Applicazione della Convenzione dell’Aja sulla sottrazione internazionale di minori in Giappone: problemi e prospettive

Giorgio Fabio Colombo
11 Febbraio 2019

Dopo molte reticenze, il Giappone ha finalmente ratificato la Convenzione dell'Aja sugli effetti civili della sottrazione internazionale di minori. Tale azione è stata salutata con grande favore dalla comunità internazionale; tuttavia, le aspettative relative al fatto che il Giappone potesse liberarsi della triste nomea di “Paradiso della sottrazione di minori” sono state parzialmente frustrate dalle prime applicazioni della Convenzione nel Paese. Permangono infatti ancora alcuni problemi sia strutturali, legati a peculiarità del diritto di famiglia giapponese, sia applicativi, generati dell'atteggiamento delle autorità locali nell'applicazione della normativa internazionale.
La ratifica della Convenzione dell'Aja da parte del Giappone

Il Giappone ha ratificato la Convenzione dell'Aja sugli effetti civili della sottrazione internazionale di minori (di seguito, per brevità la “Convenzione”) il 21 gennaio del 2014, e lo strumento è entrato in vigore per il paese il 1 aprile dello stesso anno: questa cronologia dà di per sé evidenza del clamoroso ritardo con cui il Giappone – ultimo tra le nazioni del G7 - è entrato nel novero dei paesi membri della Convenzione.

Le ragioni di questa reticenza a conformarsi agli standardinternazionali erano da riscontrarsi in una duplice categoria di obiezioni da parte di alcuni osservatori giapponesi: la prima di natura tecnica, la seconda di natura culturale. Per quanto attiene alla prima, veniva fatto notare che la Convenzione del 1980 era ormai divenuta uno strumento obsoleto per regolare un mondo sempre più internazionale; in base alla seconda, invece, le regole dell'Aja non erano adatte al contesto socioculturale giapponese, improntato alla stabilità e all'importanza dell'identità culturale. Entrambe queste critiche apparivano però poco fondate, se non addirittura strumentali.

Negli anni precedenti all'adozione della Convenzione il Giappone si era guadagnato la triste nomea di “Paradiso della sottrazione internazionale di minori” proprio per la facilità con cui era possibile, per un coniuge di una coppia internazionale, trasferirsi nel paese con i figli minorenni senza il consenso dell'altro coniuge, e per la sostanziale assenza di rimedi che l'ordinamento giapponese offriva al genitore pretermesso. A seguito di numerosi casi controversi, la pressione internazionale sul Giappone era gradualmente cresciuta, e questo senz'altro ha contribuito alla decisione del 2014.

L'entrata in vigore della Convenzione nel paese ha certamente concorso ad alleviare una situazione critica, ma non è stata la panacea di tutti i mali: permangono infatti alcuni nodi problematici che devono essere risolti, e la prassi dei primi anni di applicazione non è in grado di chiarire con nitore se e quando questo sarà possibile.

Problemi dell'ordinamento giapponese relativi all'affido dei minori

Per comprendere a fondo la situazione giapponese, occorre espandere leggermente l'area di attenzione, descrivendo alcuni aspetti che, sebbene non ricadano completamente nella sfera di applicazione della Convenzione, servono a descrivere le peculiarità del contesto locale: il lettore perdonerà questo compromesso tassonomico.

Anzitutto, in Giappone la stragrande maggioranza dei divorzi (circa il 90%) avviene tramite una semplice procedura presso il competente ufficio comunale, su base consensuale. Il che significa che lo Stato non esercita sostanzialmente alcun controllo sulla procedura divorzile, spesso anche in presenza di accordi riguardanti i figli minori: la conseguenza è che, dal punto di vista delle istituzioni, vi è la tendenza a considerare le questioni di famiglia come private, e dunque nelle quali un intervento delle autorità è, ove possibile, da evitare.

