La duplice essenza del danno alla persona nella giurisprudenza di legittimità

15 Gennaio 2019

Disamina di alcune pronunce della Cassazione per verificare se e in che modo la affermata “duplice essenza del danno alla persona” debba indurre il giudice del merito ad un ripensamento dei criteri equitativi di liquidazione del danno e dell'utilizzo del sistema tabellare, prendendo spunto da fattispecie concrete e confrontando le categorie logico-giuridiche della sofferenza umana con gli approdi della neuroscienza.
I punti fermi nelle pronunce della III sezione civile della Cassazione

Il mio primo approccio, quale giudice del merito, di fronte a provvedimenti della Cassazione che contengono nuovi principi enunciati con chiara e spiccata funzione nomofilattica, è quello di verificare come tali principi si riverberino nei miei usuali strumenti di giudizio del fatto concreto e quali aggiustamenti si impongano nella tendenziale ottica di volervi prestare ossequio.

Mi sono quindi innanzitutto soffermata sui punti d'approdo della evoluzione giurisprudenziale ai quali dichiaratamente la sentenza della Corte di Cassazione, n. 901/2018 - prima tra le altre della III sezione a rimeditare in maniera organica la nozione del danno non patrimoniale - intende dare continuità.

In Cass. civ. n. 901/2018 si ribadisce come «…il nostro ordinamento positivo conosca e disciplini (soltanto) la fattispecie del danno patrimoniale, nelle due forme (…) del danno emergente e del lucro cessante: (art. 1223 c.c.), e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.)» e che «Natura unitaria sta a significare che non v'è alcuna diversità nell'accertamento e nella liquidazione del danno causato dal vulnus di un diritto costituzionalmente protetto diverso da quello alla salute, sia esso rappresentato dalla lesione della reputazione, della libertà religiosa o sessuale, della riservatezza, del rapporto parentale. Natura onnicomprensiva sta invece a significare che, nella liquidazione di qualsiasi pregiudizio non patrimoniale, il giudice di merito deve tener conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall'evento di danno, nessuna esclusa».

Questi sono i punti fermi alla base del metodo induttivo che da anni utilizzo per la liquidazione del danno non patrimoniale e che parte dalla osservazione fattuale di tutte le conseguenze dannose di un determinato evento e dall'analisi dell'entità e della forma che queste assumono. Nello svolgere l'indagine mi aiuto con il ricorso ad una immagine mentale in cui l'evento è come una deflagrazione di uno dei diritti fondamentali ed inviolabili della persona (salute, dignità …) che produce macerie di vario tipo nella forma di sofferenze.

Nella medesima sentenza si riafferma infatti che «Oggetto della valutazione di ogni giudice chiamato ad occuparsi della persona e dei suoi diritti fondamentali è, nel prisma multiforme del danno non patrimoniale, la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto» che deve essere risarcita a prescindere dalla natura dell'evento di danno.

Gli stessi principi sono sintetizzati nei primi cinque punti del “Decalogo” della ordinanza n. 7513/2018, e al punto 5) in particolare si afferma che bisogna accertare “in concreto e non in astratto (…) in special modo se, come e quanto sia mutata la condizione della vittima rispetto alla vita condotta prima del fatto illecito”.

L'approccio metodologico sopra descritto discende necessariamente dal fatto che non si risarcisce la perdita di una parte del corpo umano o di un segmento della dignità o della libertà, ma appunto i vari aspetti di sofferenza derivanti dalla menomazione, perché il “valore uomo” (definizione mutuata proprio da Cass. civ., n. 901/2018) è il patrimonio fondamentale della persona, seppure non in termini di moneta ma di benessere, e la sofferenza è comunque una diminuizione di questo benessere.

Il danno come mutamento delle condizioni di vita e la sua duplice essenza

Il mutamento della condizione di vita della vittima dell'illecito è immediatamente percepibile in presenza di un danno alla salute, essendo questa una posta del patrimonio uomo dotata di consistenza organica, e consiste innanzitutto nei «pregiudizi alle attività quotidiane, personali e relazionali indefettibilmente dipendenti dalla perdita anatomica o funzionale, ovvero il danno dinamico-relazionale» menzionati nel punto 6) del Decalogo.

Ma tali pregiudizi, «relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso», sono richiamati anche nel punto 10) del Decalogo, sebbene con riferimento alla lesione di diversi interessi costituzionalmente tutelati; solo che, diversamente che nel punto 6), manca il riferimento alla indefettibile dipendenza dalla lesione.

