La riforma della giustizia penale. Tempo di primi bilanci
18 Febbraio 2019
Abstract
La giustizia penale, il diritto penale, il processo penale continuano a essere al centro del dibattito politico e non solo. È ormai trascorso un anno e mezzo dall'entrata in vigore della c.d. Riforma Orlando; un anno circa dall'entrata in vigore dei decreti delegati che l'hanno completata. Non è ancora tempo di resoconti ma alcune osservazioni in ordine all'impatto delle più attese tra le nuove disposizioni possono aiutare a capire, considerato che proprio in questi giorni sta riaprendosi, in sordina, un cantiere per la riforma del codice di procedura penale e vi sono, in ogni caso, e non solo sul versante processuale, altre iniziative legislative alcune giunte in porto, altre in itinere, alle quali è bene far cenno.
La crisi (si perdoni l'eufemismo) del sistema processuale penale ha svilito i canoni costituzionali del giusto processo e della durata ragionevole del medesimo. Eppure, capita ogni giorno di confrontarsi con chi, in perfetta buona fede, sembra non rendersene conto. Sarà forse che è sufficiente che qualcosa vada per il verso giusto perché si perda di vista la situazione generale, perché la realtà appaia diversa da quella che è e si veda solo ciò che si vuole vedere e non quello che realmente si ha davanti agli occhi. Le ragioni della crisi sono molte e le statistiche nazionali contengono dati che è sufficiente interpretare con il buon senso, che è poi il senso della realtà. Qualche numero sulle notizie di reato
Il numero delle notizie di reato iscritte nei registri delle Procure è elevatissimo; a esso contribuiscono certamente sia il ricorso strumentale alla tutela penale da parte di chi ritiene inefficienti o insufficienti i rimedi civilistici per la tutela di asseriti diritti, sia le comunicazioni o informative “a scanso di equivoci” o “nel dubbio” che spesso vengono inoltrate più per scopi precauzionali che non per denunciare un fatto della cui rilevanza penale non si dubiti e che confermano che il faro del “dubbio ragionevole” non illumina (come invece dovrebbe) la fase iniziale delle indagini. Di fatto, comunque, a questo numero smisurato di notizie di reato le Procure non riescono a far fronte in modo adeguato. Lo dimostra il fatto che, come recentemente denunciato in sede di inaugurazione dell'anno giudiziario, circa il 70% delle prescrizioni dei reati è dichiarata dal Gip, matura quindi già nella fase delle indagini; lo conferma il fatto che almeno il 50% dei processi portati con decreto di citazione diretta a giudizio davanti al tribunale monocratico si conclude con sentenze di proscioglimento degli imputati (spesso perché manca alla base un'attività d'indagine sulla notizia di reato o un'accurata valutazione di quelle eventualmente svolte). A questo si aggiunga che, nella stragrande maggioranza dei procedimenti, le persone indagate, le loro difese non trovano spazi nella fase delle indagini preliminari e ormai neppure più li cercano; soprattutto dopo l'esito per esse fallimentare della creazione dell'avviso di conclusione delle indagini e dell'apertura di un'inagibile finestrella difensiva che serve solo per dare vita ad un simulacro di diritto. Eppure, le indagini continuano a essere percepite dai più (non addetti ai lavori), per effetto della canalizzazione mediatica, come il centro motore della giustizia penale, perché producono notizie, curiosità, pregiudizi (di colpevolezza) che alimentano le discussioni (si percepisce in netto aumento il numero delle persone che discutono di sistemi giudiziari senza mai essersi neppure avvicinati ad una cancelleria o ad un'aula giudiziaria) La scelta del rito alternativo
Un'altra delle ragioni della crisi si annida nei riti alternativi (giudizio abbreviato, patteggiamento, procedimento per decreto). Sono in tal senso significative le ultime statistiche della sezione Gip del tribunale di Milano. Ha definito più di 30.000 procedimenti: 21.000, quindi circa il 70%, sono stati archiviati, 4.500 sono stati chiusi in giudizio abbreviato o con sentenza di patteggiamento (circa il 15%), 1.200 sono stati definiti con decreto di condanna (il 4% circa), 3.700 (11%) sono stati chiusi con decreto di rinvio a giudizio, finendo davanti al giudice del dibattimento. Per essere, se necessario, più chiari, sui 9.400 processi non archiviati, patteggiamenti e abbreviati sono circa il 50%, i rinvii al dibattimento toccano quasi il 40% e i decreti di condanna sono intorno al 10%. I dati del tribunale monocratico