Il Giappone inoltre è uno dei pochissimi paesi in cui non esiste l'istituto dell'affidamento condiviso, e dunque in caso di divorzio il figlio minore sarà affidato esclusivamente all'uno o all'altro genitore. Il Paese si pone dunque in controtendenza rispetto alla situazione internazionale, che vede la bigenitorialità come soluzione preferibile in caso di divorzio dei genitori di un minorenne. Anche i tribunali giapponesi, ovviamente, pongono al centro delle loro decisioni il miglior interesse del minore, questo però viene identificato nella “stabilità”, ossia nell'essere affidato ad un solo genitore, vivere sempre nella stessa abitazione e condurre, per quanto possibile, la medesima routine giornaliera. Ciò ovviamente è incompatibile con un affidamento condiviso. Nella stessa ottica, il diritto di visita, pure previsto dall'art. 766 del codice civile, non è ritenuto un diritto di rango costituzionale: questo significa che il genitore non affidatario ha diritto a chiedere, ma non ad ottenere incontri con il figlio minore. Nella prassi, in quasi metà dei casi il genitore non affidatario ha diritto alla visita meno di una volta al mese, e solo nel 15% circa dei casi vi è una visita di più giorni consecutivi (con pernottamento presso il genitore non affidatario); in più dell'80% dei casi, i figli minorenni sono affidati alla madre, con scarsa attenzione alle condizioni psicologiche, economiche, sociali.

È probabilmente anche a causa delle summenzionate caratteristiche che il Giappone ha assunto un atteggiamento prudente verso l'applicazione della Convenzione, ponendo requisiti procedurali formali e informali che, secondo i critici, sono volti a “depotenziare” lo strumento: questa situazione ha fatto sì che, nel 2018, il Dipartimento di Stato degli USA abbia espresso disappunto per le esitazioni con cui il Giappone ha dato e sta dando esecuzione ai provvedimenti emessi ai sensi della Convenzione. In particolare, il report menziona alcuni aspetti problematici, quali il fatto che gli ordini di restituzione del minore vengano eseguiti presso il domicilio del genitore che ha effettuato la sottrazione, che l'esecuzione debba avvenire con il consenso del minore, sostanzialmente a prescindere dalla sua età, e che l'ordine possa avere esecuzione solo qualora esso non arrechi alcun pregiudizio psicologico al minore. In particolare questi ultimi due parametri paiono sovradimensionati rispetto ai requisiti imposti dalla Convenzione, la quale ovviamente tiene in considerazione sia l'opinione del minore sia il suo benessere psicologico, ma, in base all'art. 13, reputa rilevante solo l'opinione del minore che abbia «raggiunto un'età ed un grado di maturità tali che sia opportuno tenere conto del suo parere». Quanto ai rischi, essa limita questi aspetti al fatto che sussista «un fondato rischio, per il minore, di essere esposto, per il fatto del suo ritorno, ai pericoli fisici e psichici, o comunque di trovarsi in una situazione intollerabile». Vedremo a breve come in Giappone questi requisiti siano stati oggetto di varie declinazioni.

Casi paradigmatici

Le stringenti regole di applicazione poste in essere dal Giappone hanno generato una casistica variegata, che negli ultimi tempi pare essersi finalmente incanalata verso gli standard internazionali, ma che nei quattro anni di vigenza della Convenzione ha dato ben poche certezze agli operatori e agli interpreti, con decisioni contrastanti della stessa Corte Suprema del Giappone (organo che assomma le funzioni di terzo grado di giudizio e di ultimo decisore della costituzionalità di leggi e provvedimenti). Due casi in tal senso sono particolarmente interessanti.

Il primo, contestato ferocemente dagli osservatori internazionali e dalla stragrande maggioranza della dottrina giapponese, riguardava un caso di un cittadino americano la cui moglie giapponese, nel 2014, aveva trasferito i quattro figli minori nel paese con il pretesto di una vacanza della durata di un mese, salvo poi averli trattenuti in Giappone. Il genitore pretermesso aveva dunque avviato una procedura per ottenere il rientro dei minori negli Stati Uniti, in base alle regole della Convenzione. L'Alta Corte (o Corte d'Appello) di Osaka aveva, nel 2015, emesso il provvedimento che ordinava il trasferimento dei figli, e dunque il cittadino americano ne aveva l'esecuzione. La madre aveva però posto in essere una serie di tattiche dilatorie, incentrate sul fatto che i due figli maggiori (entrambi di 11 anni all'epoca dell'emissione dell'ordine) non volevano rientrare negli USA e rifiutandosi persino di fare incontrare i minori al padre. Dopo alcuni mesi, nel 2016, ella aveva avviato un'azione presso l'Alta Corte per ottenere la revisione dell'ordinanza: i giudici di Osaka le diedero ragione, sulla base del fatto che il padre non sembrava disporre delle risorse economiche necessarie al mantenimento dei figli. La decisione appare kafkiana poiché l'esaurimento delle finanze del genitore pretermesso era stato determinato proprio dai costi relativi al contenzioso per il ritorno dei figli da egli intentato, e dal fatto che aveva interrotto il proprio lavoro e si era trasferito in Giappone cercando – inutilmente – di poter ristabilire un contatto con la propria famiglia.

