo ha subìto in misura inferiore e per il creditore di provare il maggior danno effettivamente subito (Cass. civ. civ., sez. un., 16 luglio 2008, n. 19499).

Il danno da perdita del rapporto parentale

  • Si può affermare, con sufficiente certezza, che un genitore soffra intensamente per la morte di un figlio ed il coniuge per la morte del partner, salvo che l'obbligato non deduca e provi circostanze ostative a tale conclusione (quali i rapporti conflittuali ovvero inesistenti). Occorre, però, dare atto di un orientamento di segno contrario, secondo cui i genitori di persona che abbia subito gravi lesioni in conseguenza dell'altrui illecito hanno si diritto al risarcimento del danno morale, ma l'esistenza di tale danno va accertata in modo rigoroso dal giudice di merito, evitando il ricorso al fatto notorio (Cass. civ., sez. III, 23 aprile 1998, n. 4186).

Il danno alla salute derivante dall'uso di sigarette

  • Poiché la circostanza che il fumo di sigarette nuoce alla salute è un fatto notorio sin dagli anni Sessanta dello scorso secolo, la condotta del fumatore che persevera nel fumare, nonostante la consapevolezza dei rischi di danno, costituisce causa efficiente esclusiva dell'evento, ai sensi dell'art. 41 c.p., valendo ad interrompere il nesso di causalità tra l'omissione di avvertenze sui rischi del fumo ed il danno (App. Roma, sez. III, 21 aprile 2014, n. 396; Trib. Roma, 5 dicembre 2007, n. 23877; in senso contrario App. Roma, 7 marzo 2005, n. 1015, e Cass. civ., sez. III, 30 ottobre 2007, n. 22884).
  • Va rigettata la domanda di risarcimento avanzata dal fumatore, sulla base della considerazione, da un lato, del difetto, nel singolo giudizio, di adeguata prova del rapporto di causalità tra il consumo di tabacco ed il danno alla salute e, dall'altro, del carattere notorio del rischio correlato al fumo di sigaretta, tale da far sì che il danno possa essere imputato allo stesso danneggiato, in virtù del principio dell'assunzione del rischio (Trib. Roma, 11 febbraio 2000; Trib. Roma, 4 aprile 1997; App. Roma, 2 ottobre 2000, la quale muove da un attento esame della tobacco litigation statunitense, in cui l'eccezione avente ad oggetto la c.d. assunzione del rischio da parte del consumatore tende a perdere peso, alla luce delle allegazioni relative alla condotta dei produttori di sigarette, volta a celare gli effettivi rischi correlati alla presenza di sostanze in grado di creare assuefazione e di rendere la sigaretta particolarmente nociva per la salute dei fumatori).
  • La idoneità del consumo di sigarette a causare danni alla salute è considerato fatto notorio, con la conseguenza che: a) l'omessa comunicazione circa il rischio di danno dal produttore di sigarette al consumatore non può considerarsi causa del danno (essendo, o dovendo essere, il rischio noto al fumatore); b) ai sensi dell'art. 41, comma 2, c.p., applicabile anche al nesso di causalità civile, il danno va ascritto in via esclusiva al danneggiato il quale sa (o deve sapere) che l'uso ripetuto di sigarette provoca gravi patologie (Trib. Roma, 11 aprile 2005, n. 8067; Trib. Brescia, 10 agosto 2005, n. 3900; Trib. Roma, 5 dicembre 2007, n. 23877; Trib. Roma, 4 aprile 2008, n. 7242).

Il danno esistenziale

Il danno esistenziale, essendo attinente al deterioramento della qualità della vita del pubblico dipendente per effetto di attività amministrativa ritenuta illegittima, rende ammissibile il ricorso alla prova per presunzioni, sulla scorta di valutazioni prognostiche anche basate su fatti notori o massime di comune esperienza (T.A.R. Campania Napoli, sez. IV, 26 ottobre 2007, n. 10125; Tar Lazio, Roma, sez. I, 10 maggio 2007 n. 4251).

Il danno non patrimoniale cagionato dalla p.a.

  • Il danno non patrimoniale cagionato dalla p.a. deve essere allegato e provato da chi chiede il risarcimento, anche se, trattandosi di pregiudizio immateriale che si proietta nel futuro, è consentito il ricorso alla prova per presunzioni, sulla scorta di valutazioni anche basate su fatti notori o massime di comune esperienza, salvo l'onere del danneggiato di allegare, a tal fine, elementi obiettivi (Cons. Stato, sez. VI, 16 marzo 2005, n. 1096; T.A.R. Lazio, sez. I, 27 aprile 2006, n. 643).
  • Sul piano della prova, è ius receptum l'affermazione secondo la quale l'immaterialità della lesione di beni e valori inerenti alla persona rende percorribile in via principale lo strumento della prova per presunzioni, sulla scorta di valutazioni prognostiche anche basate su fatti notori o massime di comune esperienza. Detti danni sono suscettibili di liquidazione equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c., alla luce della gravità e della durata della lesione (perdita di incarico annuale) e della rilevanza delle conseguenze riportate (Cass. civ., sez. III, 27 aprile 2004, n. 7980, in materia di danni extrapatrimoniali da lesione della reputazione professionale; contra, nel senso di configurare il danno esistenziale quale danno-evento, Cass. civ., sez. III, 3 aprile 2001, n. 4881; Cass. civ., sez. III, 10 maggio 2001, n. 6507; Cass. civ., sez. III, 27 aprile 2004, n. 7980, in materia di danni extrapatrimoniali da lesione della reputazione professionale)

