La negoziazione nella giustizia penale. Gli strumenti offerti dal codice di rito
21 Febbraio 2019
Abstract
L'espansione degli spazi per l'operatività della giustizia penale negoziata è dovuta alla convenienza di favorire l'adozione di scelte condivise da tutte le parti processuali: lo Stato conseguirà un utile risultato in termini di speditezza ed effettività del giudizio; l'imputato, dal canto suo, rinuncerà a contraddire l'esito di una decisione che nasce anche dal proprio consenso. Si analizzeranno, adesso, i molteplici istituti, sparsi nel codice di rito, ispirati alla logica del negotium. Introduzione
Nell'immaginario collettivo, il processo penale è lo scenario all'interno del quale si esprime in maniera totalizzante la forza repressiva dello Stato; quest'ultimo, perseguendo l'interesse collettivo rispetto a quello del singolo, si manifesta al cittadino come un'entità distante che esercita un potere impositivo nei confronti del quale si è inevitabilmente destinati a soggiacere. L'espressione di tale forza è comune, in via generale, a quegli ambiti, tipici del diritto pubblico, in cui il rapporto cittadino-Stato è organizzato in forma gerarchica: si pensi, ad esempio, al procedimento amministrativo in cui, posto il bilanciamento dei vari interessi in gioco, tra cui anche quelli privati, è il criterio della prevalenza dell'interesse pubblico a guidare le scelte dell'amministrazione in ordine all'adozione del provvedimento. Per tale ragione, non può negarsi che determinate categorie concettuali, quali quelle della negoziazione o dell'accordo, appaiano tutt'oggi scevre da qualunque connessione con l'esercizio del potere autoritativo dello Stato sul cittadino, piuttosto rievocando connotazioni proprie del diritto privato. In realtà, già dall'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale del 1988, le possibilità concesse al pubblico ministero e al difensore di accordarsi per influire sul corso del processo hanno rappresentato una delle caratteristiche più rivoluzionarie del nuovo sistema accusatorio. Tanto è vero che si è parlato di processo di parti, così superando la vecchia concezione dell' inchiesta condotta in segreto dal giudice istruttore e soltanto successivamente vagliata in dibattimento. Mettendo da parte le critiche avanzate da chi ha ritenuto che una tale impostazione potesse distorcere la reale funzione del processo, quale locus dell'imparziale applicazione della legge, si intende in questa sede esaminare l'incidenza positiva della giustizia negoziata in termini di celerità del processo e correttezza della decisione. Nel prosieguo, quindi, si andranno ad analizzare alcuni dei numerosi istituti disseminati nel codice di rito, che, ispirandosi alla logica negoziale, danno rilevanza alla volontà delle parti processuali. Preliminarmente si procederà alla disamina degli istituti che appartengono al giudizio ordinario: tra questi, la disciplina attinente la formazione del fascicolo del dibattimento è certamente quella che merita maggiore attenzione, tanto per l'ampiezza dei poteri concessi alle parti, quanto per “l'estensione temporale” in cui essa può operare, che può accompagnare l'intero svolgimento dell'istruttoria dibattimentale. Non vanno tuttavia ignorati quei singoli istituti che esprimono la piena funzionalità dell'accordo negoziale, come l'assunzione delle dichiarazioni rese dal testimone prima del giudizio o la rinuncia all'assunzione di singoli mezzi di prova. Successivamente, si darà un breve sguardo all'incidenza della volontà negoziale nei riti alternativi al dibattimento. Il patteggiamento rappresenta senza dubbio l'emblema processuale della giustizia negoziata, concedendo alle parti la capacità di determinare le sorti del giudizio in relazione alla pena da applicare in concreto. Brevi cenni saranno riservati, invece, al giudizio abbreviato, alla luce delle innovazioni introdotte della riforma Orlando, la quale – come si vedrà – pare mettere in crisi la certezza di un sistema processuale che affida alla parte privata la possibilità di incidere, attraverso il suo contributo, sull'esito del processo. Passiamo, adesso, ad esaminare le singole discipline nel dettaglio. Formazione del fascicolo del dibattimento
