I danni non patrimoniali derivanti dalla violazione degli obblighi informativi nel trattamento sanitario

15 Febbraio 2019

La mancanza del consenso da parte del paziente, il quale non sia stato correttamente informato con riguardo al trattamento sanitario, determina la responsabilità del medico in relazione, da un lato, alla lesione alla salute correlata alle complicanze prevedibili e non evitabili del trattamento, e, dall'altro lato, alla violazione dell'autodeterminazione del paziente. Particolarmente discussa appare l'individuazione dei pregiudizi non patrimoniali legati a quest'ultima lesione, nonché la relativa quantificazione.
La violazione degli obblighi informativi nei confronti del paziente

In materia di trattamento sanitario è previsto, quale principio fondamentale, che il paziente debba esprimere il proprio consenso informato. Sussiste, infatti, in capo al medico uno specifico obbligo di carattere informativo, essendo egli tenuto a fornire tutte le nozioni ed indicazioni che si rendano necessarie affinché il paziente possa manifestare con piena cognizione di causa la propria volontà di sottoporsi ad una determinata terapia. Oggetto di tutela – come espressamente ribadito dalla recente l. 22 dicembre 2017, n. 219 - è la libertà di autodeterminazione della persona, il cui fondamento costituzionale va ravvisato, oltre che nelle generali previsioni di cui all'art. 2 Cost, - nell'art. 32 Cost. (in virtù del quale eventuali trattamenti sanitari obbligatori possono essere previsti soltanto a norma di legge e devono, in ogni caso, garantire il rispetto della persona umana) e all'art. 13 Cost. (che garantisce l'inviolabilità della libertà personale). A risultare violata, a fronte di qualunque carenza informativa, appare l'autodeterminazione del paziente, in quanto spetta esclusivamente a quest'ultimo operare una scelta tra le diverse possibilità di trattamento medico, nonché rifiutare la terapia o decidere di interromperla, in virtù del principio personalistico che anima la nostra Costituzione.

Nell'ipotesi in cui il medico non abbia fatto fronte ai suoi obblighi informativi, prende corpo un'ipotesi peculiare di responsabilità, la cui ricorrenza appare ravvisabile ogni volta che il trattamento figuri svolto in assenza di consenso informato. In tal caso, nessun rilievo assume la circostanza che il trattamento sanitario sia stato eseguito a regola d'arte, senza che emergano profili di negligenza, imprudenza o imperizia, in quanto il medico risulta responsabile per il fatto di non aver provveduto ad informare adeguatamente il paziente. La casistica che si prospetta appare varia ed è stata tratteggiata dalla Cassazione (da ultimo Cass. civ., ord. 15 giugno 2018, n. 15749 evidenziando le seguenti ipotesi:

«Anzitutto l'omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi nelle medesime condizioni, hic et nunc: in tal caso il risarcimento sarà limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente, morale e relazionale.

Inoltre, l'omessa/insufficiente informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento sarà esteso anche al danno da lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente.

Ed ancora, l'omessa informazione in relazione ad un intervento che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta non colposa del medico, a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi: in tal caso, il risarcimento, sarà liquidato con riferimento alla violazione del diritto alla autodeterminazione (sul piano puramente equitativo), mentre la lesione della salute - da considerarsi comunque in relazione causale con la condotta, poiché, in presenza di adeguata informazione, l'intervento non sarebbe stato eseguito - andrà valutata in relazione alla situazione differenziale tra quella conseguente all'intervento e quella (comunque patologica) antecedente ad esso.

Infine, l'omessa informazione in relazione ad un intervento correttamente eseguito che non ha cagionato danno alla salute del paziente (e che, di conseguenza, sia stato correttamente eseguito): in tal caso, la lesione del diritto all'autodeterminazione costituirà oggetto di danno risarcibile, sul piano puramente equitativo, tutte le volte che, e solo se, il paziente abbia subito le inaspettate conseguenze dell'intervento senza la necessaria e consapevole predisposizione ad affrontarle e ad accettarle, trovandosi invece del tutto impreparato di fronte ad esse».

In verità, tale elenco non appare esaustivo delle possibili eventualità. Basti pensare al caso di omessa/insufficiente informazione relativo a un trattamento non colposo del medico, che abbia provocato delle complicanze, ma al quale il paziente avrebbe deciso di sottoporsi comunque (ipotesi, questa, che si ritiene di dover disciplinare – sul piano risarcitorio – negli stessi termini indicati per l'ultimo dei casi elencati).