Si noti per incidens che il ricorso alla prova presuntiva, se necessario, comporta, d'altro canto, una concreta inversione dell'onere probatorio, con relevatio ab onere probandi a favore del danneggiato, come insegna la giurisprudenza in materia di danni non patrimoniali da durata irragionevole dei processi (Cass. civ., Sez. Un., 26 gennaio 2004, nn. 1338, 1339, 1340, 1341).

I danni patrimoniali futuri risarcibili sofferti dal coniuge di persona deceduta a seguito di fatto illecito

  • I danni patrimoniali futuri risarcibili sofferti dal coniuge di persona deceduta a seguito di fatto illecito, ravvisabili nella perdita di quei contributi patrimoniali o di quelle utilità economiche che – sia in relazione ai precetti normativi (artt. 143 e 433 c.c.), che per la pratica di vita improntata a regole etico sociali di solidarietà e di costume il defunto avrebbe presumibilmente apportato – assumono l'aspetto del lucro cessante, ed il relativo risarcimento è collegato ad un sistema presuntivo a più incognite, costituite dal futuro rapporto economico tra i coniugi e dal reddito presumibile del defunto, ed in particolare dalla parte di esso che sarebbe stata destinata al coniuge; la prova del danno è raggiunta quando, alla stregua di una valutazione compiuta sulla scorta dei dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto, risulti che il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle necessità del coniuge o avrebbe apportato al medesimo utilità economiche anche senza che ne avesse bisogno. Ne consegue che nel calcolo dei danni patrimoniali futuri risarcibili non rileva che il coniuge diventi titolare di pensione di reversibilità, fondandosi tale attribuzione su un titolo diverso dall'atto illecito e non potendo essa comprendersi tra quei contributi patrimoniali o quelle utilità economiche che il coniuge defunto avrebbe presumibilmente apportato (Cass. civ., sez. III, 19 agosto 2003, n. 12124; Cass. civ., sez. III, 18 maggio 1999, n. 4801, con riferimento ai danni patrimoniali futuri risarcibili sofferti dai genitori o dai fratelli di un minore deceduto a seguito di fatto illecito).
  • Ai genitori di un minore deceduto per un fatto illecito spetta il diritto al risarcimento del danno patrimoniale futuro, consistente nella perdita delle aspettative del contributo economico della vittima, indipendentemente dalle loro condizioni (ad es., adeguate fonti di reddito) al momento dell'illecito, essendo sufficiente che in base a fatti notori e di comune esperienza risulti verosimile il danno relativamente ai bisogni futuri (Cass. civ., sez. III, 13 novembre 1997, n. 11236; Cass. civ., sez. III, 28 luglio 2005, n. 15823).

I danni subiti da un'autovettura a seguito di caduta di pietre su una pubblica strada

Nel caso di danni subiti da un'autovettura a seguito di caduta di pietre su una pubblica strada, l'obbligo del risarcimento gravante sulla p.a. proprietaria non è regolato dall'art. 2051 c.c., sia perché l'estensione della rete stradale non consente l'esercizio di quel controllo completo e continuo nel quale si sostanzia la custodia, sia perché l'attività di sorveglianza affidata ai cantonieri è svolta nell'esclusivo interesse della p.a. e non anche di terzi. Dei danni anzidetti l'amministrazione risponde, pertanto, a norma dell'art. 2043 c.c. con la conseguenza che il danneggiato deve provare la colpa dell'ente proprietario, avvalendosi, se del caso, anche di fatti notori (Pretura Paola, 24 dicembre 1991).

Riferimenti
  • Cascione, La responsabilità per danni da fumo, in Corr. giur., 2001, 877;
  • Dioguardi, La prova dell'entità del pregiudizio subito nel danno esistenziale, in Giust. civ., 2004, I, 1609;
  • Malzani, Danno non patrimoniale e rapporto di lavoro: il demansionamento professionale, in Danno e resp., 2005, 401 ss.;
  • Ponzanelli, Responsabilità da prodotto da fumo: il “grande freddo” dei danni punitivi, in Foro it., 1992, IV, 502.

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