sono ancora più negativi (43%: in numeri, su 12.800 definizioni, 2819 con patteggiamento, 2309 in giudizio abbreviato). Si può dire, senza timore di essere smentiti, che si è ormai assestata su livelli troppo bassi la percentuale delle definizioni con patteggiamento e giudizio abbreviato. Ne risente il funzionamento dell'intero sistema. Fin dall'apparire del nuovo codice di rito era opinione comune, derivata dall'esperienza di altri ordinamenti, che il successo del sistema sarebbe stato collegato alla capacità di evitare che esito abituale di ogni procedimento fosse il dibattimento, che prevedeva meccanismi di formazione della prova particolarmente garantiti e quindi non suscettibili di applicazione generalizzata, per evidenti ragioni di economia processuale. Dati ed esperienza devono, inoltre, far ritenere che il giudizio abbreviato abbia eroso parte dell'area del patteggiamento. Il patteggiamento si è trasformato nel rito di chi riesce a strappare pene “stracciate” con continuazioni fantasiose e infinitesimali; è il rito di chi ha bisogno di avere il giudicato in tempi brevi per sistemare questioni esecutivo-penitenziarie; è il rito di chi non può sopportare il peso del processo e preferisce poca pena subito, possibilmente sospesa. A questo si aggiunga che il patteggiamento c.d. allargato è nato asfittico e tale è rimasto. Il legislatore, introducendolo, ha peccato di un eccesso di ottimismo o, meglio, non ha mostrato di avere senso della realtà. Nella più rosea delle previsioni poteva prevedersi che si assistesse a un aumento delle richieste di patteggiamento, calibrate su pene superiori rispetto al passato, soltanto: da parte di quegli imputati che non temevano in maniera particolare i tempi di rapida formazione del giudicato immanenti al rito perché stavano già scontando lunghe pene detentive o perché altrimenti detenuti in via cautelare per reati con pene edittali assai elevate e in situazioni processuali che in concreto non lasciavano prevedere la possibilità di poter ragionevolmente lucrare, prima della condanna definitiva, lo spirare dei termini custodiali. Ancora: poteva ragionevolmente attendersi un incremento delle richieste di applicazione di pene detentive superiori ai due anni, ma comunque contenute entro i limiti di accesso ai benefici previsti dall'ordinamento penitenziario, ovvero di pene da calcolare in continuazione su quelle irrogate con precedenti patteggiamenti, che complessivamente considerate avessero determinato lo "sforamento" della barriera dei due anni. Ma, al di fuori di questi casi, non si vedeva per quale ragione l'imputato avrebbe dovuto chiedere l'applicazione di una anche consistente pena detentiva, che sarebbe stato in breve tempo chiamato a scontare, senza, tra l'altro, poter accedere agli altri benefici tradizionali del rito, riservati esclusivamente al patteggiamento "minor"; meglio a quel punto accedere al rito abbreviato. Purtroppo, in pochi anni la percentuale e il numero dei dibattimenti hanno superato ogni più nefasta previsione, determinando la dilatazione dei tempi processuali tanto temuta alla vigilia. Dal 2000 in poi si è cercato di trovare l'idea giusta per ridare vitalità al progetto originario. Il giudizio abbreviato ha cambiato volto: via il consenso del pubblico ministero, è diventato un diritto potestativo dell'imputato (in caso di richiesta incondizionata) la cui effettività avrebbe dovuto essere garantita dal dovere (del pubblico ministero) di completezza delle indagini, monitorato dal Gup munito dei poteri conferitigli dal nuovo art. 421-bis c.p.p. Si è scelta la strada di “strozzare” i tempi di accesso al rito, ma anche quella di aprire al recupero dello sconto di pena in caso di errori del giudice nei provvedimenti non ammissivi. Si è pensato che in tal modo si sarebbe posto rimedio alle non buone prassi di quei giudici che utilizzavano in modo disinvolto la clausola sulla decidibilità allo stato degli atti al fine di negare all'imputato l'accesso al rito. In realtà il problema era più profondo; riguardava i giudici ma non solo e, in ogni caso, in alcuni vi era difficoltà ad accettare il meccanismo premiale, con la conseguenza che spesso si era registrato, nella determinazione della pena sulla quale poi applicare la diminuzione prevista per il rito, un atteggiamento di inusitato rigore, finalizzato a “compensare” l'effetto della menzionata diminuente. È voce corrente nel Foro che la “resistenza” sia ancora in atto, al punto che qualche difensore teorizza che è molto più