Tra gli istituti operanti nel giudizio ordinario, ispirati al principio dell'accordo negoziale tra le parti processuali, particolare attenzione merita la disciplina della formazione del fascicolo del dibattimento, finalizzata a garantire l'imparzialità del giudice, impedendogli fisiologicamente la conoscibilità degli atti d'indagine, eccezion fatta per quelli connotati dal crisma della irripetibilità. Con la riforma del 1999, a opera della c.d. legge Carotti, il legislatore ha inteso ampliare le zone di efficacia del consenso espresso dalle parti: queste ultime, ai sensi del primo comma dell'art. 431 c.p.p., sono chiamate a partecipare fattivamente alla selezione del materiale che sarà preventivamente conoscibile dal giudice del dibattimento. Tale attività, che segue sempre l'emissione del decreto che dispone il giudizio, rinviene la sua sede naturale nell'udienza preliminare. Qualora una parte ritenga necessario prolungare il contraddittorio per la formazione del fascicolo, il giudice fisserà una nuova udienza – prosecuzione di quella preliminare – entro il termine ordinatorio di quindici giorni. La norma, proseguendo nell'elencazione dettagliata degli atti che andranno a comporre il fascicolo del dibattimento, fa salva, nel secondo comma, la facoltà delle parti di concordare l'acquisizione di atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, nonché della documentazione relativa alle investigazioni difensive svolte: si consente, così, la concreta incidenza della volontà delle parti in ordine al materiale probatorio utilizzato ai fini del decidere. Bisogna tuttavia precisare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l'assenza del contraddittorio per la formazione del fascicolo del giudice non determina alcun tipo di nullità, non potendosi dire pregiudicate esigenze difensive (Cass. pen., n. 19473/2007) Medesima possibilità è garantita dall'art. 493, comma 3, c.p.p., rubricato Richieste di prova, con l'evidente funzione di estendere la disciplina dell'accordo acquisitivo per la formazione del fascicolo dibattimentale anche in quei processi che non prevedano l'udienza preliminare. Da tale disposizione, inoltre, ne discende l'insussistenza di preclusioni in ordine all'acquisizione concordata al fascicolo del giudice durante tutto il corso dell'istruttoria dibattimentale. Con riguardo ai soggetti legittimati a prestare il consenso, tale facoltà è attribuita alle parti, necessarie ed eventuali. Il consenso può essere validamente prestato anche dal difensore dell'imputato, sia esso di fiducia o d'ufficio, tenendo conto del principio generale di rappresentanza nei confronti dell'imputato (Cass. pen., n. 7061/2010). Dalla riferibilità del consenso alle sole parti costituite in giudizio, discendono due rilevanti profili:
È indubbio come la disciplina dell'accordo acquisitivo abbia lo scopo di includere la parte privata nelle scelte sull'impostazione del processo, al fine di garantirne una celere definizione che sia il più possibile “giusta”, tanto per l'autorità pubblica quanto per l'imputato. Tuttavia, il potere dispositivo di cui godono le parti non può incidere negativamente sul compendio probatorio che verrà utilizzato ai fini del decidere, poiché una tale situazione equivarrebbe a snaturare la funzione primaria del processo penale che è da individuare nel corretto accertamento della responsabilità dell'imputato. Pertanto, allo scopo di neutralizzare possibili distorsioni o svuotamenti probatori, il comma 1-bis dell'art. 507 c.p.p., inserendosi nel più ampio spazio dei poteri officiosi del giudice penale, consente a quest'ultimo di disporre d'ufficio l'assunzione di mezzi di prova relativi agli atti acquisiti negozialmente al fascicolo del dibattimento. Come si è visto, la normativa codicistica tiene conto della rilevante ruolo che il consenso negoziale può rivestire nelle dinamiche processuali. Questo, difatti, se esercitato a ragion di logica e secondo lealtà, garantirebbe la possibilità di escludere le conseguenze negative derivanti dal processo e di seguire con maggiore efficacia una strategia difensiva volta all'assoluzione. In tale scenario si innesta l'ulteriore questione relativa agli effetti che l'accordo negoziale è in grado di spiegare sulle eventuali invalidità di cui siano affetti gli atti che si intendono acquisire:
Altri istituti a carattere negoziale nel giudizio ordinario
All'interno del codice di rito sono disseminate numerose norme che rinvengono il loro fondamento nel consenso negozialmente manifestato tra le parti processuali. Questo può essere volto all'assunzione o meno di un determinato mezzo di prova, o ancora finalizzato a garantire una maggiore speditezza processuale. A titolo esemplificativo, verranno esposti alcuni degli istituti a carattere negoziale presenti nel codice di rito.