Da tale quadro emerge come la violazione delle regole sul consenso informato sia suscettibile di incidere negativamente lungo due distinti profili:

a) la lesione della salute, correlata alle eventuali complicanze del trattamento in ordine alla quali il paziente non sia stato preventivamente edotto;

b) la lesione dell'autodeterminazione del paziente.

Danno alla salute per complicanze prevedibili

In un primo tempo la giurisprudenza ha preso in considerazione la violazione degli obblighi informativi da parte del medico esclusivamente nel caso in cui la stessa si fosse riverberata in una compromissione della salute. Si tratta dell'ipotesi in cui – a fronte di un trattamento eseguito a regola d'arte – sia venuta a manifestarsi una complicanza, legata al concretizzarsi di un rischio prevedibile ma non evitabile.

La particolarità di tale situazione è legata al fatto che il pregiudizio alla salute – il quale non risulta essere legato ad alcun errore nel trattamento, di per sé impeccabile – è attratto nell'area della risarcibilità in ragione dell'avvenuta violazione dell'obbligo informativo. Va, tuttavia, evidenziato come la tutela risarcitoria appaia subordinata alla dimostrazione, da parte del paziente, che – ove messo a conoscenza del pericolo circa la manifestazione delle complicanze di cui è rimasto vittima – egli non avrebbe affrontato il trattamento, manifestando il proprio rifiuto. Solo a fronte di tale eventualità – sottolinea la giurisprudenza - il danno (biologico e morale) legato al peggioramento del stato di salute non si sarebbe manifestato; mentre il paziente si sarebbe ritrovato nella medesima situazione ove avesse assentito al trattamento.

La S.C. ha sottolineato (da ultimo, Cass. civ., ord. 31 gennaio 2018, n. 2369) che tale prova potrà essere fornita sulla base di presunzioni «la cui efficienza dimostrativa seguirà una sorta di ideale scala di proporzionalità inversa, a seconda della gravità delle condizioni di salute e della necessarietà dell'operazione».

La liquidazione del danno alla salute legato alla complicanza avviene secondo le regole generali applicate per questo tipo di pregiudizio; con la precisazione che la valutazione deve aver luogo, secondo quanto sottolineato anche di recente dalla S.C. (Cass. civ., ord. 4 maggio 2018, n. 10608), operando una comparazione tra la situazione in cui si trova il paziente a seguito dell'intervento con quella, comunque patologica, nella quale si sarebbe trovato in assenza dello stesso.

I pregiudizi derivanti dalla lesione della libertà di autodeterminazione

Mentre in passato l'area del danno risarcibile, in caso di violazione degli obblighi informativi da parte del medico, veniva circoscritta – nei termini in precedenza illustrati – al caso di complicanze del trattamento, in tempi più recenti è venuta emergendo la necessità di attribuire un'autonoma rilevanza risarcitoria alla lesione dell'autodeterminazione del paziente. Una volta individuato tale spazio di tutela, va sottolineato che lo stesso dovrà essere riconosciuto in ogni caso di violazione del consenso informato: vi siano state o meno complicanze, e – altresì – anche nelle ipotesi in cui il medico sia incorso, nel trattamento, in un errore colpevole (v., ad es., Cass. civ., 20 aprile 2010, n. 9315, relativa a un caso di emotrasfusione di sangue infetto). In generale, la rilevanza risarcitoria della lesione dell'autodeterminazione va riconosciuta - come ha avuto modo di sottolineare la S.C. (Cass. civ., ord. 15 maggio 2018, n. 11749) – a prescindere dalla dimostrazione che, in presenza di una corretta informazione, il paziente avrebbe rifiutato il trattamento.

Il punto fondamentale da sottolineare riguarda la necessità di applicare – anche in questo campo - il principio generale secondo cui, in materia di danno non patrimoniale, è sempre indispensabile distinguere la lesione del diritto dalle conseguenze pregiudizievoli da quest'ultima provocate. Non basta quindi, ai fini della tutela risarcitoria, accertare l'avvenuta violazione dell'autodeterminazione del paziente, ma occorre bensì che da tale evento lesivo sia scaturita una qualche compromissione nella sfera personale del paziente.

