Prove in generale

13 Giugno 2016

La parte che agisce per far valere in giudizio un diritto deve provare i fatti che sorreggono la pretesa.
Inquadramento

«Provare» — nell'accezione che interessa — vuol dire sottoporre all'attenzione (e alla valutazione) di chi deve esprimere un giudizio gli elementi per dimostrare la sussistenza di fatti che si afferma essersi verificati o l'impossibilità che essi si siano verificati. In particolare, la parte che agisce per far valere in giudizio un diritto deve provare i fatti che sorreggono la pretesa; la controparte che tali fatti contrasta (cioè ne «eccepisce l'inefficacia» oppure la modifica o l'estinzione del diritto preteso ex adverso) «deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda» (art. 2697 c.c.).

Si tratta del principio dell'onere della prova, ricollegato al brocardo onus probandi incumbit ei qui dicit e collocato nel codice civile poiché viene in considerazione sia quanto alla sua ripartizione tra i soggetti di un rapporto giuridico controverso, sia in ordine all'attività da svolgere per fare acquisire nel processo il materiale idoneo a sostenere le rispettive pretese.

In difetto (o insufficienza) di prova a sostegno delle deduzioni assertive si fa applicazione della regola actore non probante reus absolvitur e il giudice emanerà una sentenza di rigetto della domanda dell'attore; se il difetto di prova riguarda i fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto azionato, saranno le eccezioni a essere disattese, con conseguente accoglimento della domanda.

Si tratta di un principio-base del duello giudiziario, tanto che costituisce violazione di norma di diritto, da poter far valere anche come motivo di ricorso per cassazione (art. 360, n. 3, c.p.c.), l'avere il giudice attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole (Cass. civ., sez. III, n. 15107/2013).

Le parti, tuttavia, possono variare le regole del «duello» e disciplinare in altro modo l'onere della prova, restando comunque esclusa la possibilità di disporre — venendo altrimenti i relativi patti colpiti da nullità — la sua inversione o modificazione quando si tratta di diritti indisponibili (che escludono all'autonomia dei privati di incidere su di essi) oppure quando ciò fa venir meno quella sorta di sostanziale « parità delle armi » che caratterizza il contraddittorio nel processo, rendendo per una di esse eccessivamente gravoso l'esercizio del diritto (art. 2698 c.c.).

«Provare» — nell'accezione che interessa — vuol dire sottoporre all'attenzione (e alla valutazione) di chi deve esprimere un giudizio gli elementi per dimostrare la sussistenza di fatti che si afferma essersi verificati o l'impossibilità che essi si siano verificati. In particolare, la parte che agisce per far valere in giudizio un diritto deve provare i fatti che sorreggono la pretesa; la controparte che tali fatti contrasta (cioè ne «eccepisce l'inefficacia» oppure la modifica o l'estinzione del diritto preteso ex adverso) «deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda» (art. 2697 c.c.).

Si tratta del principio dell'onere della prova, ricollegato al brocardo onus probandi incumbit ei qui dicit e collocato nel codice civile poiché viene in considerazione sia quanto alla sua ripartizione tra i soggetti di un rapporto giuridico controverso, sia in ordine all'attività da svolgere per fare acquisire nel processo il materiale idoneo a sostenere le rispettive pretese.

In difetto (o insufficienza) di prova a sostegno delle deduzioni assertive si fa applicazione della regola actore non probante reus absolvitur e il giudice emanerà una sentenza di rigetto della domanda dell'attore; se il difetto di prova riguarda i fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto azionato, saranno le eccezioni a essere disattese, con conseguente accoglimento della domanda.

Si tratta di un principio-base del duello giudiziario, tanto che costituisce violazione di norma di diritto, da poter far valere anche come motivo di ricorso per cassazione (art. 360, n. 3, c.p.c.), l'avere il giudice attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole (Cass. civ., sez. III, n. 15107/2013).

