La determinazione della durata delle pene accessorie nel reato di bancarotta fraudolenta

Enrico Corucci
26 Febbraio 2019

In tema di bancarotta fraudolenta, le pene accessorie della inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e della incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa debbono essere commisurate alla durata della pena principale
Massima

In tema di bancarotta fraudolenta, le pene accessorie della inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e della incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa debbono essere commisurate alla durata della pena principale in quanto, a seguito della parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ultimo comma l. fall., risultano determinate solo nel massimo, per cui sono soggette alla regola di cui all'art. 37 c.p.

Il caso

Nella vicenda sottoposta all'attenzione della Suprema Corte l'imputato era stato condannato in appello, in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, per fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale e ricorso abusivo al credito.

Il primo reato aveva ad oggetto la distrazione di significativi quantitativi di ferro e le censure avanzate sul punto dalla difesa erano disattese dalla Corte di Cassazione, la quale riteneva immune da vizi logici la pronuncia gravata che aveva ritenuto distratta la quantità di ferro pari alla differenza tra quello indicato in carico e scarico nelle scritture contabili, tra cui un inventario sottoscritto dall'imputato, e quello rinvenuto.

Né miglior sorte avevano le censure mosse in merito alla sussistenza del reato di ricorso abusivo al credito, peraltro estinto per prescrizione, il quale era stato ritenuto perfezionato per avere l'imputato, in una situazione ormai di conclamata insolvenza, portato allo sconto ricevute bancarie emesse su fatture da riscuotere in riferimento alle quali, tuttavia, aveva emesso altrettante note di credito, con la conseguenza che le ricevute anticipate dalla banca tornavano insolute alle rispettive scadenze.

La Cassazione, peraltro, operava anche una statuizione di ufficio, rilevando la illegalità delle pene accessorie irrogate al ricorrente ai sensi dell'art. 216, comma 4 l. fall.

La questione

Le questioni sottoposte all'attenzione della Cassazione concernono dunque imputazioni riguardanti i reati di bancarotta fraudolenta per distrazione di cui all'art. 216, comma 1 n. 1) l. fall. e di ricorso abusivo al credito di cui all'art. 218 l. fall., delineandosi più in particolare il seguente oggetto di analisi:

1) quale sia il fatto tipico del reato di ricorso abusivo al credito e se quest'ultimo sia reato di natura commerciale ovvero fallimentare;

2) in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, in quali termini abbia incidenza sul perfezionamento del reato l'omesso rinvenimento di beni già nella disponibilità dell'imprenditore fallito e quale debba essere la quantificazione delle pene accessorie in ipotesi di condanna.

Le soluzioni giuridiche

1. Il reato di ricorso abusivo al credito, disciplinato dall'art. 218 l. fall., vuole salvaguardare le ragioni creditorie dal pericolo di inadempimento derivante dall'assunzione, da parte dell'imprenditore che dissimuli il proprio stato di insolvenza, di una o più obbligazioni le quali sarebbero perciò destinate, secondo l'id quod plerumque accidit, a rimanere inadempiute, conseguentemente riducendosi anche la probabilità di soddisfacimento degli altri creditori in ragione del complessivo aumento del passivo.

Il reato è a forma libera, acquisendo rilievo l'assunzione di una obbligazione indipendentemente dallo strumento giuridico utilizzato e dalla presenza di garanzie; appare perciò difficile dubitare come la condotta posta in essere nel caso di specie -consistita dall'avere ottenuto finanziamenti da istituti di credito tramite l'emissione di ricevute bancarie destinate a tornare insolute- fosse idonea ad integrarne la tipicità, ciò avendo determinato, inevitabilmente, un significativo debito verso detti istituti di credito in una situazione in cui la società fallita versava ormai in stato di insolvenza.

La Corte di Cassazione peraltro, nel valutare se il reato di ricorso abusivo al credito fosse estinto per prescrizione, ha affrontato, sia pure incidentalmente, la questione della sua natura, ovvero se esso sia reato commerciale oppure fallimentare, nel primo caso escludendosi la necessità, ai fini della punibilità del fatto, che l'imprenditore sia dichiarato fallito. La Corte tuttavia, pur dando atto dell'esistenza sul tema di un contrasto giurisprudenziale (ancorché le pronunce più recenti propendano per la tesi della natura fallimentare del reato; cfr. in ultimo Cass., 27 ottobre 2014, n. 44857, in CED rv261312 - 01), non ha assunto una diretta posizione sulla questione anche perché, in effetti, il reato in oggetto sarebbe stato prescritto in ogni caso e dunque sia ove si propenda per la tesi della sua natura commerciale (nel quale caso il termine di prescrizione decorrerebbe dal momento in cui il credito è stato ottenuto) che fallimentare (nel qual caso il termine di prescrizione decorrerebbe dal momento della sentenza dichiarativa di fallimento).

