Gli interventi del d.l. sicurezza in tema di pericolosità sociale: “ci sarà pure un giudice a Berlino”

Ferdinando Brizzi
14 Febbraio 2019

Vale la pena scomodare il celebre mugnaio di Postdam per commentare alcune delle novità introdotte dal c.d. decreto sicurezza convertito in legge con modificazioni dall'art. 1, legge 1 dicembre 2018 n. 132. Tale provvedimento legislativo si è tradotto in un significativo allargamento del potere questorile di applicare misure di prevenzione c.d. “atipiche”, segnatamente il Daspo urbano e quello sportivo. Tuttavia l'esercizio di tale potere non ha, sin qui, dato buona prova di sé: assai frequentemente si è scontrato con la “cultura della giurisdizione” che non tollera semplificazioni e generalizzazioni.
Abstract

Vale la pena scomodare il celebre mugnaio di Postdam per commentare alcune delle novità introdotte dal c.d. decreto sicurezza convertito in legge con modificazioni dall'art. 1, legge 1 dicembre 2018 n. 132. Tale provvedimento legislativo si è tradotto in un significativo allargamento del potere questorile di applicare misure di prevenzione c.d. “atipiche”, segnatamente il Daspo urbano e quello sportivo. Tuttavia l'esercizio di tale potere non ha, sin qui, dato buona prova di sé: assai frequentemente si è scontrato con la “cultura della giurisdizione” che non tollera semplificazioni e generalizzazioni. I giudici, in particolare quelli di legittimità, sollecitati da acute difese, hanno arginato tale straripamento di poteri, ricordando che presupposto indefettibile per l'applicazione delle misure di prevenzione, siano esse “tipiche” che “atipiche”, è l'attuale pericolosità sociale del proposto, da accertarsi nel contraddittorio delle parti. Scopo di questo contributo è descrivere alcune di tali novità e verificare quale possa esserne la “tenuta” alla luce di alcuni recenti arresti della Corte di cassazione.

L'introduzione del Daspo urbano

Il Daspo urbano è stato introdotto, per la prima volta, con il decreto Minniti.

In quell'occasione, si è valutato che una delle cause del degrado ambientale delle città è rappresentato dall'abbandono di alcune aree, fondamentali per la soddisfazione delle esigenze dei cittadini, non solo di mobilità ma anche di fruizione in senso lato, abbandono dimostrato dall'occupazione di queste aree da parte di soggetti che vi stazionano, magari svolgendo attività abusive o moleste, accentuando il disagio e il senso di insicurezza della cittadinanza.

È proprio per contrastare tale occupazione che è stato introdotto, con il decreto Minniti, lo strumentario contenuto nell'articolo 9 del decreto legge n. 14 del 2017, convertito dalla legge n. 48 del 2017, contenente specifiche misure a tutela del decoro di determinate aree.

In primo luogo, la disposizione si applica a tutela delle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano.

Si consente così, al comma 1, il contrasto delle condotte di coloro che limitino la libera accessibilità e la fruizione delle predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti (tra le condotte contrastabili: quella di esercizio della prostituzione, la mendicità, l'occupazione degli spazi per bivaccare o dormire, ecc.).

Si consente altresì, al comma 2, il contrasto delle condotte di coloro che ivi vengano colti in stato di manifesta ubriachezza o a commettere atti contrari alla pubblica decenza, ovvero a svolgere attività di commercio abusivo, ovvero, ancora, di parcheggiatore o guardamacchina abusivo.

Al comma 3, ancora, la disciplina di contrasto viene estesa alle condotte suddette se e in quanto commesse su aree urbane su cui insistono scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, ovvero adibite a verde pubblico.

Con il cd. “decreto Salvini”, si interviene proprio sulla disciplina di contrasto dettagliata nel comma 3, estendendosi la disciplina di tutela ai presidi sanitari e alle aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli.

La sovrapposizione del Daspo sportivo alle misure di prevenzione

Non solo ma con il decreto sicurezza si è voluto estendere l'ambito applicativo del Daspo sportivo anche a talune ipotesi annoverate nel codice antimafia.

Utilizzando una tecnica di rinvio fisso, l'art. 22 va ad interpolare i primi due periodi dell'art. 6, comma primo, legge 13 dicembre 1989 n. 401, prevedendo che «il divieto di cui al presente comma può essere adottato anche nei confronti dei soggetti di cui all'articolo 4, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159», articolo così modificato dalla legge 17 ottobre 2017, n. 161 , contenente le modifiche al codice antimafia.