Negozialità della prova. Nella categoria di norme volte all'espansione del campo di azione della volontà delle parti in ambito probatorio, vi rientrano quelle disposizioni che consentono l'utilizzabilità di dichiarazioni altrimenti non impiegabili dal giudice ai fini della decisione: queste, derogando ai principi di immediatezza ed oralità del contraddittorio nella formazione della prova, si riferiscono esclusivamente alla prova dichiarativa. Una ipotesi è costituita dall'art. 500, comma 7, c.p.p., che prevede, a seguito del necessario consenso di tutte le parti del processo, l'utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal testimone prima del giudizio. Rispetto al modello delineato dagli artt. 431, comma 2, e 493 comma 3, c.p.p., la fattispecie in esame ne rappresenta una species peculiare: oltre a realizzarsi nel corso dell'istruzione dibattimentale, non riguarda tutte le tipologie di atti ma soltanto le pregresse dichiarazioni del testimone. Ai fini della formalizzazione del negozio acquisitivo, si è ritenuta necessaria, in dottrina, la previa escussione del dichiarante: la norma, difatti, non risulta coordinata con l'art. 507, comma 1-bis, c.p.p., con la conseguenza che il giudice non potrà attivarsi officiosamente al fine di evitare l'eventuale rischio di pregiudizio probatorio. Tuttavia, la giurisprudenza si è mostrata favorevole all'utilizzabilità, in virtù dell'accordo, delle dichiarazioni procedimentali rese da un soggetto che, in dibattimento, si era avvalso della facoltà di astensione in quanto prossimo congiunto dell'imputato (Cass. pen., n. 8739/2003). Infine, devono ritenersi infondati i paventati dubbi di legittimità costituzionale in relazione all'art. 111, comma 5, Cost., il quale richiede il consenso del solo imputato per la deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova. Se, difatti, è certamente imprescindibile il consenso dell'imputato, sarà costituzionalmente legittimo richiedere che il formarsi di un accordo intervenga fra tutte le parti processuali che sarebbero state protagoniste del contraddittorio. Ulteriore istituto è quello di cui all'art. 513, comma 2, c.p.p., che consente la lettura delle dichiarazioni rese da persona imputata in un procedimento connesso, così come indicata dall'art. 210, comma 1, c.p.p., qualora il dichiarante si avvalga della facoltà di non rispondere e vi sia l'accordo di tutte le parti. L'esercizio dello ius tacendi non muta il regime acquisitivo a seconda che la facoltà di non rispondere sia esercitata all'inizio o nel corso dell'esame, sicché si ritiene consentita comunque la lettura integrale. Il mancato contraddittorio sulla fonte di prova viene così surrogato dall'accordo delle parti; in tal modo, l'imputato che non ha potuto in precedenza esaminare la fonte non subirà gli effetti delle sue dichiarazioni, salvo che vi consenta. In ultimo, con riguardo alla “prova negoziata”, occorre accennare all'istituto di cui all'art. 495 comma 4-bis, che consente a ciascuna delle parti di rinunciare, con il consenso dell'altra parte, all'assunzione di specifici mezzi di prova ammessi a sua richiesta. Non è invece configurabile una rinuncia globale al diritto di prova: per il P.M., difatti, sussistendo l'ostacolo dell'art. 112 Cost., la rinuncia totale alla prova si tradurrebbe nel mancato esercizio dell'azione penale; per l'imputato, invece, stante l'indisponibilità dei beni coinvolti, comporterebbe l'abdicazione al diritto irrinunciabile alla difesa. Nonostante la ambigua formulazione letterale, che individua al singolare il consenso dell' “altra parte”, deve ritenersi necessario il raggiungimento di un accordo tra tutte le parti presenti, anche quelle eventuali regolarmente costituite in giudizio, al fine di perfezionare la rinunzia. Il consenso, infatti, va prestato da tutte le parti qualificate da un interesse istruttorio specifico in relazione al mezzo di prova oggetto di rinuncia.