Le parti, tuttavia, possono variare le regole del «duello» e disciplinare in altro modo l'onere della prova, restando comunque esclusa la possibilità di disporre — venendo altrimenti i relativi patti colpiti da nullità — la sua inversione o modificazione quando si tratta di diritti indisponibili (che escludono all'autonomia dei privati di incidere su di essi) oppure quando ciò fa venir meno quella sorta di sostanziale « parità delle armi » che caratterizza il contraddittorio nel processo, rendendo per una di esse eccessivamente gravoso l'esercizio del diritto (art. 2698 c.c.).

Il diritto alla prova

«Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti in condizioni di parità» (art, 111, comma 2, Cost.) ed è a tale norma che, stante il silenzio sul punto dell'art. 115 c.p.c., viene ricollegato il diritto delle parti di influire sull'accertamento giudiziale per mezzo di tutte le prove rilevanti, dirette o contrarie, delle quali dispongano al fine di dimostrare la verità dei fatti sui quali fondano le rispettive pretese; di interloquire sulla rilevanza e ammissibilità delle prove; di partecipare alla loro assunzione.

A tutela del diritto in discorso, la parte ha a sua disposizione i mezzi di gravame previsti dall'ordinamento, sia per gli eventuali errores in procedendo del giudicante nell'applicazione delle norme sull'ammissione e sull'assunzione delle prove, sia per quegli eventuali in iudicando in ordine alla loro valutazione.

Il principio dispositivo

«[…] il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti e dal pubblico ministero» art. 115, comma 1, c.p.c.).

È attribuito così un ruolo centrale dell'iniziativa di parte (sono marginali casi di iniziativa a cura del P.M.) libera, in quella sorta di gara di abilità e di conoscenza del percorso processuale e dei suoi trabocchetti, di selezionare e di offrire all'attenzione e alla valutazione del giudicante gli strumenti che reputa utili alla prova dei fatti ad essa favorevoli. Per converso, taluni dati documentali, pur essendo stati introdotti nel processo e inclusi nel fascicolo di parte, possono essere non più rinvenibili per avere la parte reputato opportuno il loro «ritiro».

Si tratta del principio dispositivo che, per taluni, aspetti mostra di derivare dal principio della disponibilità del rapporto sostanziale e che valorizza il governo del processo ad opera delle parti, ciascuna delle quali può operare la scelta tra l'iniziativa per fare acquisire il « materiale » reputato utile per una decisione a sé favorevole, oppure di astenersi dall'assumere qualunque

iniziativa (facendo « volontariamente » maturare le preclusioni probatorie).

Il principio in discorso comporta — nello scambio di « mosse e contromosse » — che ciascuna delle parti è libera di ritirare il proprio fascicolo e di omettere la restituzione di esso o di solo alcuni dei documenti ivi contenuti, con il suggerito accorgimento, per la controparte che intenda avvalersene, di farsene rilasciare copia dal cancelliere (art. 76 disp. att. c.p.c.) da inserire nel proprio fascicolo perché possano essere considerati dal giudice il quale, non esistendo un principio di «immanenza» della prova documentale (Cass. civ., sez. III, 15 marzo 2004, n. 5241), non è tenuto a rimettere la causa sul ruolo per consentire di ovviare alla carenza riscontrata, ma ha il dovere di decidere la controversia allo stato degli atti (Cass. civ., sez. I, 25 maggio 2015, n. 10741).

Le novità del processo telematico

Il processo telematico, recentemente introdotto, ha fatto venir meno la disponibilità delle prove ad opera della parte in quanto il deposito con modalità telematiche del documento e del fascicolo di parte ne comporta l'irretrattabilità e, quindi, l'impossibilità di disporre del materiale entrato «in rete» (cioè nel fascicolo telematico sul quale chi lo ha prodotto non ha la possibilità tecnica di intervenire). Il principio dell'acquisizione probatoria diviene così operativo anche con riguardo alla prova documentale e tramonta quello della disponibilità «di quanto nel giudizio cartaceo la parte avrebbe potuto ritirare (intero fascicolo o singolo documento)».

I poteri del giudice e le scansioni processuali

I limiti dell'intervento del giudice rispetto ai poteri delle parti nel processo civile è questione che ha indotto il legislatore codicistico a una soluzione di compromesso con esclusione di ogni carattere inquisitorio ma taluni margini per l'iniziativa officiosa del giudice, i poteri istruttori del quale vanno, almeno in linea di principio, qualificati come residuali o secondari.