conveniente prestare il consenso all'acquisizione degli atti ai sensi dell'art. 493 c.p.p. davanti a un affaticato giudice monocratico che manifesterà la propria gratitudine proprio al momento di determinare la pena (cripto-abbreviato con circostanze attenuanti generiche in saldo). Esistevano (ed esistono) anche controspinte che non rendevano il rito del tutto gradito neppure agli imputati, come i poteri di integrazione probatoria del giudice a rito ammesso (art. 441, comma 5, c.p.p.) o la funzione sanante delle nullità non assolute o delle inutilizzabilità non patologiche della richiesta di giudizio abbreviato. Ma alla fine l'impressione è che oggi del giudizio abbreviato sia sopravvissuto solo l'aspetto premiale. La sua funzione deflativa si è, invece, avvicinata alla quota zero. L'imputato, anche se vede qualche trappola in questo rito, alla fine vi accede per lo sconto di pena o per evitare l'ergastolo. Ma il rito di “abbreviato” ha poco: dura nel tempo perché può comportare attività istruttoria, perché ospita l'azione civile del danneggiato dal reato (l'articolato della Commissione Canzio la escludeva, ripristinando la simmetria con la disciplina riservata al responsabile civile), perché la sentenza di primo grado è appellabile, perché quella d'appello è ricorribile e, quindi, può entrare nel gioco perverso della prescrizione che matura, soprattutto nelle Corti di merito con pendenze elevate, che faticano o non riescono a fissare i processi in tempi tali da evitarne la morte per decorso del tempo. A questo si aggiunga che – come si è detto – il giudizio abbreviato toglie spazio all'unico rito che ha in sé vere potenzialità deflative, il patteggiamento. Oggi, poi, il nuovo art. 603, comma 1-bis, c.p.p. impone, seppur in casi limitati (appello del pubblico ministero, per motivi «attinenti alla valutazione della prova dichiarativa», contro le sentenze di assoluzione), il rifacimento del giudizio d'appello con le regole del giudizio di primo grado anche se abbreviato. Si è passati dai “brevi” tempi d'oro dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento al rifacimento del giudizio d'appello con le regole del giudizio di primo grado anche se abbreviato (sul tema si tornerà più avanti). Si aggiunga che la Riforma Orlando non ha introdotto particolari novità in tema di patteggiamento e di giudizio abbreviato, in sostanza limitandosi a tradurre in disposizioni di legge linee interpretative giurisprudenziali consolidate o da consolidare appunto con l'intervento normativo. A parte il profilo relativo alla disciplina della questione di competenza nel giudizio abbreviato, l'unica vera novità è l'introduzione di uno sconto di pena della metà in caso di condanna per contravvenzione (art. 442, comma 2, c.p.p.). Ampliamento, peraltro, molto discutibile e che, con ogni probabilità, determinerà la definitiva scomparsa, con riferimento alle contravvenzioni, di ogni incentivazione ad avvalersi del patteggiamento (che prevede una diminuzione “fino al terzo”). Il legislatore avrebbe semmai dovuto andare nella direzione opposta, quella di un'espansione delle potenzialità del patteggiamento, soprattutto se si considera che la sentenza di patteggiamento è destinata a diventare esecutiva in tempi brevi (e, comunque, più brevi di quelli prevedibili per la sentenza di condanna emessa all'esito di giudizio abbreviato) e quindi a evitare il rischio di prescrizione del reato, che per le contravvenzioni è particolarmente alto (tempo massimo 5 anni compreso il prolungamento per gli atti interruttivi e senza possibilità di ulteriori aumenti legati alla recidiva che per le contravvenzioni non è prevista). Se a questo si aggiungono gli incentivi che il legislatore ha offerto nel procedimento per decreto, nella maggior parte dei casi destinato alle contravvenzioni, ci si rende conto che forse, a questo punto, per le contravvenzioni non è proprio più il caso di scomodare la giustizia penale e lo sparuto numero di giudici chiamato a occuparsene. Per incoraggiare l'utilizzo del procedimento per decreto il legislatore ha, invero, consentito al giudice, nel determinare la pena pecuniaria in sostituzione di quella detentiva, di tener conto anche della condizione economica dell'imputato e ha abbassato da 250 a 75 euro il valore di conversione di un giorno di reclusione. Modifica voluta dalla Commissione Canzio per rivitalizzare il procedimento per decreto che è il rito speciale in assoluto più “conveniente”, anche se – come si è detto – la previsione di una consistente diminuzione della pena per le contravvenzioni giudicate con rito abbreviato ha attutito le potenzialità della disposizione in esame. In conclusione, era la strada dell'accesso al patteggiamento che andava ampliata, nei limiti di compatibilità del sistema, sotto ogni profilo. Non basta quello che si è fatto finora. Anche se non si può ignorare che gli accordi sulla pena possono manifestare la loro massima potenza deflativa nei sistemi non ingabbiati dall'obbligatorietà dell'azione penale o dall'eccessiva criminalizzazione dell'illecito. I grandi numeri dell'appello