Nonostante la Cassazione chieda al giudice di merito di indagare e descrivere tutte le conseguenze dannose intese come mutamento deteriore delle condizioni di vita della vittima, nella sentenza n. 901/2018 si afferma però in maniera esplicita che occorre considerare «…la reale natura e la vera, costante, duplice essenza del danno alla persona:

- la sofferenza interiore;

- le dinamiche relazionali di una vita che cambia (…)

Restano così efficacemente scolpiti i due aspetti essenziali della sofferenza: il dolore interiore, e/o la significativa alterazione della vita quotidiana. Danni diversi e perciò solo entrambi autonomamente risarcibili».

Mi chiedo quindi come mai si senta la necessità da parte della giurisprudenza di legittimità di diversificare ontologicamente le sofferenze e classificarle in due categorie.

Nel punto 8) del Decalogo, con particolare riferimento al danno alla salute, si distingue il danno biologico, comprensivo, come si legge al punto 6), anche del danno relazionale, dai pregiudizi autonomamente risarcibili che non hanno fondamento medico-legale perché non hanno base organica e sono estranei alla determinazione medico-legale in quanto rappresentati dalla sofferenza interiore.

Parallelamente però, anche per i danni diversi da quello alla salute, nei quali manca una base organica, al punto 10) del Decalogo si ripropone la differenza tra danno alla vita di relazione e sofferenza interiore.

Devo allora dedurne, anche in base alla descrizione esemplificativa che ne viene data sia in Cass. civ., n. 901/2018, (la sofferenza morale in tutti i suoi aspetti, quali il dolore, la vergogna, il rimorso, la disistima di sé, la malinconia, la tristezza) sia nel punto 8) del Decalogo (… il dolore dell'animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione), che la sofferenza interiore implichi una rappresentazione cosciente di un patimento non necessariamente o comunque immediatamente collegato al mutamento delle condizioni di vita.

In particolare: i mutamenti di vita conseguenti ad un danno alla salute

Sulla base di tali riflessioni, e nel tentativo di verifica della tenuta di un metodo di indagine che parte non da categorie logico-giuridiche, ma dall'osservazione empirica, ho cercato quindi di prendere come riferimento una fattispecie concreta frequente nella mia specifica esperienza professionale attuale, utilizzandola come modello addosso al quale provare a cucire queste nuove vesti di danno.

Nel caso di danni alla salute conseguenti a trasfusione di sangue infetto, l'epatite cronica da contagio di virus HBV o HCV viene valutata, sotto il profilo strettamente medico-legale, in diverse percentuali a seconda del grado di lesione alla funzionalità epatica.

Le sofferenze che conseguono all'epatite sono però spesso molteplici ed eterogenee tra loro. Nell'immagine mentale in cui le macerie metaforicamente si producono a seguito dell'onda d'urto cagionata da un evento traumatico, quelle di più immediata percezione sono i sintomi clinici della malattia, ed in particolare l'affaticamento dell'organismo, sofferenza istintiva legata alla riduzione della funzione epatica.

La percezione dei sintomi di una patologia crea a sua volta quasi sempre un peggioramento del tono dell'umore. Anzi per i casi di epatite mi è capitato spesso nel corso dell'istruttoria di sentire familiari e amici del malato riferire che questi, appena avuta la diagnosi della malattia, magari latente da anni, aveva accusato in maniera ancora più accentuata i sintomi di debolezza tipici della patologia.

L'astenia, oltre ad incidere negativamente sull'umore, si ripercuotersi in maniera diretta in tutti gli aspetti dinamico relazionali della persona - la quale viene ad avere una vita lavorativa più faticosa e meno energie da dedicare ai propri hobbies e alle relazioni sociali - e determina un peggioramento del suo benessere globale.

D'altronde la stessa depressione del tono dell'umore può riverberarsi in un atteggiamento apatico che comprime le potenzialità dinamico-relazionali della vittima.

Dal peggioramento degli aspetti dinamico-relazionali della vita di una persona possono a loro volta derivare sentimenti “interiori”, per richiamare la definizione data dalla Suprema Corte, negativi, quali la solitudine, la vergogna, la disistima.

La sofferenza interiore e i pregiudizi psicofisici si intrecciano e si influenzano tra di loro ed è quindi difficile procedere ad una valutazione, e ad una conseguente liquidazione, distinte.

Nei più recenti sviluppi della psicologia e della neurobiologia peraltro viene sottoposta a ripensamento la tradizionale distinzione tra gli elementi spirituali e quelli organici dell'individuo. Le sensazioni di tipo organico, le emozioni, i sentimenti divengono oggetto di una visione unitaria come aspetti omogenei, anche se corrispondenti a diversi livelli, della coscienza di sé. Illuminanti a tal proposito gli approdi degli studi del neurologo Antonio Damasio, tra i nomi di maggior rilievo nel panorama internazionale delle neuroscienze, secondo cui il sentimento è la rappresentazione astratta del proprio livello di benessere; emozione, sentimenti e coscienza sono inquadrati all'interno di una visione integrata del soggetto in un approccio che vede “il corpo come teatro della mente” (tra i suoi più recenti scritti, Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, Adelphi, 2012).