La decisione è stata criticata per numerose ragioni, la prima delle quali è che la Convenzione, all'art. 19, sancisce la separazione delle valutazioni relative alla custodia dei figli (quali le condizioni economiche dei genitori) rispetto a quelle relative al ritorno degli stessi nel paese di residenza abituale, che a stretto rigore dovrebbero essere solo quelle sancite dalla Convenzione stessa. Inoltre, la procedura ha mostrato con dolorosa evidenza alcune delle debolezze del diritto giapponese sopra menzionate: è infatti del tutto immaginabile che, in assenza di qualsivoglia contatto con il genitore pretermesso, i figli minori si trovino soggetti all'influenza di chi ha effettuato la sottrazione. Sarebbe dunque quantomeno ingenuo pensare che l'opinione dei minori, pur rilevante, non possa essere pesantemente condizionata da questa circostanza. È dunque con estremo disappunto della comunità internazionale e della dottrina che è stata accolta la decisione della Corte Suprema del 21 dicembre 2017 che ha confermato quanto determinato dai giudici di Osaka.

Nel 2018, tuttavia, sono intervenuti alcuni sviluppi che hanno dato un barlume di speranza ad una corretta e robusta applicazione della Convenzione in Giappone. La Corte Suprema si è infatti nuovamente pronunciata, esattamente per tentare di porre rimedio ad alcuni dei sovrammenzionati problemi.

Il caso riguardava una coppia di cittadini giapponesi residenti negli Stati Uniti: a causa di un deterioramento nei rapporti fra i coniugi, la moglie aveva deciso di trasferirsi in Giappone con il figlio minorenne, contro la volontà del marito. Questi aveva dunque avviato una procedura per il rientro del minore negli Stati Uniti, ottenendo dalla competente corte di Tokyo il relativo provvedimento. La madre, tuttavia, aveva opposto resistenza all'esecuzione, rifiutandosi di permettere l'accesso all'abitazione dove il figlio si trovava, di nuovo sulla base del presupposto che il minore non desiderava tornare nel paese di abituale residenza. In maniera non dissimile dal caso di Osaka sopra descritto, ella aveva poi intrapreso un'azione presso l'Alta Corte di Nagoya tesa a contrastare l'ordine di rientro emesso ai sensi della Convenzione, ottenendo un provvedimento favorevole. Questa volta però, la Corte Suprema del Giappone ha stabilito, con decisione del 15 marzo 2018, che nella valutazione bisogna sì tenere conto dell'opinione del minore in questione, ma anche del fatto che il genitore sottraente si trova nella posizione di influenzare pesantemente lo stesso: tale circostanza può equivalere a una coazione illecita.

Pare dunque che il supremo giudicante giapponese abbia esplicitamente accettato di affrontare alcuni problemi radicali che hanno attirato e tuttora polarizzano le critiche della comunità internazionale e degli studiosi.

Le prime applicazioni e la via verso il futuro

Il Ministero degli Affari Esteri del Giappone, “Autorità centrale” competente ai sensi della Convenzione nella sua divisione appositamente costituita, sta monitorando con attenzione la situazione del Paese e fornisce report e statistiche su base periodica. In base ai dati disponibili al 1 Dicembre 2018, l'Autorità ha ricevuto 193 richieste di intervento per ritorno di minori, delle quali 168 sono state prese in carico dalla stessa (l'Autorità è altresì competente a fornire assistenza per ristabilire i contatti fra un genitore e un minore, anche in assenza di una specifica richiesta di rientro: ai fini della presente analisi non mi occuperò di questi altri aspetti). Su base annuale, si può assistere a una lieve e progressiva decrescita nel numero delle domande di rientro: 44 nel 2014, 40 nel 2015, 40 nel 2016, 36 nel 2017, 33 nel 2018. Le procedure in questione hanno sia riguardato casi in cui veniva richiesto il rientro del minore dal Giappone (verso un paese straniero), sia in Giappone (da un paese straniero): nella prima categoria si possono contare 86 domande (di cui 15 pendenti), nella seconda 82 (di cui 26 pendenti). Le domande di ritorno dal Giappone sono state accolte in 37 casi; quelle in Giappone in 34.