Negozialità a servizio della speditezza processuale. Tra gli istituti del giudizio ordinario che, ispirati alla logica negoziale, sono finalizzati ad una più rapida conclusione del giudizio vi sono la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale e la conduzione dell'esame del dichiarante da parte del giudice. Con riguardo al primo istituto, è noto che ai sensi dell'art. 525 c.p.p. debbano provvedere alla deliberazione della sentenza gli stessi giudici del dibattimento, pena la sanzione processuale della nullità assoluta. Tuttavia, nelle ipotesi in cui alla decisione debba provvedere un giudice supplente – cosa nella prassi assai frequente -, la norma dispone che i provvedimenti già emessi conservano efficacia se non sono espressamente revocati. Il richiamo ai provvedimenti già emessi può riferirsi tanto alle questioni di rito decise con ordinanza nel corso del processo, quanto all'assunzione delle prove. Ecco quindi che, mutata la persona fisica del giudice, occorrerà rinnovare gli atti compiuti per salvaguardare il rispetto del principio di immediatezza e, soprattutto, per non incorrere nella nullità assoluta altrimenti operante. Il nuovo decidente chiederà alle parti se, in sede di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, vogliano prestare il consenso all'utilizzabilità degli atti compiuti fino a quel momento. L'eventuale dissenso di una parte sarà d'ostacolo alla ratifica del materiale probatorio, seppur con alcune limitazioni individuate dalla giurisprudenza allo scopo di impedire manovre ostruzionistiche. In altre parole, può dirsi operante uno schema di regola/eccezione: la lettura di una prova dichiarativa già assunta è impossibile senza la rinnovazione, tuttavia a ciò può derogarsi nel caso in cui le parti negozialmente si accordino in termini diversi. Qualora sia data lettura di prove precedente assunte, in difetto del consenso delle parti, l'inutilizzabilità dovrà essere eccepita con il primo atto possibile, non essendo permessa la rilevabilità in ogni stato grado del procedimento, in deroga al classico regime della inutilizzabilità. Le ragioni appaiono chiare: l'inutilizzabilità, seppur patologia, non deriva dalla violazione di un divieto probatorio, atteso che i mezzi di prova sono stati illo tempore assunti secondo legge. Analizzando, invece, la disciplina della conduzione dell'esame del dichiarante da parte del giudice, l'art. 559, comma 3, c.p.p. ammette la possibilità di derogare al principio generale di assunzione della prova dichiarativa per mezzo dell'esame incrociato condotto dalle parti. Queste ultime possono accordarsi affinché sia il giudice a condurre l'esame, sulla base delle domande e delle contestazioni proposte dal P.M. e dai difensori. Si tratta di una situazione distinta rispetto alla disposizione di cui all'art. 507 c.p.p., ai sensi della quale, soltanto in seguito all'acquisizione della prova ad opera delle parti, il giudice, per completezza probatoria, possa disporre d'ufficio l'assunzione di ulteriori mezzi di prova. L'ulteriore escussione sarà di regola condotta dalle parti, a meno che non intervenga un nuovo accordo tra le stesse per affidare al giudice la conduzione esclusiva dell'esame. Dopo la breve illustrazione degli spazi riservati alla volontà negoziale nel giudizio ordinario, occorre procedere alla disamina di quello che può essere definito il terreno elettivo della giustizia negoziata: i riti alternativi. Se è vero che anche i riti che tendono ad anticipare il dibattimento contengano notevoli spazi riservati alla negozialità, sono specialmente quelli che mirano all'eliminazione di quest'ultimo a fondarsi ed ispirarsi alla logica negoziale. Per tale ragione, si procederà ad analizzare principalmente l'istituto del patteggiamento, mentre brevi cenni saranno dedicati al giudizio abbreviato, alle luce delle peculiarità introdotte dalla riforma Orlando. Applicazione della pena su richiesta delle parti. La disciplina del patteggiamento costituisce l'emblema esemplificativo dell'incontro di volontà tra le parti processuali. La giustificazione dell'istituto, da rinvenirsi nella finalità deflattiva rispetto al rito ordinario, che consente l'eliminazione dalla scena dibattimentale di un cospicuo numero di procedimenti dall'esito “scontato”, si fonda sul consenso delle parti processuali “principali”. Queste ultime potranno accordarsi circa il quantum di pena da irrogare, sulla base della pena edittale, delle circostanze del reato, e della sospensione condizionale: la pena in concreto sarà poi diminuita fino ad un terzo. Degli effetti di tale rito, quindi, ne gioverà tanto la parte pubblica, la quale sarà confortata da una pronuncia che, nel breve tempo, applicherà un trattamento sanzionatorio adeguato al caso di specie, tanto l'imputato, che riceverà uno sconto di pena e potrà godere di taluni benefici connessi alla negoziazione come “premio” per la decisione del nolo contendere. Poiché la richiesta del rito alternativo rientra nei c.d. atti personalissimi dell'imputato, questa potrà essere avanzata – oltre che dal P.M. e dall'imputato