Con la nuova disciplina, dunque, potranno essere attinti dal Daspo anche gli indiziati di gravi delitti con finalità di terrorismo di cui all'art. 51, comma 3-quater, c.p.p.

Ma l'ambito di operatività della disciplina del Daspo sportivo viene ulteriormente ampliata con l'inserimento di soggetti, i quali, operando in gruppo o isolatamente, pongono in essere atti preparatori o esecutivi volti a sovvertire l'ordinamento dello Stato con la commissione di uno dei seguenti reati:

  • delitti contro l'incolumità pubblica di cui al Libro II, Titolo VI, capo I del codice penale;
  • insurrezione armata contro i poteri dello Stato (art. 284 c.p.);
  • devastazione, saccheggio e strage (art. 285 c.p.);
  • guerra civile (art. 286 c.p.);
  • banda armata (art. 306 c.p.);
  • epidemia (art. 438 c.p.);
  • avvelenamento di acque o di sostanza alimentari (art. 439 c.p.);
  • sequestro di persona semplice e a scopo di estorsione (artt. 605 e 630 c.p.)

Il terzo gruppo di soggetti destinatari del provvedimento questorile si riferisce a coloro che, operando in gruppo o isolatamente, pongono in essere atti preparatori o esecutivi con finalità di terrorismo anche internazionale.

Vi è, infine, un ulteriore gruppo di soggetti cui può essere comminata la misura amministrativa del Daspo: si tratta di coloro che, operando in gruppo o isolatamente, pongano in essere atti preparatori o esecutivi volti a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un'organizzazione che persegue le finalità di terrorismo di cui all'art. 270-sexies c.p.

In altre parole, quindi, quattro sono i gruppi di delitti per i quali sarà possibile procedere, oltre che con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con la comminatoria questorile del Daspo:

  • indiziati di gravi delitti con finalità di terrorismo di cui all'art. 51, comma 3 quater, c.p.p.;
  • soggetti che pongono in essere atti preparatori o esecutivi volti a sovvertire l'ordinamento dello Stato;
  • soggetti che pongono in essere atti preparatori o esecutivi volti alla commissione di reati con finalità di terrorismo anche internazionale;
  • soggetti che pongono in essere atti preparatori o esecutivi volti a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un'organizzazione che persegue le finalità di terrorismo di cui all'art. 270-sexies c.p.
La repressione dell'accattonaggio

Il legislatore, infine, ha aggiunto – in sede di conversione – due nuovi reati in materia di contrasto alle forme di accattonaggio.

In particolare, ha fatto ingresso nel codice penale – in ragione nell'introduzione nel decreto sicurezza dell'art. 21-quater – la fattispecie di reato di cui all'art. 669-bis c.p., che sanziona l'esercizio molesto dell'accattonaggio. In secondo luogo, grazie alla modifica apportata dall'art. 21-quinquies, è stata novellata la rubrica del delitto ex art. 600-octies c.p. (precedentemente Impiego di minori nell'accattonaggio), ora denominata Impiego di minori nell'accattonaggio. Organizzazione dell'accattonaggio, ed è stato aggiunto un nuovo comma, volto a sanzionare anche la condotta di colui che «organizzi l'altrui accattonaggio, se ne avvalga o comunque lo favorisca a fini di profitto».

Con la prima delle menzionate modifiche, si è voluto reintrodurre, all'art. 669-bis c.p., il reato di accattonaggio molesto, il quale punisce – con la pena dell'arresto da tre a sei mesi e con l'ammenda da euro 3.000 a euro 6.000 – chiunque esercita l'accattonaggio con modalità vessatorie o simulando deformità o malattie o attraverso il ricorso a mezzi fraudolenti per destare l'altrui pietà.

Non si tratta di una novità legislativa ma di una riproposizione del reato di c.d. mendicità invasiva, prima punita ai sensi dell'art. 670 c.p. (Mendicità). In particolare, quest'ultima fattispecie, abrogata dall'art. 18 della legge 205/1999, constatava di due distinte ipotesi criminose: la prima puniva, con la pena dell'arresto fino a tre mesi, “chiunque mendica in luogo pubblico o aperto al pubblico” (primo comma); la seconda sanzionava più gravemente, con l'arresto da uno a sei mesi, il fatto “commesso in modo ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperando altri mezzi fraudolenti per destare l'altrui pietà” (secondo comma).