Egli è super partes e solo eccezionalmente («salvi i casi particolari»), può assumere una qualche iniziativa che ricade nell'ambito probatorio, in relazione alla peculiare natura dei diritti oggetto di tutela giurisdizionale.

Poiché l'iniziativa officiosa non è finalizzata a supplire alle allegazioni assertive e alle iniziative probatorie delle parti, è da credere che le scansioni che caratterizzano il processo ordinario comportino limiti anche all'iniziativa officiosa del giudice che resta soggetto alle stesse barriere preclusive stabilite per le parti, salvi i casi in cui l'esigenza derivi proprio dai risultati di prove già acquisite (teste di riferimento, giuramento suppletorio).

Il thema probandum è quello che le parti hanno delineato tempestivamente e l'iniziativa officiosa -- volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa (Cass. civ., sez. lav., n. 5878/2011) – può esplicarsi, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o di decadenze in danno delle parti (Cass. civ., sez. lav., n. 29006/2008), solo in presenza di una semiplena probatio. In questa evenienza, il giudice, con l'ordinanza che dispone la prova, deve assegnare alle parti un termine perentorio perché possano dedurre i mezzi di prova «che si rendano necessari» in relazione all'iniziativa officiosa nonché un ulteriore termine per il deposito di note di replica (art. 183, comma 8, c.p.c.).

L'ampliamento dell'intervento officioso

Nell'ultimo periodo situazioni e concezioni caratterizzate da una opzione per un maggiore intervento officioso -anche ai fini di una «velocizzazione» del processo civile – ha comportato l'introduzione di riti speciali quale il procedimento sommario di cognizione che affida una decisa iniziativa (anche istruttoria) al giudice il quale « procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all'oggetto del provvedimento richiesto » (art.702-ter, comma 5, c.p.c.). Sott'altro aspetto, il regime delle preclusioni limita il potere di iniziativa delle parti (art. 183 c.p.c.)

Un potere di intervento istruttoriosi rinviene invece nel rito del lavoro potendo il giudice – oltre che indicare alle parti le irregolarità nelle quali siano incorse, concedendo loro un termine per sanarle- «disporre d'ufficio, in qualsiasi momento, l'ammissione di ogni mezzo di prova» (art. 421 c.p.c.), rientrando l'iniziativa nel potere discrezionale del giudice del merito, il cui esercizio si sottrae al sindacato di legittimità anche quando difetti un'espressa motivazione al riguardo, dovendo ritenersi implicita nell'ammissione del mezzo istruttorio la valutazione della sua opportunità (Cass. civ., sez. III, 7 dicembre 2005, n. 27002).

Il divieto di utilizzare la scienza privata

L'art. 115 c.p.c. pone per il giudice il divieto di utilizzare la propria scienza privata cioè la conoscenza che abbia dei fatti di causa, come pure di «ricevere private informazioni» (art. 97 disp. att. c.p.c.), situazioni queste che si realizzano di fuori del processo e senza la possibilità per le parti di interloquire.

Il divieto -di portata generale, vigente anche per il rito del lavoro- riguarda anche l'utilizzo di conoscenze acquisite dalla pregressa trattazione di analoghe controversie, anche essa riconducibile alla scienza privata del giudice (Cass. civ., sez. I, 27 febbraio 2004, n. 3980), non essendo i fatti ritualmente acquisiti al singolo processo, con conseguente violazione del principio del contraddittorio. Così, ad esempio, il ricorso all'esistenza di un giudicato esterno (Cass. civ., sez. I, 11 marzo 2014, n. 5923, con riguardo a una sentenza redatto dallo stesso giudice)

Quando non occorre fornire la prova

Non devono costituire oggetto di prova «i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita» (art. 115, comma 1, ultima proposizione, c.p.c.).