Ultimo nell'ordine dato ma non per importanza è il problema degli appelli che ingolfano le Corti di merito e del numero dei ricorsi per cassazione che ormai da anni la Suprema Corte deve gestire. Proprio dall'area delle impugnazioni è opportuno prendere le mosse per valutare l'impatto degli interventi normativi, ispirati dall'esigenza di trovare il modo di coniugare i grandi numeri con la tempestività e la qualità della risposta giudiziaria (alimento della stabilità delle decisioni). Spazi per semplificazione, deflazione e razionalizzazione delle procedure ce n'erano. Si trattava di occuparli in modo intelligente, nella rassegnata consapevolezza che gli aggiustamenti sarebbero serviti soltanto a produrre limitati alleggerimenti delle gravi situazioni in cui molte Corti di merito versavano (e versano), sommerse da arretrati ingestibili e, in generale, afflitte da mali curabili soltanto con rimedi straordinari e strutturali. È giunto il momento – come si diceva – di dar conto degli interventi normativi, cominciando da quelli più incisivi o comunque più promettenti: la previsione di un modello di motivazione in fatto della sentenza di merito da porre in stretta correlazione con la forma dell'impugnazione, in particolare con l'onere di specificità dei motivi; la previsione, in appello, della possibilità per accusatore e imputato di sottoporre al giudice un accordo (concordato) sui motivi (come di rinunciarvi) e sulla pena; la previsione della rinnovazione della prova dichiarativa in appello, in caso di gravame del pubblico ministero contro la sentenza assolutoria di primo grado, in adesione alle indicazioni della Corte Edu; la previsione di nuovi casi di sospensione della prescrizione nei giudizi d'appello e di cassazione. Uno spazio successivo sarà dedicato anche agli interventi di minor impatto. Il contenuto della sentenza e il tentativo di semplificare il lavoro del giudice dell'impugnazione
Il legislatore ha modificato l'art. 546 c.p.p., ispirandosi all'esigenza di costruire un modello di motivazione in fatto della decisione, al quale ancorare il diritto delle parti di impugnare e i poteri di cognizione del giudice dell'impugnazione. L'intervento si raccorda con la modifica dell'art. 581 c.p.p. che rafforza l'onere di enunciazione specifica, a pena d'inammissibilità, dei motivi di impugnazione. Lo scopo dell'intervento è quello di razionalizzare i termini del confronto tra il contenuto della sentenza e quello dei motivi e di semplificare in tal modo il compito del giudice dell'impugnazione. L'esperienza giudiziaria indicava la necessità di intervenire. Troppe volte ci si imbatteva in sentenze (soprattutto di primo grado e di condanna) non adeguatamente argomentate, non chiare, non precise, sia con riguardo all'affermazione di responsabilità, sia con riguardo ai (talora) complessi meccanismi di determinazione delle pene. La prima conseguenza era che anche le impugnazioni, in particolare gli appelli, prive di ragioni specifiche non potevano essere dichiarate inammissibili. D'altra parte, se la sentenza non argomenta sul punto o lo fa in termini generici, anche l'appello generico non è inammissibile; ma se la sentenza è specificamente argomentata sul punto l'appello, per non essere inammissibile, deve criticare specificamente quelle argomentazioni. Se l'argomento del giudice sul punto o sulla questione (es. diniego attenuanti generiche) manca o è aspecifico, il motivo d'appello sul punto o sulla questione potrà essere legittimamente aspecifico. Il dovere di ragionare grava sia sul giudice che decide e spiega, sia sul difensore che impugna e critica la spiegazione, ed è un dovere correlato proporzionalmente. Si aggiunga che ora anche il requisito della specificità dei motivi di impugnazione è definito dalla riforma in termini più incisivi. Esso si inserisce in quasi tutto l'asse delle prescrizioni richieste dall'art. 581 c.p.p., dall'indicazione dei capi e dei punti della