Prima dell'abrogazione del reato, si era a lungo dubitato della costituzionalità dell'art. 670 c.p. Se, in un primo momento (sentenza n. 51/1959), la Corte Costituzionale aveva escluso l'illegittimità costituzionale della fattispecie, rilevando che “la libertà di prestare assistenza in forme private e ad iniziativa privata non comprende in alcun modo la libertà di accattonaggio”, in un secondo arresto (sentenza n. 102/1975) la Consulta andava a limitare sensibilmente la portata della norma incriminatrice, sostenendo la non punibilità ai sensi dell'art. 54 c.p. (“Stato di necessità”) di chi, debilitato e privo di coloro i quali, per legge, dovrebbero provvedere ai bisogni essenziali, si determini – per non aver potuto usufruire dell'assistenza pubblica, a cui pure avrebbe avuto diritto – alla mendicità.

Infine, con la sentenza n. 519/1995 la Corte Costituzionale giungeva a dichiarare costituzionalmente illegittimo il primo comma dell'art. 670 c.p., per contrasto con il principio di ragionevolezza.

Considerata la quasi perfetta sovrapposizione tra l'abrogata ipotesi di cui al comma secondo e il nuovo reato ex art. 669-bis c.p. (la prima, diversamente dalla seconda, puniva anche l'ipotesi di mendicità esercitata “in modo ripugnante”), appare utile tenere bene a mente l'insegnamento della Corte costituzionale. L'essere ridotti in stato di indigenza tale da chiedere aiuto alla collettività attraverso la richiesta di elemosina non possiede, di per sé, disvalore penale; di contro, l'accattonaggio assumerà rilevanza allorquando la richiesta di aiuto si manifesti con modalità tali da voler destare l'altrui pietà mediante la simulazione di uno stato di infermità, in verità non sussistente, o l'utilizzo di altri mezzi fraudolenti, ovvero arrecando disturbo o impiegando modalità invasive.

“Sconfitta della povertà” o sua criminalizzazione?

Per questi motivi, è proprio quest'ultima novità a destare le maggiori perplessità.

Per comprenderne appieno la portata occorre soffermarsi su una recente vicenda processuale portata all'attenzione del Supremo collegio.

Con sentenza in data 12 ottobre 2017, la Corte di appello di Salerno confermava la pronuncia del Tribunale con la quale l'imputato era stato riconosciuto colpevole del reato previsto dal d.lgs. 159 del 2011, art. 76, comma 3. La Corte territoriale aveva ricostruito la vicenda nei termini che seguono: il prevenuto, destinatario dell'ordine del Questore di rimpatriare con divieto di fare ritorno nel comune di Salerno, veniva sorpreso dal personale di polizia in due distinte occasioni nel territorio di detto ultimo comune, dove era dedito all'accattonaggio e al vagabondaggio.

Contro la sentenza veniva interposto ricorso per Cassazione.

Il ricorrente deduceva che il provvedimento di allontanamento dal comune con divieto di farvi rientro sarebbe stato illegittimo per violazione di legge e per eccesso di potere. Il provvedimento del Questore era contrario alla legge perchè nel suo corpo motivazionale faceva esclusivo riferimento ad episodi di accattonaggio molesto non più costituenti reato a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale della fattispecie incriminatrice prevista dall'art. 670 c.p., senza segnalare condotte illecite penalmente rilevanti così come richiesto dal d.lgs. 159 del 2011, art. 1 che al n. 3) che indica tra i soggetti cui possono essere applicati i provvedimenti di prevenzione «coloro che debbono ritenersi sulla base di elementi di fatto, essere dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo [...] la sicurezza o la tranquillità pubblica». Contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di appello, secondo la difesa dell'imputato, l'emanazione del foglio di via obbligatorio non era collegato a condotte, costituenti reato, in grado di mettere in pericolo la sicurezza e la tranquillità pubblica attraverso comportamenti reiterati.