Sul piano della descrizione di questo profilo del pregiudizio, la difficoltà principale risiede proprio nella definizione di una linea di demarcazione precisa tra lesione e conseguenze dannose, di ordine non patrimoniale, ad essa correlate. Possiamo rammentare come la S.C. (Cass. civ., 12 giugno 2015, n. 12205) abbia sottolineato che l'assolvimento dell'obbligo informativo pone, in generale, il paziente nella condizione di poter scegliere tra le seguenti opzioni:

a) rifiutare l'intervento, rimanendo nelle condizioni ritenute pregiudizievoli dal medico, anche a rischio di perdere la vita;

b) rimandare l'intervento a un momento successivo;

c) effettuare l'intervento presso una diversa struttura sanitaria. Il danno-conseguenza consisterebbe perciò - secondo i giudici di legittimità - nella privazione della possibilità di poter optare tra queste differenti scelte.

È evidente, tuttavia, come un impedimento del genere rappresenta null'altro che una variante linguistica della lesione dell'autodeterminazione del paziente, e non è quindi suscettibile di incarnare un danno-conseguenza dalla stessa distinguibile. Una sostanziale sovrapposizione tra lesione e danno ha luogo, altresì, ove venga prospettato che il fatto di sottoporre una persona a trattamento sanitario non assentito possa rappresentare di per sé un'aggressione alla sua dignità (Cass. civ., 28 luglio 2011, n. 16543, secondo cui «a causa del totale deficit di informazione il paziente non è posto in condizione di assentire al trattamento, per cui nei suoi confronti, comunque, si consuma una lesione di quella dignità che connota i momenti cruciali della sua esistenza»).

Nel tentativo di attribuire una precisa identità alle compromissioni non patrimoniali scaturenti dalla lesione all'autodeterminazione, la S.C. (Cass. civ., 9 febbraio 2010, n. 2847) ha richiamato le conseguenze negative cui il paziente è andato incontro nella sfera personale, e che – se debitamente informato - avrebbe scelto di evitare anche a costo di affrontare compromissioni di altro genere. L'esempio è quello del testimone di Geova, il quale - messo di fronte alla scelta tra due interessi configgenti ad esso facenti capo – preferisca affrontare il rischio di morte piuttosto che subire una trasfusione di sangue contraria al suo credo religioso e tale da pregiudicare le sue possibilità di salvezza spirituale. Il discorso, posto su questo piano, appare complicato dal fatto che un pregiudizio del genere andrebbe collocato in una dimensione “differenziale” (come, si è detto in precedenza, i giudici di legittimità provvedono a fare per quanto concerne il danno alla salute legato alla complicanza). Si tratta, d'altro canto, di pregiudizi che possono essere risarciti proprio in quanto si prospetti che, ove correttamente informato, il paziente avrebbe rifiutato il trattamento.

Un distinto profilo di danno viene a corrispondere, secondo i giudici di legittimità (v., da ultimo, Cass. civ., 14 novembre 2017, n. 26827), alle ripercussioni di carattere morale consistenti nel turbamento e nella sofferenza determinati dal fatto di trovarsi in una situazione del tutto inaspettata. La S.C. ha sottolineato che la preventiva informazione avrebbe consentito di vivere il trattamento e le sue conseguenze, anche in termini di sofferenza, con una più serena predisposizione d'animo. A venire in evidenza sarebbe, pertanto, un turbamento emotivo legata all' “impreparazione” di fronte alla condizione determinata dal trattamento. Tale ipotesi non ricorre, necessariamente, soltanto nel caso in cui si sia verificata una complicanza, bensì anche per quelle che sono le conseguenze normali del trattamento, in quanto il paziente non sia stato reso edotto intorno alle stesse. Un pregiudizio del genere andrebbe risarcito comunque, anche laddove risulti che il paziente avrebbe comunque assentito al trattamento, in quanto lo stato d'animo negativo è legato esclusivamente all'effetto sorpresa, tanto più rilevante quanto più gravi si rivelino le conseguenze inattese.

Sempre nel tentativo di configurare uno specifico profilo di danno - legato alla lesione dell'autodeterminazione, ma da essa distinto - i giudici di legittimità fanno talvolta riferimento alla sofferenza e alla contrazione della libertà di disporre di sé stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente durante l'esecuzione dell'intervento e la convalescenza. La S.C. sottolinea che, in quanto conseguenza normale di ogni violazione delle regole sul consenso, questo pregiudizio non abbisogna di specifica prova e andrà comunque risarcito (Cass. civ., 15 maggio 2018, n. 11749, ord.). In ogni caso violazione degli obblighi informativi, ciò che accade è che il paziente diventa oggetto e non più soggetto del trattamento, in quanto è il medico a gestire il suo corpo. È, dunque, la sopportazione di un atto terapeutico non assentito a costituire il pregiudizio sempre ricorrente in caso di violazione delle regole sul consenso.