decisione che si impugna per terminare con le richieste ed i motivi. Nuove disposizioni sono quelle che richiedono, a pena di inammissibilità, l'enunciazione delle prove delle quali si deduce l'inesistenza, l'omessa assunzione o l'omessa o erronea valutazione e delle richieste istruttorie (lett. b) e c)); esse traggono spunto dalla constatazione pratica che spesso gli appelli contengono censure in tema di prova e richieste di rinnovazione del tutto aspecifiche o comunque non adeguatamente argomentate al fine di far comprendere l'indispensabilità della nuova finestra istruttoria. L'indispensabile correlazione tra specifiche argomentazioni della sentenza e specifiche ragioni di critica nei motivi di impugnazione non ha avuto e non avrà in tempi brevi effetti tangibili. È un modo, però, di rigenerare le cellule del sistema e gli effetti si vedranno; ancora di più se il legislatore provvederà a qualche ulteriore intervento; ad es. a prevedere come causa di inammissibilità anche dell'appello la manifesta infondatezza (non sempre coincidente con la genericità) dei motivi; a reintrodurre la previsione che, contro una sentenza pronunciata in assenza dell'imputato, il difensore può proporre impugnazione solo se munito di specifico mandato, rilasciato con la nomina o anche successivamente nelle forme per questa previste, aggiungendo che, nell'atto di impugnazione o nella procura rilasciata, l'imputato deve indicare a pena di inammissibilità, il luogo in cui dovranno essere eseguite le successive notificazioni. Affiora, invece, da più parti, per ridurre gli appelli, l'idea di abolire il divieto di reformatio in peius. Che sia questa la via per ridimensionare il numero degli appelli è tutto da dimostrare (e l'esperienza induce a dubitarne), mentre è certo che così facendo il giudice terzo (in un processo di parti) si trasforma in uno spauracchio (in senso figurato uno spaventapasseri). Sarebbe allora stato meglio che le voci si levassero per impedire la scomparsa dell'appello incidentale del pubblico ministero (d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, in vigore dal 6 marzo 2018). Quei pochi appelli, la maggior parte sulla pena, che prima si vedevano avevano il sapore della reazione ad appelli dell'imputato privi di contenuti. Non solo, per evitare che quei pochi si trasformassero in appelli principali si è previsto, nel silenzio generale, che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di condanna solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante a effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato. Anche di appelli principali del pubblico ministero contro le sentenze di condanna non se ne vedevano molti; ora se ne vedono ancora meno. Ma, in un processo di parti, non si ovvia a questa carenza abolendo il divieto di reformatio in peius. Il ritorno del concordato in appello
Il concordato in appello è stato reintrodotto dall'art. 599-bis e dall'art. 602, comma 1-bis, c.p.p. È stata giusta l'idea di recuperare questo istituto, in considerazione dell'efficacia deflativa che può comportare. La riforma, però, non è ben fatta. Anzi tutto, per la previsione di esclusioni oggettive, tra l'altro coincidenti con quelle del c.d. patteggiamento “allargato”, istituto dalla natura del tutto diversa. Esclusioni talora paradossali: basti pensare, ad esempio, che il delitto di associazione per delinquere (art. 416 c.p.) realizzato allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all'art. 12, commi 3 e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) escluso dal concordato è meno grave dei delitti-scopo che, invece, non sono esclusi e lo stesso è a dirsi del delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), delitto escluso a differenza del più grave delitto di traffico di ingenti quantitativi di cocaina e di eroina (artt. 73 e 80, comma 2, del medesimo d.P.R.). Insomma, il legislatore ha pescato l'elenco dei reati da escludere da una norma processuale a tutt'altro dedicata (non destinata, per intendersi, ad elencare i più gravi delitti contemplati dal nostro ordinamento penale) ma forse intendeva solo, attraverso un mazzetto di reati esclusi, manifestare un'ingiustificata diffidenza verso l'istituto, che taluni additano come strumento di “svendita” delle pene in cambio di un po' di lavoro in meno (per procuratori generali e giudici d'appello), destinato a far crescere – affermazione suggestiva ma indimostrata – il numero degli appelli. E pensare che, proprio al fine di neutralizzare le prevedibili