Sosteneva, ancora, il ricorrente che il provvedimento questorile sarebbe stato affetto anche da eccesso di potere perchè il Questore di Salerno non aveva adempiuto all'obbligo di motivazione, limitandosi ad enunciazioni generiche senza compiere alcuna indagine sugli elementi che giustificassero l'adozione dell'atto e senza contestualizzare gli episodi di accattonaggio molesto o altri episodi specifici che comunque, stante l'incensuratezza dell'imputato, non avevano mai avuto rilevanza penale.

Il ricorso è stato accolto da Cass. pen., Sez. I, 5 dicembre 2018, n. 2365, che, pur avendo rilevato la prescrizione del reato per intervenuta prescrizione, ha significativamente annullato la sentenza perché il fatto non sussiste.

II provvedimento del Questore di Salerno è stato ritenuto illegittimo per violazione di legge e per eccesso di potere sotto il profilo della carenza di motivazione e, di conseguenza, disapplicato.

La sentenza richiama il consolidato orientamento giurisprudenziale: solo il provvedimento di rimpatrio emesso dal questore privo di motivazione o insufficientemente motivato può essere disapplicato dal giudice penale; questi, pur dovendo procedere alla verifica della conformità del provvedimento alle prescrizioni di legge – tra le quali rientra l'obbligo di motivazione sugli elementi da cui viene desunto il giudizio di pericolosità – non può mai «sostituire la propria valutazione al giudizio di pericolosità espresso dal Questore; diversamente, in tal modo, eserciterebbe un inammissibile sindacato giurisdizionale di merito sull'atto amministrativo, mentre gli è consentito soltanto un sindacato di legittimità, consistente nella verifica della conformità del provvedimento alle prescrizioni di legge, tra le quali rientra l'obbligo di motivazione sugli elementi da cui viene desunto il giudizio di pericolosità» (Sez. I, n. 44221 del 17 settembre 2014). Ciò significa che il provvedimento questorile, pur costituendo manifestazione della più ampia discrezionalità amministrativa in quanto tipico atto con finalità preventiva basato su un giudizio prognostico di pericolosità sociale, deve fare riferimento agli elementi di fatto sui quali si basa il giudizio di appartenenza del prevenuto a una delle categorie indicate nel d.lgs. 159 del 2011, art. 1 e indicare i motivi che inducono a ritenerlo socialmente pericoloso attraverso l'indicazione di concreti comportamenti del soggetto.

La motivazione del provvedimento che ha ordinato il rimpatrio dell'imputato è stato ritenuto ictu oculi difforme dal modello legale. Nel provvedimento in esame, infatti, il Questore di Salerno ha individuato, solo con espressioni generiche e prive di riferimenti a fatti concreti («bivaccava insieme con altri connazionali [...] destinatario di verbali per accattonaggio molesto [...] frequenti litigi con gli avventori»), le modalità delle condotte, per di più prive di rilevanza penale, che ha posto a fondamento del giudizio di pericolosità sociale ed in particolare del turbamento della “tranquillità pubblica”.

Gli elementi che avrebbero suffragato l'appartenenza del ricorrente alla categoria delle persone che sono da considerarsi “pericolose per la tranquillità pubblica”, sono stati, quindi, costituiti, in via esclusiva, da condotte dell'imputato, quali quelle di accattonaggio accompagnato da non meglio specificati atti di molestia, non più costituenti reato in sè e quindi da sole non sufficienti a fondare il giudizio di pericolosità attuale ai fini dell'applicazione delle misure di prevenzione personali, stante il chiaro disposto del d.lgs. 159 del 2011, art. 1, lett. c) che indica tra i destinatari di queste ultime “coloro che per il loro comportamento debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto... che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo... la tranquillità pubblica”.

Ne è conseguito l'annullamento della sentenza perchè il fatto non sussiste.

Dalla mendicità al “carrellismo abusivo”

Questa sentenza segue ad altra, di poco precedente, Cass. pen., Sez. I, 2 maggio 2018, n. 46124 che ha annullato, anche in questo caso perché il fatto non sussiste, la sentenza n. 333/2017 della Corte d'appello di Milano dell'11 luglio 2017, su conforme richiesta del procuratore generale presso la Cassazione.