L'art. 167 (per il rito ordinario) e l'art. 418 (per il rito del lavoro) c.p.c.., imponendo al convenuto l'onere di prendere posizione sui fatti costitutivi del diritto preteso dalla controparte, comporta che il giudice dovrà astenersi da qualsivoglia controllo probatorio del fatto non contestato acquisito al materiale processuale e dovrà, perciò, ritenerlo sussistente, in quanto l'atteggiamento difensivo delle parti espunge il fatto stesso dall'ambito degli accertamenti richiesti (Cass. civ., sez. III, 3 marzo 2009, n. 5356)

La non contestazione, per avere rilievo, si deve riferire a fatti e si concreta nell'adozione di una linea incompatibile con la negazione del fatto rendendo inutile provarlo (Cass. civ., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761).Sott'altro aspetto, essa costituisce l'adozione di una linea difensiva rimessa alla disponibilità della parte, con la conseguenza che non produce il suo effetto suo tipico in particolari fattispecie, come nel caso in cui sia richiesta la forma scritta ad substantiam; quando si tratta di diritti indisponibili.

La mancata costituzione del convenuto -pur se può concorrere, insieme ad altri elementi, a formare il convincimento del giudice (Cass. civ., sez. III, 29 marzo 2007, n. 7739) - non equivale ad ammissione della esistenza dei fatti dedotti dall'attore a fondamento della propria domanda e non esclude il potere-dovere del giudice di accertare se da parte dell'attore sia stata data dimostrazione probatoria dei fatti costitutivi e giustificativi della pretesa (Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2006, n. 15777).

Sempre in forza dell'art. 115, comma 2, c.p.c, le parti non devono fornire alcuna prova, in quanto il giudice li «può porre a fondamento della decisione, i fatti che rientrano della comune esperienza». Nella categoria – che ha riguardo sia ai fatti principali, sia a quelli secondari – sono tradizionalmente ricondotti i fatti notori e le massime di comune esperienza.

Si deve intendere come notorio il fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo (Cass. civ., sez. I, 10 settembre 2015, n. 17906), con un grado di univocità e sicura percezione da parte della collettività da risultare indubitabile e incontestabile; restano, invece, fuori da tale nozione le opinioni sociologiche meramente soggettive e le regole di parziale valutazione della realtà che hanno valenza solo suggestiva (Cass. civ., sez. V, 29 ottobre 2014, n. 22950).

Il potere del giudice, discrezionale, è sottratto al sindacato di legittimità, a meno che non venga assunta a base della decisione una nozione inesatta del notorio , restando invece censurabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione e sempre che tale censura non si limiti ad estrinsecare una valutazione diversa da quella fatta propria dal giudice di merito o ad addurre, a riprova del carattere non notorio del fatto, una asserita misconoscenza di esso da parte dell'estensore dei motivi di censura (Cass. civ., sez. II, 4 giugno 2007, n. 13056; Cass. civ., sez. lav., 4 ottobre 2004, n. 19834).

Malgrado siano poste, quanto agli effetti, sullo stesso piano del notorio, differenti -sul piano definitorio -sono le massime d'esperienza vere e proprie.

Si tratta di giudizio ipotetico che si trae dall'esperienza attraverso l'osservazione di una serie di casi singoli e che si reputa valido per altri casi analoghi: si tratta di una conseguenza normale – che, cioè, statisticamente avviene con frequenza (id quod plerumque accidit)- di un altro evento.

Trattandosi di una regola di carattere induttivo e probabilistico, le massime di esperienza non costituiscono presunzioni iuris et de iure, dovendo pertanto il giudice accogliere le richieste istruttorie finalizzate a contrastare l'applicabilità (Cass. civ., sez. II, 19 gennaio 2006, n. 981).

Casisticasistica: utilizzazione delle massime

Il danno esistenziale, quale criterio di liquidazione del più generale danno non patrimoniale, risarcibile ex art. 2059 c.c., può essere desunto in forza dell'art. 115, comma 2, c.p.c. da massime di comune esperienza, quali la giovane età del danneggiato al momento dell'infortunio (nella specie, venticinque anni) e la gravità delle conseguenze dell'infortunio (nella specie, immobilizzazione su sedia a rotelle) incidenti sulla normale vita di relazione dell'infortunato avuto riguardo alla capacità di procreazione, alla vita sessuale, alla possibilità di praticare sport ed altre analoghe attività.