personalmente - soltanto dal difensore munito di procura speciale e non anche dal sostituito processuale di quest'ultimo. In mancanza di una espressa autorizzazione al procuratore di potersi avvalere di sostituti, deve quindi ritenersi nullo l'accordo per l'applicazione della pena concluso con il P.M. dal sostituto processuale, con conseguente invalidità della sentenza (Cass. pen., n. 16838/2007). La richiesta di patteggiamento potrà avere ad oggetto una sanzione sostitutiva, una pena pecuniaria o una pena detentiva: in quest'ultimo caso, si distingue tra patteggiamento tradizionale (art. 445, comma 1, c.p.p.), al quale è possibile accedere quando il tetto massimo di pena negoziabile è pari a 2 anni di reclusione, e c.d. patteggiamento allargato (art. 444, c.1, c.p.p.), ove il limite di pena è elevato a 5 anni. Quest'ultima scelta processuale è normativamente preclusa per alcuni reati di particolare allarme sociale o per soggetti che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali, per tendenza o recidivi. Oltre alla diversità dei requisiti, i due tipi di patteggiamento si distinguono anche con riguardo agli effetti premiali: soltanto il primo, difatti, esclude l'irrogazione di pene accessorie e misure di sicurezza, ad eccezione della confisca, e consente l'estinzione del reato se entro 5 anni (o 2 anni per le contravvenzioni) l'imputato si asterrà dal commetterne uno della stessa indole; per entrambi, invece, la sentenza di patteggiamento non avrà efficacia nei giudizi civili o amministrativi, difettando un accertamento pieno sulla sussistenza del fatto. Come è noto, difatti, la richiesta di patteggiamento non corrisponde ad una confessione. In entrambe le tipologie di patteggiamento, termini, procedura e provvedimenti del giudice sono identici; la richiesta di patteggiamento può essere avanzata già nella fase delle indagini preliminari: il G.i.p. fisserà con decreto l'udienza per la decisione, qualora dalla richiesta si desuma il consenso dell'altra parte o provenga congiuntamente dal P.M. e dall'imputato; nei casi di richiesta unilaterale, invece, il giudice assegnerà previamente un termine perché l'altra parte esprima il consenso. In quest'ultima ipotesi, la richiesta sarà irrevocabile ed immodificabile fino alla scadenza di tale termine. Nonostante tale previsione normativa, può dirsi che la sede naturale per proporre l'accordo sia l'udienza preliminare, ed in particolare prima della presentazione delle conclusioni da parte del P.M. La dichiarazione di apertura del dibattimento emerge come termine finale soltanto nei procedimenti privi di udienza preliminare, fatta eccezione per il rito immediato, che impone un termine di 15 giorni dalla notificazione del relativo decreto. Nel caso in cui si sia proceduto con decreto penale di condanna, la richiesta di patteggiamento deve essere contenuta nell'atto di opposizione al decreto stesso. Infine, benché in merito il codice nulla disponga, deve ritenersi che nel caso di contestazione di fatto diverso o nuovo, vi sia la possibilità per l'imputato di chiedere il patteggiamento nel corso del dibattimento (Corte Cost., n. 265/1994). Ci si è chiesti se sia possibile scindere la richiesta di patteggiamento in presenza di una pluralità di imputazioni, stipulando il negozio solo per alcune di esse e scegliendo, per le altre, di procedere con il rito ordinario. La giurisprudenza ritiene ammissibile tale opzione, salvo che non si tratti di reati legati tra loro dal vincolo della continuazione o del concorso formale e che comunque non possano essere riuniti a norma dell'art. 17 c.p.p. (Cass. pen., n. 10109/2016). In presenza dell'accordo negoziale intervenuto tra le parti, il giudice pronuncerà sentenza di applicazione della pena se: 1) L'imputato non deve essere prosciolto a norma dell'art. 129 c.p.p.; 2) La parte non richiedente abbia prestato il consenso; 3) La qualificazione giuridica del fatto è corretta; 4) È corretta la applicazione e comparazione delle circostanze; 5) È congrua la pena concordata. La parte civile, costituitasi in un momento antecedente all'accordo, non potrà vedere accolta la propria domanda risarcitoria, che dovrà riproporre nell'apposita sede. Nelle ipotesi di rigetto della richiesta, quando quest'ultima sia stata proposta durante la fase delle indagini o in udienza preliminare, potrà essere riproposta un'altra volta, purché sia immodificata nel suo contenuto. Diversamente, nei casi in cui il rigetto dell'istanza derivi dal dissenso argomentato del pubblico ministero e il giudice del dibattimento ritenga, ad istruttoria conclusa, che sussistevano i presupposti per l'accesso al rito in esame, pronuncerà sentenza di patteggiamento: questa, sarà l'unica ipotesi in cui il provvedimento sarà appellabile da parte della pubblica accusa. Difatti, la natura consensuale della sentenza patteggiata la rende inappellabile ma sempre ricorribile per cassazione nel caso di vizi legati al consenso dell'imputato, difetto di correlazione tra richiesta e sentenza, errata qualificazione giuridica del fatto e illegalità della pena.