Con la sentenza annullata la Corte di appello di Milano aveva confermato la sentenza del Gup del tribunale di Busto Arsizio del 14 aprile 2016, emessa all'esito di giudizio abbreviato, con la quale il prevenuto era stato condannato alla pena complessiva di giorni sedici di arresto per i reati di cui all'art. 81 c.p. e d.lgs. 159 del 2011, art. 76 (inosservanza al foglio di via per violazione al divieto di fare rientro nel Comune di Fermo per anni tre senza preventiva autorizzazione). La Corte di appello aveva ritenuto la legittimità del provvedimento del Questore, in quanto emesso in presenza dei presupposti di legge, e aveva escluso la possibilità di sindacare l'opportunità della sua adozione. Aveva dato atto, infine, dei precedenti penali dell'imputato e della natura illecita dell'attività di “carrellaggio” abusivo da lui esercitata.

La difesa del ricorrente ha lamentato l'illegittimo inserimento dell'imputato in una delle categorie soggettive previste dal d.lgs. 159 del 2011; sicchè il decreto del Questore, in quanto affetto da vizio di legittimità, avrebbe dovuto essere disapplicato dal giudice.

I giudici di legittimità hanno ricordato che per quanto concerne, specificamente, la contravvenzione contestata, il giudice penale è chiamato verificare la legittimità della motivazione del provvedimento di rimpatrio in ordine sia agli elementi di fatto, sui quali si basa il giudizio di appartenenza del prevenuto ad una delle categorie indicate dall'art. 1 della legge citata, sia ai motivi che inducono a ritenerlo socialmente pericoloso (Sez. I, n. 43031 del 9 ottobre 2012, Picano, resa in una relazione alla fattispecie di cui alla l. 1423 del 1956, art. 2, la cui struttura è rimasta sostanzialmente inalterata dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 159 del 2011, che, come noto, ha abrogato la risalente disciplina del 1956). Infatti, la fattispecie contemplata dal d.lgs. 159 del 2011, art. 2, rubricato “foglio di via obbligatorio”, stabilisce che “qualora le persone indicate nell'art. 1 siano pericolose per la sicurezza pubblica e si trovino fuori dei luoghi di residenza, il questore può rimandarvele con provvedimento motivato e con foglio di via obbligatorio, inibendo loro di ritornare, senza preventiva autorizzazione ovvero per un periodo non superiore a tre anni, nel comune dal quale sono allontanate”. Dunque, il giudice penale è chiamato a svolgere una duplice verifica: da un lato, quella relativa alla riconducibilità dell'imputato a una delle categorie ricomprese nell'art. 1 del citato decreto legislativo e, dall'altro lato, quella relativa alla possibilità che il soggetto, così qualificato, debba essere considerato “pericoloso per la sicurezza pubblica” e se si trovi “fuori dei luoghi di residenza”.

Appare rilevante quanto osservano i giudici di legittimità: Già la formulazione testuale dell'enunciato normativo suggerisce all'interprete estrema cautela, richiedendo il necessario collegamento con “comportamenti” e “elementi di fatto”, onde evitare pericolosi slittamenti verso il c.d. “tipo d'autore”.

Tale riferimento, se per un verso impone il necessario ancoraggio a circostanze oggettive, onde evitare pericolosi soggettivismi nella interpretazione di fatti e accadimenti, per altro verso consente di ritenere certamente integrato il relativo requisito in presenza di fatti di reato debitamente accertati all'esito di un procedimento penale. Questo, tuttavia, non è ancora sufficiente, atteso che la norma in esame richiede un requisito ulteriore, costituito dall'essere il soggetto “dedito” alla commissione non di un qualunque reato, quanto piuttosto di reati “che offendono o mettono in pericolo l'integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità pubblica”. Ne consegue che, secondo il significato proprio delle parole che compongono il relativo enunciato normativo, il soggetto, in quanto dedito alla commissione di reati, deve essere solito, con frequenza o assiduità, violare la legge penale, non essendo sufficiente la realizzazione di sporadiche – o comunque distanziate nel tempo – condotte di inosservanza della legge penale. Violazioni che, in ogni caso, debbono essere connotate o dalla particolare qualità soggettiva delle persone offese, o dallo specifico bene giuridico vulnerato.

Fatta questa premessa, la Cassazione ha ritenuto che la motivazione delle sentenze di merito relativa al profilo concernente la riconducibilità dell'imputato ad una delle categorie soggettive contemplate dall'art. 1) fosse sostanzialmente “apparente”, in quanto, nel valutare i concreti “elementi di fatto” suscettibili di fondare l'affermazione secondo cui il prevenuto fosse “dedito” alla commissione di reati, hanno considerato circostanze non significative sul piano della specifica prognosi criminale imposta dal d.lgs. 159 del 2011, art. 1, comma 1, lett. c)).