Il giudice del merito, nel valutare in fatto se, nel settore delle riparazioni e costruzioni navali, la stipulazione dei contratti di lavoro a termine sia avvenuta nel rispetto dei requisiti di cui all'art. 1 lett. C) e d) della l. n. 230 del 1962, deve tener conto che, in linea di massima, la sussistenza dei requisiti anzidetti ed, in particolare, la caratteristica della soggezione dell'attività cantieristica a fluttuazioni imprevedibili, che non consentono la preventiva organizzazione delle forze di lavoro da impiegare, va ritenuta, per volontà del legislatore, una nozione di comune esperienza, la quale a norma del secondo comma dell'art. 115 c.p.c. può essere posta a fondamento della decisione senza bisogno di prova.

Cass. civ., sez. lav., 19 gennaio 2015, n. 777

Cass. civ., sez. lav., 19 gennaio 1990. n. 276

Distinzione delle prove

Le prove possono essere legali e libere, a seconda che l'esito del procedimento vincoli o meno il convincimento del giudice in ordine al giudizio sull'esistenza o meno di un fatto od evento.

Si distinguono, ancora, in storiche e critiche, a seconda che provano l'evento che la parte assume essersi verificato oppure un altro fatto dal quale risalire criticamente a quello dedotto dalla parte.

Può trattarsi poi di «documenti» (rogiti notarili, scritture private, lettere, telegrammi, fatture, certificati, libri contabili, riproduzioni meccaniche, tacche di contrassegno) che si sono formati in occasione degli accadimenti più vari, a prescindere del processo e al di fuori di esso, nel quale poi entrano a far parte: sono le prove precostituite.

Altri mezzi di prova, invece, prendono vita e si costituiscono (dal che il nome di prove costituende) in occasione del processo in funzione del quale hanno rilievo, in esito ad una apposita attività istruttoria (ispezione, testimonianza, confessione, giuramento).

Il fatto allegato dalle parti può cadere direttamente sotto la percezione dei sensi del giudice (come nel caso dell'ispezione personale, nella quale egli constata il dato affermato dalla parte), oppure essere essergli rappresentato attraverso una « narrazione » (come è nella prova testimoniale): da ciò la tradizionale distinzione tra prove dirette e indirette.

In questa prospettiva, l'acquisizione del materiale probatorio si sgrana in tre momenti: l'iniziativa (istanza) della parte; l'ammissione della prova; il suo espletamento.

Caratteri ancora differenti presentano le presunzioni che indicano il percorso logico attraverso il quale si risale da un fatto noto ad uno ignorato (art. 2727 c.c.). Si tratta talvolta di presunzioni semplici nelle quali l'operazione è «lasciata alla prudenza del giudice», con il limite che esse siano «gravi, precisi e concordanti» e con esclusione della loro utilizzabilità «nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni» (art. 2729 c.c.). Altre volte le presunzioni sono legali, cioè stabilite dalla legge, la quale dà per scontato un certo risultato e che possono essere assolute (iuris et de iure), contro le quali «non può essere data prova contraria» — come, ad es., la restituzione volontaria del titolo originale del credito, fatta dal creditore al debitore, che costituisce prova della liberazione, anche rispetto ai debitori in solido (art. 1237 c.c.) — e che, quindi, si risolvono in una sorta di precetto di legge che conferisce ad un fatto dedotto il crisma di verità accertata. Sono, invece, relative (iuris tantum) le presunzioni che ammettono la prova contraria e, quindi, si sostanziano in una sorta di inversione dell'onere della prova: ad es., si presume oneroso il mandato (art. 1709 c.c.); si presume conforma all'originale la riproduzione del telegramma consegnato al destinatario (art. 2706 c.c.).

Le prove c.d. atipiche

Per costruire la decisione, seppure tendenzialmente è da utilizzare il « materiale » indicato espressamente dalla legge, tuttavia nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova. Ne consegue che il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento anche prove atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo.