critiche, si è ritenuto di richiamare il pubblico ministero nell'udienza, pur nel rispetto della sua autonomia, a un'attenta valutazione della richiesta sulla base di uniformi linee guida di orientamento, formulate almeno a livello distrettuale. Comunque sia, il legislatore ha perso di vista l'effettivo senso dell'istituto che è quello di selezionare i motivi d'appello probabilmente fondati, di rinunciare a quelli infondati, di accordarsi, se del caso, sulla rideterminazione della pena e di sottoporre l'accordo, la richiesta congiunta all'attenzione del giudice d'appello che la accoglierà solo se legalmente ineccepibile. Tutto ciò con risparmio di tempi e di costi. Se non fosse, però, e qui si annida il secondo (meno grave del precedente) errore del legislatore, che è del tutto antieconomica la prevista possibilità di raggiungere l'accordo anche nel dibattimento (art. 602, comma 1-bis, c.p.p.), che ha fin da subito relegato in soffitta l'alternativa predibattimentale contemplata dall'art. 599-bis c.p.p. Risultato: il giudice d'appello è costretto a svolgere l'onerosa e impegnativa attività di esame preliminare dell'appello, di redazione e notificazione degli atti introduttivi per un processo che magari, una volta giunto in aula occupando nel ruolo di udienza un posto che avrebbe potuto essere meglio impiegato, si definisce con il concordato. Per concludere sul punto: l'istituto stenta a decollare e, inoltre, permane la tendenza a proporre comunque ricorso per cassazione contro la sentenza che recepisce l'accordo, anche se vi è piena consapevolezza che sarà dichiarato, in tempi brevissimi, inammissibile e che l'imputato sarà condannato a pagare la somma di 4.000 euro alla Cassa delle ammende (merita di essere letta Cass. pen., Sez. V, ord. 4 giugno 2018, n. 29243). Forse si confida sul fatto che i meccanismi di riscossione sono deficitari. La reformatio in pejus
In direzione opposta rispetto agli intenti di semplificazione si muove il nuovo comma 3-bis dell'art. 603 c.p.p.: rinnovazione istruttoria in caso di ribaltamentoin appello della sentenza di proscioglimento, con conseguente condanna (c.d. overturning di condanna o accusatorio). Più precisamente: nel caso in cui una sentenza di proscioglimento dell'imputato sia appellata dal pubblico ministero «per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa», in altre parole adducendo errori del primo giudice nella valutazione della prova dichiarativa, il giudice «dispone» la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale. La nuova disposizione è stata – come è noto – anticipata da due sentenze euro-ispirate delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Cass. pen., Sez. unite, 28 aprile 2016, n. 27620, Dasgupta; Cass. pen., Sez. unite, 19 gennaio 2017, n. 18620, Patalano, per il giudizio abbreviato), alle quali i giudici d'appello si sono adeguati. La “cartolarità” dell'appello e della valutazione delle prove, forse concausa del “fastidio” che la rinnovazione dell'istruzione tende a generare nel giudice d'appello, lascia (recte, potrebbe lasciare) il posto a istruttorie dibattimentali (che devono riguardare, pur nel silenzio della disposizione, prove dichiarative “decisive”) talora complesse. Non si hanno ancora dati precisi sull'incidenza di questi appelli nel lavoro delle Corti, né sui numeri di queste sentenze di proscioglimento. È voce corrente nel Foro, tuttavia, che l'esigenza di rinnovare l'istruttoria (che spesso richiede la “occupazione” di più udienze) rallenta il resto del lavoro, generando arretrato. La questione è vissuta come “complicazione” e ha dato il via a studi (in corso) per individuare nel sistema anticorpi (ormai esiste anche una “giustizia difensiva”). Prima difesa: delimitare con precisione l'ambito di applicazione della disposizione, tenendo conto della natura eccezionale dell'istituto e, in particolare, della considerazione che i motivi dell'appello del pubblico ministero devono essere «attinenti alla valutazione della prova dichiarativa». Il cantiere dei casi non rientranti nell'ambito del “diritto” del pubblico ministero è aperto e qualcosa ha prodotto. Ha affermato, ad es., che non vi è obbligo di rinnovare la prova dichiarativa: quando la prova dichiarativa è stata dal primo giudice «travisata per omissione, invenzione o falsificazione» (Cass. pen., Sez. VI, 15 febbraio 2018, n. 16501, Portaro); quando la valutazione della prova dichiarativa sia inficiata da un “errore di percezione” che ricorre nel caso in cui si affermi l'inesistenza di un dato (nella specie, un riscontro esterno individualizzante della dichiarazione di un correo) che in realtà esiste (Cass. pen., Sez. I 14 novembre 2017, n. 26390, Amato);