Tali considerazioni hanno riguardato, in primo luogo, le non meglio specificata attività di “carrellismo abusivo”, che, rilevano i giudici di legittimità, presumibilmente dovrebbe consistere “nell'aggirarsi per l'aeroporto alla ricerca di viaggiatori da circuire per portargli il carrello e farsi dare una mancia non dovuta”; condotta, quest'ultima, che consisterebbe, senza che la sentenza abbia spiegato le ragioni di una siffatta qualificazione, in una "specie di truffa ai danni dei viaggiatori". Ma anche il riferimento al fatto che la predetta attività sia caratterizzata dal rivolgersi alla clientela con “modalità insistenti”, sì da recare “intralcio alla tranquillità pubblica”, secondo la sentenza in commento, appare il frutto di una ricostruzione non agganciata ad alcun concreto dato processuale, e inidonea a fondare alcuna prognosi in ordine alla futura commissione di condotte di rilevanza penale, non potendo del resto accreditarsi, sul piano logico, alcuna necessaria interdipendenza tra reati, peraltro specificamente qualificati, e condizione di marginalità socio-lavorativa (Sez. I, n. 11606 del 5 dicembre 2017, non massimata - pronunzia relativa al medesimo ricorrente per un'imputazione analoga).

Il monito dei giudici di legittimità

Le due pronunce del Supremo collegio sopra citate, sia pur pronunciate con riferimento al “foglio di via obbligatorio” disposto dal Questore, lasciano presagire una “vita dura” per le novità legislative sopra esposte, contenute nel c.d. decreto Salvini.

Molto chiaro è il monito del massimo organo nomofilattico: pur nel rispetto delle sfere di competenza, i giudici possono, e devono, disapplicare i provvedimenti dell'autorità amministrativa laddove essi presentino carenze normative anche sub specie di difetto di motivazione.

Si tratta per altro di monito rivolto agli stessi giudici di merito, chiamati a valutare “a cascata” i provvedimenti adottati dai questori, per le loro ricadute penali.

Non solo la Cassazione penale ha scelto questa via di particolare rigore, ma anche quella civile, in una vicenda che in questa sede merita di essere ricordata.

I fatti all'origine del ricorso riguardavano un cittadino ceceno, al quale la Commissione Nazionale per il diritto d'asilo aveva revocato la protezione sussidiaria precedentemente riconosciuta, avendo ravvisato fondati motivi per ritenere che costituisse un pericolo per la sicurezza dello Stato. A seguito della revoca del titolo di soggiorno veniva disposta l'espulsione del ricorrente ai sensi dell'art. 13, comma 2, lett. c) del d.lgs. 286/1998, preceduta dal trattenimento – regolarmente convalidato dal competente Giudice di pace – presso il CPR.

Avverso il provvedimento espulsivo, il ricorrente presentava alla Corte europea dei diritti dell'uomo domanda di misura provvisoria ai sensi dell'art. 39 del Regolamento della Corte, al fine di sospendere l'esecuzione del rimpatrio.

La Corte EDU, accolta la richiesta, ordinava al Governo italiano di non eseguire l'espulsione del cittadino ceceno e la Sezione specializzata del Tribunale di Torino sospendeva l'efficacia esecutiva del decreto di revoca della protezione sussidiaria.

Nel frattempo il Tribunale di Torino accoglieva la domanda di riesame della misura e il trattenimento del cittadino ceceno presso CPR veniva così annullato; al suo posto, però, il questore di Torino disponeva l'applicazione di misure alternative al trattenimento ex art. 14, comma 1-bis, T.U. immigrazione.

Tali misure alternative venivano prontamente convalidate dal Tribunale di Torino il quale motivava la propria decisione affermando che la sospensione dell'efficacia del provvedimento di revoca della protezione sussidiaria non fosse idonea a determinare l'inesistenza del provvedimento espulsivo, potendo, quindi, essere legittimamente disposte le misure alternative, di per se stesse non contrastanti con il principio di non refoulement.