Sono tali, ad es., gli scritti provenienti da terzi (Cass. civ., sez. lav., 25 settembre 2000, n. 12673), la consulenza di parte (Cass. civ.. sez. V., 6 giugno 2012, n. 9099), la dichiarazione sostitutiva dell'atto notorio (Cass. civ., 10 agosto 2001, n. 11031), le prove acquisite in un altro processo (Cass. civ., sez. III,, 4 marzo 2002, n. 3102).

In evidenza

In taluni casi la prova può essere fornita solo con taluni degli strumenti in discorso: può essere, così, provato solo con l'atto pubblico che vi ha dato vita il patto di famiglia (art. 768-ter c.c.); necessitano della prova per iscritto l'autorizzazione alle variazioni in tema di appalto, (art. 1659 c.c.), taluni contratti generali di riassicurazione (art. 1928 c.c.), la transazione (art. 1967 c.c.), il trasferimento per atti tra vivi di diritti d'autore (art. 2581 c.c.), il patto limitativo della concorrenza (art. 2956 c.c.). La prova testimoniale, può essere ammessa solo se ricorrono particolari condizioni (artt. 2721 ss. c.c.).

L'ammissione

Per l'acquisizione delle prove è necessaria la tempestiva iniziativa delle parti.

Nel giudizio di primo grado davanti al tribunale essa si attua, per quanto riguarda le prove costituite, con l'indicazione, da parte di chi intende valersene, nei propri scritti iniziali (atto introduttivo, comparsa di risposta) e la loro «comunicazione», attraverso l'inserimento nel relativo fascicolo.

Qualora sia stato concesso il termine di cui all'art.183, comma 6, c.p.c., nella relativa memoria istruttoria. Per le prove costituende, occorre la richiesta di ammissione, negli atti introduttivi oppure nel termine eventualmente fissato dal giudice ai sensi dell'art. 183, comma 6, c.p.c.

Nel rito lavoristico i mezzi di prova possono essere dedotti, se non è stato possibile farlo prima, anche alla prima udienza con possibilità, in questa evenienza, della concessione di un breve termine alla controparte per la deduzione di prova contraria (art. 240, commi 5 e 6, c.p.c.). Nel giudizio davanti al giudice di pace la produzione di documenti e la richiesta di prova da assumere deve avvenire nella prima udienza o in quella «nuova» (successiva a quella di comparizione) che viene fissata all'uopo (art. 320 c.p.c.).

L'iniziativa della parte è sottoposta al preventivo scrutinio del giudice il quale deve valutarle le decidere circa l'ammissibilità e la rilevanza del mezzo richiesto. L'ammissibilità difetta quando l'istanza è stata formulata fuori termine oppure il mezzo non è ammesso dalla legge (ad es., la richiesta di provare con testimoni una vendita immobiliare); la rilevanza comporta da parte del giudice — al fine di evitare la paventata inutilità di una attività istruttoria — la valutazione preventiva (ed ipotetica), ai fini della decisione, del fatto che costituisce l'oggetto della prova, senza, tuttavia, che sia necessario esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui esso sia ritenuto irrilevante ovvero enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni (Cass. civ., sez. lav., 13 giugno 2014, n. 13485).

La prova, una volta «ammessa», non resta nella esclusiva disponibilità della parte su istanza della quale essa deve iniziare o proseguire: in caso di assenza di questa all'udienza, seppure il giudice può applicare d'ufficio, anche cioè se non richiesto dalla controparte, la sanzione di decadenza (Cass. civ., sez. III, 13 luglio 2011, n. 15368), l'altra parte che sia presente può chiedere che si proceda all'assunzione (art. 208 c.p.c.).

L'espletamento

Il giudice stabilisce «tempo, modo e luogo» per l'assunzione della prova, cioè una nuova udienza, che poi può essere differita in prosecuzione — qualora la prova non si esaurisca — in un «giorno prossimo», indicato in via di principio dall'art. 81 disp. at. c.p.c. in quindici giorni, ma che resta in realtà imprevedibile derivando dal carico del giudice che certamente costituisce una delle « speciali circostanze » indicate dalla norma e che, quasi sempre, non viene neppure menzionata nel provvedimento di rinvio, dandosi in certo

senso per ovvia.