Oltre alle difficoltà che scaturiscono sul piano dell'esatta individuazione delle compromissioni scaturenti dalla lesione dell'autodeterminazione, un ulteriore ostacolo sul piano della tutela risarcitoria appare collegato al fatto che tali pregiudizi andrebbero comunque vagliati – secondo quanto segnalato, in varie occasioni, dalla Cassazione - alla luce della regola restrittiva secondo cui il danno non patrimoniale appare oggetto di tutela qualora «varchi la soglia della gravità dell'offesa secondo i canoni dettati dagli arresti del 2008 di questa Corte (Cass. Sez. U, Sentenze n. 26972 e n. 26975 del 11/11/2008), predicativi del principio per cui il diritto leso, per essere oggetto di tutela risarcitoria, deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento con il principio di solidarietà secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico». L'applicazione di una regola del genere comporta, a ben vedere, effetti piuttosto discutibili: bisogna, infatti, ipotizzare che il paziente sia chiamato a sopportare una certa quota di mancate informazioni, posto che sotto una certa soglia la lesione andrebbe qualificata come non grave, per cui il danno conseguente finirebbe per rimanere a carico del paziente.

Considerate tutte le criticità che, fino ad oggi, si incontrano sul piano di un'esatta individuazione del fenomeno dannoso indotto dalla lesione all'autodeterminazione, per quel che riguarda la relativa quantificazione i giudici si sono spesso rifugiati in una valutazione puramente equitativa (v., ad esempio, Trib. Venezia 4 ottobre 2004, «consapevole della mancanza di una scala parametrata su basi oggettive o che quantomeno siano in grado di tradurre in termini economici oggettivi il pregiudizio patito»).

In un'ottica volta a sottrarre la liquidazione alla pura discrezionalità giudiziale, la conversione in denaro, in alcuni casi, ha avuto luogo attraverso un rapporto con il danno alla salute per complicanze patito dal paziente: ora tramite una relazione costruita in termini di parametrazione percentuale rispetto al pregiudizio da invalidità permanente (Cass. civ., 8 maggio 2015, n. 9331), ora tramite un richiamo generico al tipo di intervento chirurgico e alle compromissioni indotte dallo stesso (Trib. Caltanissetta, 21 novembre 2016). Si tratta, peraltro, di un procedimento suscettibile di essere seguito esclusivamente nei casi in cui il trattamento abbia determinato delle complicanze, e che quindi non si presta a risolvere la determinazione del danno da lesione all'autodeterminazione laddove non sia insorto un peggioramento nella salute del paziente.

La costruzione di un sistema di liquidazione avente valenza generale richiede, anzi tutto, di stabilire con chiarezza quale sia il tipo di compromissione che si intende misurare in maniera standardizzata, in quanto ricorrente in tutti i casi. Come si evince dalle indicazioni della Cassazione, il danno andrebbe indentificato nella sopportazione di un atto terapeutico non assentito e nell'impreparazione del paziente a fronte del trattamento subito. Si tratterà, pertanto, di tener conto, da un lato, della quota di informazioni taciute (considerato che l'omissione può essere totale oppure parziale); dall'altro lato, bisognerà valutare il tipo di terapia, in termini di durata e invasività.

Come sempre accade, i criteri di quantificazione andranno applicati a un valore monetario di base, suscettibile di rappresentare riferimento condiviso a livello giurisprudenziale. Da questo punto di vista, possiamo rammentare gli studi effettuati dall'Osservatorio della Giustizia civile di Milano, con l'obiettivo di verificare la possibilità di elaborare criteri liquidatori uniformi anche per danni non patrimoniali diversi da quelli oggetto delle tabelle milanesi: i quali, per quanto riguarda questo specifico pregiudizio – pur avendo evidenziato valori di riferimento variabili tra un minimo di cinquemila euro e un massimo di diecimila – non sono ancora sfociati in una concreta proposta all'interno delle nuove tabelle del 2018.

In attesa che in futuro vengano elaborati, a livello giurisprudenziale, valori monetari di riferimento uniformi per quel che riguarda il pregiudizio standard fin qui descritto, resta da segnalare che – qualora allo stesso vengano a sommarsi ulteriori compromissioni (come, ad esempio, nel rammentato caso della trasfusione al testimone di Geova) – a queste ultime dovrà essere riconosciuto un peso liquidatorio aggiuntivo rispetto a quanto indicato nelle future tabelle.

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