Adito nuovamente dal difensore del cittadino ceceno, il Tribunale di Torino, rigettava l'istanza di revoca di tali misure proposta in seguito alla loro convalida. In questo caso il Tribunale argomentava circa la legittimità del proprio provvedimento ritenendo lo stesso giustificato da “esigenze primarie di pubblica sicurezza” (a prescindere dalla loro finalizzazione a una successiva espulsione) e non ravvisando alcuna incompatibilità tra il provvedimento di espulsione amministrativa e la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, essendo, anzi, ad entrambe comune la finalità di pubblica sicurezza.

Avverso tale decisione venivano esperiti due ricorsi in Cassazione, volti nella sostanza a fare emergere la duplice violazione dell'art. 14, commi 1 e 1-bis del d.lgs. 286/1998. Con la pronuncia qui in esame, la Suprema Corte ha riunito ed accolto i ricorsi.

Con sentenza Cass. civ., Sez. I, sent. 27 giugno 2018 (dep. 30 ottobre 2018), n. 27692, è stato dichiarato illegittimo il provvedimento del Tribunale di Torino che aveva convalidato le misure coercitive alternative al trattenimento in un Centro di permanenza per il rimpatrio (CPR), disposte dal questore ai sensi dell'art. 14, comma 1-bis, del Testo Unico immigrazione nei confronti di un cittadino straniero in funzione di prevenzione e tutela della pubblica sicurezza.

Per la Cassazione, “non può essere convalidato in sede giurisdizionale un provvedimento limitativo della libertà personale fuori del paradigma legale dei requisiti specifici che ne giustificano l'adozione, in funzione di un'esigenza immanente di prevenzione sicurezza”.

Da qui l'illegittimità della convalida di un provvedimento limitativo della libertà personale – quale quello disposto ex art. 14, comma 1-bis, T.U. Imm. – adottato non solo senza rispetto dei requisiti specifici che ne giustificano l'adozione, ma altresì al fine di rispondere a un'esigenza allo stesso estranea, quale la prevenzione e la pubblica sicurezza.

Questa finalità – pur di per sé legittima – deve essere infatti attuata mediante le apposite misure di prevenzione personali previste dall'art. 6 del d.lgs. 159/2011 che, tuttavia, pur potendo avere un contenuto analogo alle misure del 14, comma 1-bis, rientrano nella competenza del giudice penale, che ne può a sua volta disporre l'applicazione solo all'esito di un procedimento nel contraddittorio delle parti volto ad accertare la sussistenza degli specifici requisiti contenuti nell'art. 1 del medesimo decreto legislativo. Ricorda, infatti, la Suprema Corte che “l'astratta compatibilità di tali ultime misure con l'espulsione amministrativa non elimina l'esigenza che sia integralmente rispettato, sia sotto il profilo dell'autorità giurisdizionale competente, sia sotto il profilo delle garanzie processuali, sia in particolare sotto il profilo del rispetto dei requisiti specifici previsti dalla legge, il principio di legalità che ne giustifica la legittima imposizione”.

Pericolosità sociale: l'attualità

Appare alquanto significativo che i giudici della Cassazione civile abbiamo ricordato che la pericolosità sociale deve essere accertata nel contraddittorio delle parti nell'apposita sede del giudizio di prevenzione: si tratta di un importante riconoscimento della giurisdizionalizzazione di tale procedimento.

Non a caso, proprio la giurisprudenza formatasi a riguardo della pericolosità sociale in ambito “di prevenzione” viene ora “esportata” anche in altre branche del diritto.

Prova di tale assunto si rinviene nel dictum che si può rinvenire in Cassazione penale, Sez. I, 13 luglio 2018, n. 2121: nell'ipotesi prevista dall'art. 417 c.p. (in base al quale, in caso di condanna per il delitto di associazione di stampo mafioso, è “sempre” ordinata una misura di sicurezza), l'applicazione in concreto di una misura di sicurezza diversa dalla confisca presuppone in ogni caso l'accertamento di un'attuale pericolosità del condannato ai sensi dell'art. 203 c.p., la quale deve essere desunta dalle circostanze indicate nell'art. 133 c.p., globalmente considerate, tenendo conto, quindi, non solo della gravità dei reati commessi, ma anche dei fatti successivi e del comportamento osservato dal condannato durante e dopo l'espiazione della pena.