Per questo ritengo più che condivisibile la presa d'atto dell'Osservatorio di Milano, conseguente alle sentenze di San Martino del 2008, secondo cui quando c'è lesione biologica i pregiudizi conseguenti alla menomazione psicofisica – «il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare» e quello ravvisato nella pena e nel dolore conseguenti e cioè «nella sofferenza morale determinata dal non poter fare» - sono, in definitiva, due facce della stessa medaglia, essendo la sofferenza morale «componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale» (par. 4 del Focus- Time out … del 4 settembre 2018 di Damiano Spera).

Quello che credo che non si possa negare, in base all'osservazione dell'id quod plerumque accidit nelle esperienze concrete, è che alla riduzione della funzionalità dell'organismo si accompagna sia una contrazione della sfera dinamico relazionale dell'individuo sia una sofferenza, quanto meno peggioramento in termini di peggioramento dell'umore.

Le conseguenze dannose comuni e quelle peculiari

A volte insorgono sentimenti negativi che non dipendono dalla lesione, sebbene eventualmente occasionati dalla stessa, come ad esempio la paura del malato di epatite di contagiare i propri cari o la vergogna stessa di avere una malattia contagiosa che non sono sintomi della malattia ed hanno carattere del tutto eterogeneo rispetto a questa.

Più in generale dall'osservazione della fattispecie concreta possono emergere delle sofferenze del tutto peculiari che non sono eguali per tutti, delle “macerie” che si rinvengono più lontano rispetto all'epicentro dell'evento di danno e che dipendono da come questo si ripercuote sulla personalità e sullo stile di vita di un determinato individuo: una persona che pratica una attività lavorativa dinamica o hobbies solo di carattere sportivo vedrà peggiorare gravemente la propria situazione di vita e quindi soffrirà di più in conseguenza dell'epatite rispetto a quelle con abitudini di vita più sedentarie.

Una anchilosi del ginocchio e la patologia dell'epatite, in base ai barèmes medico legali più diffusi, sono valutate entrambe in una percentuale del 20-25%, poiché provocano solitamente un medesimo grado di afflizione e di limitazione delle attività quotidiane. Ma la vergogna della zoppìa, il timore di essere visto come un “handicappato”, sono sentimenti diversi dalla vergogna di avere una malattia potenzialmente contagiosa e si manifestano in maniera e con intensità estremamente diverse a seconda di una pluralità di fattori, quali l'età, il carattere, le relazioni sociali instaurate.

Sicuramente il possibile allontanamento della misura standard delle conseguenze dannose è maggiore quanto minore è la contiguità ed omogeneità di tali pregiudizi rispetto all'evento traumatico originario.

Finora ho applicato il sistema tabellare per la liquidazione del danno alla salute o per il danno da lesione del rapporto parentale per morte del congiunto modulando la personalizzazione in base alle specificità delle abitudini di vita e dell'indole del danneggiato. Mi chiedo che se tale metro di giudizio sia compatibile con il punto 7) del Decalogo dato che fa riferimento alla possibilità di personalizzare il risarcimento standard in aumento solo in presenza di «conseguenze dannose del tutto anomale ed affatto peculiari».

Direi di sì: nella stessa ordinanza Decalogo si legge che «Una lesione della salute può avere le conseguenze dannose più diverse, ma tutte inquadrabili teoricamente in due gruppi: - conseguenze necessariamente comuni a tutte le persone che dovessero patire quel particolare tipo di invalidità:- conseguenze peculiari del caso concreto, che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi consimili».

Riguardo alla nozione di sofferenza interiore, credo che l'esigenza che la Cassazione ha avvertito di enfatizzare una dicotomia rispetto agli aspetti dinamico relazionali derivi dal fatto che la sfera del sentimento, per la sua complessità ed astrattezza, tende maggiormente a sganciarsi dagli effetti standard di un determinato evento lesivo e pertanto deve essere indagata con maggiore attenzione, sulla base di tutti gli elementi concreti di valutazione che scaturiscono dal giudizio e dalle massime di esperienza, ma senza alcun automatismo risarcitorio.

La tenuta del sistema tabellare

Negare ogni automatismo risarcitorio non significa situare necessariamente la liquidazione della sofferenza interiore al di fuori dei criteri tabellari.