Giudizio abbreviato. Nel giudizio abbreviato, benché non possa parlarsi di un accordo negoziale tra le parti processuali, trova piena espressione la rilevanza unilaterale del consenso dell'imputato in ordine al materiale probatorio utilizzabile a fini decisori. Quest'ultimo può, difatti, sulla base del materiale investigativo raccolto dal P.M., chiedere al giudice che il processo venga definito in udienza preliminare allo stato degli atti. Posto che la disciplina relativa a tale tipo di giudizio sia ormai di comune conoscenza nella prassi, appare necessario esaminare gli interventi posti in essere dalla riforma Orlando la quale, come si vedrà, sembra tornare sui propri passi rispetto alla fiducia affidata al contributo probatorio della parte privata nel processo penale. Il comma 4 dell'art. 438 c.p.p., prevede oggi che, qualora il difensore dell'imputato depositi in udienza preliminare i risultati delle proprie investigazioni difensive e chieda, in qualità di procuratore speciale ovvero con la presenza dell'imputato, l'ammissione al rito abbreviato, il giudice provvede sulla richiesta solo dopo che sia decorso il termine non superiore a sessanta giorni, eventualmente richiesto dal pubblico ministero, per lo svolgimento di indagini suppletive. A ben vedere, la norma pone in essere un eccessivo sbilanciamento in favore dell'accusa, rafforzando una posizione investigativa che già si presentava “forte” per il solo fatto di consentire al P.M., a norma di codice e al netto di ogni possibile proroga, di compiere tutti i possibili accertamenti investigativi in sei mesi o in un anno (a seconda della gravità del reato). A detta indubbia posizione di preminenza della parte pubblica, fa da contraltare un potere assai blando a vantaggio dell'imputato, avendo quest'ultimo a disposizione un arco temporale particolarmente ristretto per compiere le proprie indagini difensive. Ecco che, alla luce di questo assetto normativo, davvero non si comprende, dato il presupposto che vorrebbe assegnare alle indagini preliminari il tratto caratteristico della completezza, che senso ha consentire alla parte pubblica di giovarsi di ulteriori due mesi di approfondimento investigativo. La norma si riferisce all'abbreviato c.d. secco, e non già a quello condizionato all'assunzione di uno specifico mezzo di prova, dato che per quest'ultimo il P.M. ha sempre il diritto all'ammissione della prova contraria. La novella legislativa, quindi, oltre a far trasparire una piena sfiducia nei confronti di qualunque apporto probatorio proveniente dalla parte privata, pone in essere un inaccettabile sbilanciamento in un sistema che dovrebbe ispirarsi alla sostanziale parità delle parti processuali e riconoscere il pieno esercizio del diritto di difesa. Medesimo disappunto può essere rivolto alla nuova disposizione introdotta dall'art. 438, comma 6-bis, c.p.p., che prevede la sanatoria di tutte le nullità, ad eccezione di quelle assolute, nonché la non rilevabilità delle inutilizzabilità, salvo quelle derivanti dalla violazione di un divieto probatorio, come conseguenza della scelta del rito abbreviato in udienza preliminare. In questo caso, se è vero che optare per il giudizio abbreviato significa accettare di essere giudicati sulla base di elementi conoscitivi raccolti dal P.M. fuori dal contraddittorio, non può dirsi ragionevole acconsentire che tali elementi siano stati raccolti violando le regole in tema di valida acquisizione e formazione della prova. L'indisponibilità del bene giuridico in gioco, ossia la libertà personale, non dovrebbe di fatto permettere l'esclusione dei principi fondamentali in tema di diritto alla prova per la mera scelta di un rito piuttosto che di un altro. In conclusione
Abbiamo osservato che la rilevanza del consenso negoziale nel processo penale riveste un ruolo primario in ordine alla celerità ed effettività della decisione. Pertanto, si auspica che il legislatore, in controtendenza rispetto alla linea legislativa adottata con la Riforma Orlando, ampli ulteriormente le zone di efficacia del consenso negoziale, soprattutto alla luce dell'esigenza, sempre più stringente, del rispetto del principio di ragionevole durata del processo. |