I dati dipingono dunque un quadro in chiaroscuro. Da un lato, viene unanimamente riconosciuto che l'entrata in vigore della Convenzione e i recenti sviluppi nel paese sono da valutarsi positivamente (anche il pur critico rapporto del Dipartimento di Stato del 2017 riconosce gli indiscussi progressi fatti); dall'altro permangono incertezze, esitazioni, e problemi di difficile risoluzione.

In particolare, il Giappone presenta – come visto – una serie di questioni relative sia a elementi strutturali, sia a elementi applicativi del proprio diritto. Esempi della prima categoria sono la monogenitorialità e la mancanza di adeguati diritti di visita; della seconda, la reticenza nell'esecuzione di provvedimenti giudiziali in materia di diritto di famiglia.

Se oggi le sottrazioni internazionali possono dunque trovare, sia pure con fatica e con incertezza, una soluzione in base alla Convenzione, lo stesso non può dirsi delle sottrazioni domestiche, le quali rivelano con dolorosa evidenza l'insoddisfacente situazione dell'ordinamento giapponese al riguardo. Di recente si sono verificati svariati casi (alcuni dei quali riguardanti cittadini italiani) in cui coppie con figlie minori si sono trasferite in Giappone dal proprio paese di residenza abituale: dopodiché, il coniuge giapponese ha sottratto i figli e ne ha impedito i contatti con il genitore non giapponese. Poiché il presupposto oggettivo dell'applicazione della Convenzione è un trasferimento appunto internazionale, i rimedi convenzionali non sono fruibili in questi casi.

Chi si trova in tale situazione dunque, da un punto di vista tecnico dispone in sostanza del solo rimedio di avviare un'azione di divorzio in sede contenziosa, chiedendo, nel corso del procedimento, di ricevere l'affidamento dei figli. Questo però va valutato nell'ottica delle statitistiche menzionate in precedenza: se in più dell'80% dei casi i minori vengono affidati alla madre, con quale serenità potrebbe un padre a cui sono stati sottratti i figli avviare un'azione divorzile?

Il dibattito si sta dunque spostando, nel Paese, dalla questione della Convenzione dell'Aja del 1980 alla mancata applicazione della Convenzione internazionale sui diritti dell'infanzia del 1989, di cui il Giappone è parte dal 1994. Attivisti e studiosi sollecitano il paese ad abbandonare una serie di concezioni in controtendenza rispetto agli standard internazionali su cosa costituisca il benessere del minore, e a considerare il diritto a mantenere rapporti con entrambi i genitori (o addirittura a una completa bigenitorialità) non un diritto del genitore pretermesso, ma un diritto proprio del minore, che deve essere tutelato per assicurare una crescita serena. In questo senso si è espressa una storica démarche (protesta diplomatica) da parte degli ambasciatori europei (promossa dall'Italia) del 27 marzo 2018, formalmente inviata al Ministro della Giustizia del Giappone. Non si tratta però, si badi, di un solo movimento internazionale: la questione è stata infatti trattata più volte anche in sede parlamentare nazionale, su iniziativa di membri della Dieta che a loro volta si sono trovati nella condizione di essere genitore e cui è stato sottratto un figlio.

La situazione è dunque in costante evoluzione e l'auspicio è che il Giappone possa quanto prima liberarsi della infelice fama di “Paradiso della sottrazione dei minori”.

Guida all'approfondimento

D. Yokomizo, La Convention de La Haye sur les aspects civils de l'enlèvement d'enfants et le Japon, Revue critique de droit international privé, Vol. 101, No. 4 octobre-décembre, 2012, 799-813;

T. Nishioka, T. Tsujisaka, Introductory Note: Japan's Conclusion of the Hague Convention on the Civil Aspect of International Child Abduction, Japanese Yearbook of International Law, vol. 57, 2014, 7-23;

M. Murakami, Ko no kango o meguru kokusai funsō no tōitsu-teki shori: Ko no kango ni kansuru shinpan jiken no kokusai saiban kankatsu no kiritsu no arikata (kasugaichirō kyōju taishoku kinen-gō), Keiō Law Journal, n. 28, 2014, 353-380;

M. Murakami, A. Anzai, G. Uchida, Tetsudzuki kara mita ko no hikiwatashi - menkai kōryū, Tōkyō, Kōbundō, 2015;

B. Stark, Foreign Fathers, Japanese Mothers, and the Hague Abduction Convention: Spirited Away, North Carolina Journal of International Law, Vol. 41, Issue 4, Summer 2016, 761-792.

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