In questi giorni, infine, la S.C. (Cass. pen., Sez. unite., 28 gennaio 2019, Pavan), sulla questione «se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico possa costituire prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale il giudice di appello dovrebbe, qualora la ritenga decisiva, procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa» ha informato che «il giudice di appello è tenuto a rinnovare l'istruzione dibattimentale procedendo all'esame del perito (o del consulente tecnico) se questi sia già stato esaminato nel dibattimento di primo grado e la sua dichiarazione sia ritenuta decisiva». La seconda difesa è rappresentata dal vaglio di ammissibilità dell'appello del pubblico ministero. Va stabilito cosa deve o non deve fare il pubblico ministero per non rischiare la sanzione per “aspecificità”, che è poi come chiedersi quale sia l'oggetto dell'attenzione della Corte in sede di esame preliminare dell'appello. In sintesi:
Un piccolo accenno alla prescrizione
Venendo alla prescrizione del reato, per ora ha senso accennare soltanto alle nuove ipotesi di sospensione del corso della prescrizione (art. 159, comma 2, n. 1 e 2, c.p.) che resteranno in vigore fino al 1° gennaio 2020 per lasciare il posto alla più drastica sospensione «dalla pronunzia della sentenza di primo grado … fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio». Per quanto concerne il giudizio d'appello, gli effetti di questo cadeau (assai meno prezioso di quanto possa apparire) di un anno e sei mesi di sospensione («dal termine previsto dall'articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore ad un anno e sei mesi») si sono, almeno per ora, visti poco, perché la disposizione si applica ai reati commessi dopo il 3 luglio 2017. È prevedibile, comunque, che parte del tempo sarà divorato dal termine per appellare, dal tempo di trasmissione di appello e atti processuali dal giudice di primo grado alla corte d'appello, dal tempo di immissione dei dati nel nuovo sistema informatizzato (immissione che, come l'esperienza ha finora insegnato, genera conflitti di varia natura tra le cancellerie dei due giudici), dal tempo di assegnazione e fissazione del processo. Si è prima accennato che dalle statistiche nazionali del triennio 2015–2017 emerge che, nei distretti in cui le Corti d'appello non presentano pendenze patologiche, almeno il 70% delle estinzioni dei reati per prescrizione è dichiarata con decreto di archiviazione dal Gip Il tempo necessario a prescrivere matura, dunque, già nella fase delle indagini preliminari, mentre il restante 30% circa è, più o meno, equamente ripartito tra primo grado e secondo grado (in appello, tuttavia, a differenza che in primo grado, i processi per reati prescritti in cui vi sia costituzione di parte civile vanno comunque fissati e celebrati per la decisione in ordine alle statuizioni civili). Si tratta di dati che servono per capire che non sono i termini o la disciplina della prescrizione del reato i problemi del processo penale. Là dove i processi penali non si celebrano non è certo “per colpa” della prescrizione. I processi non si fanno per altre innumerevoli ragioni e allora si prescrivono i reati, ma si prescrivono, appunto, là dove i processi non si fanno. Certo, tutto è migliorabile, anche la disciplina della prescrizione del reato, ma il primo obiettivo da perseguire è quello di ridare funzionalità al sistema, nel rispetto dei diritti fondamentali della persona. Altrimenti non si prescriveranno i reati ma si avranno “eterni giudicabili”. Gli altri interventi legislativi
Altri interventi legislativi hanno caratterizzato quest'ultimo periodo. Alcuni hanno prodotto effetti positivi; altri hanno avuto un impatto minore.
a) Tra i primi è giusto ricordare che con riguardo al giudizio di cassazione: - è stata soppressa la possibilità del ricorso personale dell'imputato; - sono state incrementate le sanzioni pecuniarie che colpiscono i ricorsi inammissibili; - è stato limitato al solo vizio di violazione di legge il ricorso per cassazione in caso di «doppia conforme» di proscioglimento o di non luogo a procedere; - si sono ampliate le ipotesi di annullamento senza rinvio (il giudizio d'appello ne trarrà beneficio, seppur molto limitato in termini numerici); - si è semplificato il procedimento di correzione dell'errore materiale.