Tuttavia, nel caso esaminato in Cass. civ. n. 901/2018 di danno da riduzione della capacità procreativa, valutata secondo i barèmes medico legali nella misura del 8%, la lesione organica è solo l'occasione per il dipanarsi di una vasta gamma di sentimenti negativi legati alla perdita della realizzazione della genitorialità biologica, quali le eventuali ripercussioni sul rapporto coniugale, la crisi di identità sessuale, la ferita in termini di immagine sociale che devono essere presi in considerazione, se esistenti e provati, ai fini della possibile superamento dei massimi tabellari.

Il sistema tabellare comporta, unitamente al vantaggio della prevedibilità ed uniformità dell'entità del risarcimento, anche il contestuale limite dei vincoli connessi ad ogni forma di standardizzazione, ma non credo che questo costituisca una buona ragione per abbandonare le tabelle in uso, quanto piuttosto per utilizzare il range di personalizzazione tendendo verso i valori massimi ogni qual volta le conseguenze dannose siano connotate da peculiarità rispetto a quelle ordinarie, e per superare il massimo qualora siano del tutto eterogenee rispetto al tipo di evento dannoso.

D'altronde, anche nel risarcimento del danno da perdita parentale, la componente della sofferenza interiore non è distinta nettamente dalla componente relazionale ed entrambe sono ricomprese nel sistema tabellare, sebbene possa distinguersi il dolore propriamente arrecato dal lutto dalla perdita dell'apporto che il parente deceduto forniva alla componente dinamico relazionale della vita del prossimo congiunto danneggiato.

La tenuta del sistema tabellare mi sembra comunque confermata da una lettura complessiva della giurisprudenza della III sezione della Corte di Cassazione di quest'anno.

Così ad esempio in Cass. civ. n. 10912/2018 (est. Rossetti, il medesimo della ordinanza Decalogo), pure avente ad oggetto fattispecie di risarcimento del danno da perdita della capacità procreativa, sempre mediante una puntuazione di principi, si ritiene «opportuno ricordare alcuni principi basilari e fermi nella giurisprudenza di questa Corte, in tema di risarcimento del danno non patrimoniale.

Primo: il danno non patrimoniale è una categoria unitaria ed omnicomprensiva. (…) Il pregiudizio non patrimoniale causato da una lesione della salute può manifestarsi in modi diversi: può consistere nella forzosa rinuncia ad attività quotidiane; può consistere nel dolore fisico; può consistere nella sofferenza morale. Purtuttavia, quali che siano le forme di manifestazione dei pregiudizi non patrimoniali, essi hanno tutti identica natura. La natura omogenea dei pregiudizi non patrimoniali non vuol dire che, una volta trasformato in denaro il grado di invalidità permanente col sistema c.d. "a punto", la vittima abbia ottenuto tutto quel che le spetta: il valore monetario del punto di invalidità infatti è solo una misura standard, che lascia libero il giudice di apprezzare la sussistenza di particolarità del caso concreto, che ne giustifichino una variazione. D'altro canto, però, non è certo sufficiente chiamare pregiudizi identici con nomi diversi, per poterne predicare la contemporanea risarcibilità (ex multis, Sez. VI - III, ord. n. 8895 del 4.5.2016). (…) Secondo: non è consentito chiamare pregiudizi identici con nomi diversi, per pretenderne una doppia valutazione e liquidazione (…)».

Oppure in Cass. civ. n. 11754/2018 (est. Vincenti) si prende atto che nelle tabelle utilizzate dal giudice di merito è già compresa la componente della sofferenza soggettiva, già qualificata come “danno morale” e che, ai fini della personalizzazione del risarcimento, dato che le tabelle del danno alla salute sono comunque costruite sulla base dei barèmes medico legali e quindi sulle conesguenze standard, «… spetta al giudice far emergere e valorizzare (…) specifiche circostanze di fatto, peculiari al caso sottoposto ad esame, che valgano a superare le consguenze “ordinarie” già previste e compensate dalla liquidazione forettizzata assicurata dalle previsione tabellari; da quest'ultime distinguendosi siccome legate alla irripetibile singolarità dell'esperienza di vita individuale nella specie considerata, caratterizzata da aspetti legati alle dinamiche emotive della vita interiore o all'uso del corpo e alla valorizzazione dei relativi aspetti funzionali…».

Conclusioni

Il monito fondamentale che la III sezione civile della Cassazione rivolge al giudice del merito, nel momento in cui questi si accinge a liquidare un danno non patrimoniale, è di evitare di dare nomi diversi a pregiudizi identici, e di accertare in concreto il mutamento delle condizioni di vita della vittima, individuando le specifiche circostanze di fatto, ed in particolare, ma non solo, quelle relative alle dinamiche emotive, per verificare se il risarcimento in misura standardizzata fornito dal sistema tabellare sia idoneo a ricomprendere tutte le conseguenze dannose, sia quelle comuni che quelle peculiari.

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