Nell'affermare tale principio, il collegio si è posto in consapevole contrasto con altro orientamento giurisprudenziale secondo cui, nel caso di condanna per il reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, l'applicazione della misura di sicurezza prevista dall'art. 417 c.p. non richiederebbe l'accertamento in concreto della pericolosità del soggetto, dovendosi ritenere operante, una presunzione semplice, desunta dalle caratteristiche del sodalizio criminoso e dalla persistenza nel tempo del vincolo criminale (si veda, in tal senso, Cass. pen. Sez. VI, 21 novembre 2017, n. 2025). Tale ultimo orientamento – si legge nella decisione – non appare condivisibile, «in quanto non conforme ai principi generali scolpiti in materia di misure di sicurezza personali, chiaramente enunciati negli artt. 203 c.p. e 679 c.p.p., nonché desumibili dall'intervenuta abrogazione dell'art. 204 c.p., che parlava dì “pericolosità sociale presunta” (abrogazione disposta dall'art. 31 della l. 10 ottobre 1986, n. 663, recante modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà, il quale al secondo comma stabilisce che tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che chi ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa), dall'art. 207 c.p., che prevede la revoca della misura al venir meno della pericolosità sociale del sottoposto e dall'art. 208 c.p., che prevede il riesame della pericolosità, decorso il periodo minimo di durata della misura applicata». Inoltre – conclude la Cassazione – «non può trascurarsi la maggiore coerenza della linea ermeneutica che qui si sostiene con l'evoluzione giurisprudenziale sviluppatasi nella materia affine delle misure di prevenzione, che ha recentemente condotto le Sezioni Unite di questa Corte a stabilire come anche nei confronti degli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso sia necessario accertare il requisito della “attualità” della pericolosità del proposto (Sez. unite, n. 111 del 30 novembre 2017, Gattuso)».

In conclusione

La Corte di cassazione, tanto civile quanto penale, con le pronunce in commento, ha dimostrato che con libertà personale “non si scherza”: è un bene troppo prezioso per essere rimesso alla discrezionalità dell'autorità amministrativa.

E sollecita, in tal senso, anche i giudici di merito ad esercitare il potere di disapplicazione di atti amministrativi privi dei necessari requisiti motivazionali e di legalità.

Appare rilevante che sia proprio la giurisprudenza formatasi in tema di misure di prevenzione, spesso criticata per l'eccessiva discrezionalità, ad indicare la via del rispetto “delle regole”.

Proprio in tema di misure di prevenzione, la stessa giurisprudenza di merito ha mostrato di essere un'“avanguardia”, vero e proprio presidio di legalità.

Si segnala in tal senso Trib. Napoli, Sez. misure di prevenzione, ord. 17 aprile 2018, intervenuta in maniera innovativa sulla questione dell'applicabilità della sorveglianza speciale rispetto a soggetto nei confronti del quale sia in corso di esecuzione una pena detentiva di lunga durata. La pronuncia ha preso spunto dalle recenti evoluzioni della disciplina delle misure di prevenzione per giungere alla conclusione dell'esigenza di accertare l'attualità della pericolosità del prevenuto. Ad avviso del Tribunale di Napoli, tale evoluzione della disciplina finisce per incidere già sul giudizio di applicazione della misura di prevenzione personale. Si osserva che, infatti, in caso di pena detentiva da scontare superiore a due anni, la valutazione di pericolosità sociale risulterebbe inutilmente data («tamquam non esset») dovendo essere di fatto ripetuta successivamente alla scarcerazione, il che risulterebbe contraddittorio con l'esigenza di accertare l'attualità della pericolosità del prevenuto. Ancora, si sottolinea come in tale ipotesi oggi si verificherebbe comunque quella soluzione di continuità che le Sezioni Unite avevano indicato come eventualità da scongiurare, venendosi infatti in ogni caso a creare un intervallo temporale in cui la misura rimane sospesa in attesa della rivalutazione della pericolosità. Per tali ragioni, il Tribunale di Napoli ha dichiarato inammissibile la proposta di applicazione della misura di prevenzione personale avanzata dal Pubblico Ministero, il quale peraltro nell'udienza camerale aveva concluso nello stesso senso richiamando la categoria processuale della mancanza di interesse ad agire.

Si può concludere affermando che ove il mugnaio di Postdam andasse alla ricerca dell'anelato “giudice” in Italia potrebbe rasserenarsi: la cultura della giurisdizione è tale e tanto diffusa da non temere rischi di pericolose ingerenze dell'autorità amministrativa.

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