Va rammentato il tentativo (rimasto senza esito) della riforma del 2009 (art. 59, comma 2, l. n. 69 del 2009) che ha stabilito l'obbligo per il giudice, con il provvedimento che ammette le prove. di calendarizzare il processo « con l'indicazione delle udienze successive e degli incombenti che (in ognuna di esse) avrebbero dovuto essere verranno espletati » (art. 81-bis disp. att. c.p.c.).

Il giudice istruttore che dirige lo svolgimento dell'udienza la quale — stante il carattere « privato » della vicenda processuale — non è pubblica (art. 84 disp. att. c.p.c.), malgrado a volte possa apparire diversamente a chi frequenta le aule dei tribunali. Ad essa le parti costituite partecipano tramite i rispettivi difensori e — sempre che siano costituite — possono presenziare di personaassistere personalmente »: art. 206 c.p.c.). È da precisare che, in tale evenienza, l'assistenza non si traduce in una partecipazione attiva, dovendo le parti stare in silenzio a meno che non richiedano o ottengano dal giudice (al quale devono rivolgersi tramite l'avvocato) l'autorizzazione a formulare osservazioni. Resta in capo al giudice, nella direzione dell'udienza, il potere di espellere la parte che assiste personalmente e che mantiene un comportamento deprecabile o, sin dall'inizio, di non consentire questa presenza quando la litigiosità delle parti o la natura del processo lo induca a ipotizzare la concreta possibilità di comportamenti conflittuali e litigiosi.

Dello svolgimento dell'udienza viene redatto il relativo processo verbale.

La prova fuori sede

Se i mezzi di prova – nonché la consulenza tecnica d'ufficio (Cass. civ., sez. III, 11 aprile 2000, n. 4588)-- devono essere espletati « fuori sede » provvede alla bisogna il giudice istruttore del tribunale in loco che viene delegato per tanto dal giudice titolare del processo, il quale fissa anche il termine entro il quale la prova deve essere esaurita e l'udienza, per il prosieguo davanti a sé, successiva a tale scadenza. In taluni casi (su concorde delle parti e previa autorizzazione del presidente del tribunale) il giudice titolare del processo può provvedere direttamente all'assunzione recandosi « in trasferta » (art. 203 c.p.c.).

Per l'espletamento della prova all'estero, se riguarda cittadini italiani si attua la c.d. «rogatoria consolare» con la quale il giudice delega il console competente, attuando lo stesso meccanismo stabilito per l'assunzione della prova «fuori sede» (art. 204 c.p.c.). Tale sistema, peraltro, non è limitato ai soli cittadini italiani residenti all'estero dovendo reputarsi legittima anche l'audizione, in qualità di teste, del cittadino straniero (Cass. civ., sez. I, 28 novembre 2001, n. 15096/2001). Negli altri casi la rogatoria deve essere trasmessa per via diplomatica) alle autorità straniere che provvedono all'assunzione della prova secondo le norme processuali straniere che non siano in contrasto con i principi di ordine pubblico italiano.

Per l'assunzione delle prove in materia civile o commerciale transfrontaliere, l'autorità giudiziaria di uno Stato membro può chiedere direttamente — a mezzo formulari standard e nella lingua ufficiale dello Stato al quale la rogatoria si rivolge — all'autorità giudiziaria di un altro Stato membro di assumere prove (Regolamento (CE) n. 1206/2001 del Consiglio, del 28 maggio 2001)

Verbalizzazione e processo telematico

L'avvento del processo telematico ha comportato il necessario adattamento alla sottoscrizione del verbale relativo alle prove espletate, quanto alla sottoscrizione che, nel processo cartaceo, era effettuata, oltre che dal giudice e dal cancelliere, dagli altri soggetti che avevano partecipato all'udienza (ad es., parti interrogate, testimoni, ctu).

In particolare, l'art. 45, comma 1, lett. a) d.l. 24 giugno 2014, n. 90, ha limitato a necessità della sottoscrizione (ovviamente con firma digitale) a quella del cancelliere oppure del giudice quando, nei rari casi in cui il cancelliere non può essere presente in udienza, provvede egli stesso ad operare la verbalizzazione (Cass. civ., sez. V, 20 aprile 2007, n. 9389).

Sommario