b) L'elenco degli interventi di minore impatto, almeno allo stato, è più articolato. Si è assistito al ritorno all'appellabilità della sentenza di non luogo a procedere (art. 428 c.p.p.). Re melius perpensa, il legislatore ha ritenuto che la verifica della sussistenza delle condizioni per il rinvio a giudizio dell'imputato, attenendo essenzialmente alla ricostruzione del fatto e al merito dell'accusa, meglio si coniugasse con le attribuzioni del giudice di appello. L'intervento è da apprezzare, se non fosse che, a causa della regola processuale di giudizio di cui all'art. 425 c.p.p., le sentenze di non luogo a procedere sono una vera e propria rarità sul mercato giudiziario. Comunque, era giusto tornare al passato. Il controllo del giudice di legittimità sulla motivazione della sentenza di non luogo a procedere poteva avere per oggetto soltanto la giustificazione adottata dal giudice nel valutare gli elementi acquisiti dal pubblico ministero e, quindi, la riconoscibilità del criterio prognostico adottato nella valutazione d'insieme degli elementi acquisiti. Quando (raramente) non era inammissibile o infondato, il ricorso produceva un annullamento con rinvio, con trasmissione degli atti al medesimo tribunale, il quale doveva investire un Gip, diverso da quello che aveva pronunciato la sentenza annullata, che era tenuto a celebrare una nuova udienza preliminare. Con l'appello (quelle poche volte che accadrà) è tutto più incisivo e più semplice, soprattutto perché in caso di accoglimento la Corte pronuncia direttamente il decreto che dispone il giudizio, formando il fascicolo per il dibattimento. c) Minimo è stato l'impatto dell'introduzione della nuova ipotesi di estinzione del reato per condotte riparatorie (art. 162-ter c.p.), benché provvista di allettante disposizione transitoria.
d) Lo stesso è a dirsi per il trasferimento della rescissione del giudicato alla competenza della corte d'appello.
e) Una qualche incidenza l'ha avuta anche il d.lgs. 10 aprile 2018, n. 36. L'art. 12 ha, infatti, dettato una disposizione transitoria che, per i reati diventati perseguibili a querela in base alle disposizioni del decreto e commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, ha imposto di informare la persona offesa dal reato della facoltà di esercitare il diritto di querela. Tra l'altro, durante i novanta giorni decorrenti dall'avviso dato alla persona offesa dal reato per l'eventuale esercizio del diritto di querela, non opera la sospensione del termine di prescrizione (Cass. S.U., 21 giugno 2018, n. 40150, Salatino). Soprattutto truffe ed appropriazioni indebite hanno dato un po' di lavoro ai giudici d'appello. E hanno consentito di scovare qualche inadempimento del legislatore delegato. Basti ricordare che l'appropriazione indebita aggravata dal danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 61 n. 7 c.p.) era rimasta, contro la volontà del delegante, procedibile a querela. Al problema ha posto rimedio la già citata legge 9 gennaio 2019, n. 3, che, tuttavia, è andata oltre, trasformando l'appropriazione indebita, la cui pena è stata stabilita nella reclusione da 2 a 5 anni, in reato molto più grave della truffa, inspiegabilmente ferma al livello, ormai quasi “bagatellare”, della reclusione da 6 mesi a 3 anni. Se c'era un reato che avrebbe meritato una attenta riflessione, anche con riguardo all'efficacia dell'attuale risposta repressiva, quella era proprio la truffa in danno dei privati, ormai talmente diffusa e variegata da aver dato vita ad un numero impressionante di sottotipi (truffa on line, truffa dello specchietto, truffa del pacco e sue versioni evolute, truffa del falso parente o nipote, truffa “bidone”, ecc.). Ancora qualche considerazione
Ancora qualche considerazione sulle iniziative in itinere. È di questi giorni la pubblicazione del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14). La gloriosa “legge fallimentare” (r.d. 16 marzo 1942, n. 267) è destinata nel tempo a scomparire. Le disposizioni penali, sostanziali e processuali, sono per ora rimaste immutate e questo non va bene. Si resta in attesa di capire cosa succederà. Altre iniziative meritevoli di attenzione sono quelle relative, in campo sostanziale, alla difesa legittima, nell'area processuale alla soppressione del giudizio abbreviato per i reati puniti con l'ergastolo. La prima, la proposta di legge C. 1309 approvata dal Senato e delle abbinate C. 274 Molteni, C. 580 Gelmini, C. 607 Consiglio regionale del Veneto, è stata approvata in prima lettura al Senato e da poco in prima lettura alla Camera. Dovrebbe passare in seconda lettura al Senato, per un emendamento introdotto alla Camera. La seconda (925/S) è in Commissione Giustizia al Senato per le audizioni. Se dovesse andare in porto, non sarà comunque una riforma a costo zero perché si tratterà di rafforzare, e non di poco, le Corti d'assise. Sul versante delle disposizioni incriminatrici, voto di scambio (1302/C e 766/C), costrizione matrimoniale nei confronti dei minori (174/S e 662/S), frode patrimoniale in danno di soggetti vulnerabili (885/S), circonvenzione di persone anziane (980/S), disturbo comportamento alimentare (1189/S) sono in vario modo all'attenzione delle Camere.
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