2. In tema di bancarotta fraudolenta la Suprema Corte, nella sentenza qui annotata, aderisce al tradizionale orientamento giurisprudenziale secondo cui, una volta accertato che l'imprenditore ha avuto la disponibilità di determinati beni, nel caso in cui egli non renda conto del loro mancato reperimento né sappia giustificarne l'impiego per effettive necessità aziendali, si deve dedurre che gli stessi siano stati distratti e ciò in quanto egli ha l'obbligo giuridico di fornire dimostrazione della destinazione dei beni acquisiti al suo patrimonio. Né la giustificazione fornita nel caso di specie secondo cui il mancato reperimento delle scorte di ferro sarebbe stato dovuto ad una loro naturale dispersione a seguito degli scarti di lavorazione è stata ritenuta conforme a logica, trattandosi di un quantitativo pari addirittura a 807 tonnellate.

3. All'affermazione di responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale seguiva la condanna dell'imputato alle pene accessorie della inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e della incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni.

Com'è noto, tuttavia, la Corte Costituzionale ha recentemente dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 27, commi 1 e 3 Cost., l'art. 216, ultimo comma l. fall. nella parte in cui dispone: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa», anziché: «la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni» (cfr. Corte Cost., 25 settembre 2018, n. 222), per cui la Corte di Cassazione ha rilevato di ufficio la illegalità delle pene accessorie già irrogate al ricorrente.

In merito al trattamento sanzionatorio in grado di sostituirsi alla disciplina dichiarata incostituzionale, e dunque da applicare al caso concreto, la Suprema Corte tuttavia si è discostata dalla soluzione interpretativa offerta dal giudice delle leggi. Quest'ultimo, in particolare, aveva ritenuto non condivisbile la soluzione prospettata dal giudice rimettente secondo cui, eliminato l'inciso “per la durata di dieci anni”, avrebbe trovato applicazione l'art. 37 c.p., prospettando al contrario la diversa soluzione secondo cui a detto inciso “per la durata di dieci anni” deve sostituirsi quello “fino a dieci anni”, e ciò in parallelo con la displina tratta dagli artt. 217, comma 3 l. fall. e 218, comma 3 l. fall. ove si dispone che le pene accessorie per il reato di bancarotta semplice siano stabilite fino a due anni e per quello di ricorso abusivo al credito fino a tre anni. Ne conseguirebbe che, tramite tale suggerita inoperatività dell'art. 37 c.p., le pene accessorie della bancarotta fraudolenta potrebbero avere durata maggiore di quella della pena principale.

La Corte di Cassazione muove dalla premessa secondo cui l'appena menzionata prospettiva ermeneutica del giudice delle leggi esula dalla ratio decidendi ed é indipendente dalla parziale dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 216, ultimo comma l. fall., con la conseguenza che la soluzione ermeneutica in argomento non costituisce vincolo per l'interprete. A conferma di ciò, del resto, si ricorda come la stessa Corte costituzionale abbia avuto cura di tener fermo il principio secondo cui “la valutazione del modo in cui il sistema normativo reagisce ad una sentenza costituzionale di accoglimento [...] spetta al giudice del processo principale, unico competente a definire il giudizio da cui prende le mosse l'incidente di costituzionalità”, rilievo questo che appare valido a fortiori per i giudici comuni diversi dal giudice a quo.

Ciò premesso, la Corte di Cassazione esclude l'esistenza di ragioni per discostarsi dall'interpretazione largamente prevalente nella giurisprudenza di legittimità secondo cui la previsione di una sanzione determinata soltanto nel massimo, così come ora in effetti accade anche nel caso dell'art. 216 l. fall. con l'introduzione -conseguente alla sentenza della Corte Costituzionale - dell'inciso “fino a dieci anni”, dà luogo proprio all'applicabilità dell'art. 37 c.p., il quale dispone che, in tali ipotesi, le pene accessorie debbono essere commisurate alla durata della pena principale e d'altra parte, osserva ancora la Suprema Corte, la diversa soluzione suggerita dal giudice delle leggi appare potenzialmente foriera di esiti in malam partem, consentendo l'irrogazione di una pena accessoria di durata maggiore di quella della pena principale.

La tesi della applicabilità dell'art. 37 c.p., come già sostenuto da altre pronunce della Suprema Corte tra cui Cass., Sez. Un., 27 novembre 2014 n. 6240, in CED rv. 262328-01 richiamata da quella in commento), appare peraltro dettata dallo stesso inciso finale dell'art. 37 c.p. dove si specifica che in nessun caso la pena accessoria temporanea non espressamente determinata “può oltrepassare il limite minimo e quello massimo stabiliti per ciascuna specie di pena accessoria”; si comprende infatti che non vi sarebbe stata necessità di tale precisazione ove il principio della uniformità temporale tra pena principale e pena accessoria, sancito dalla norma, non avesse trovato applicazione nelle ipotesi di indicazione di un minimo o di un massimo della durata di ciascuna specie di pena accessoria (sì da scongiurare la conclusione, a titolo meramente esemplificativo, che a fronte di una condanna alla pena principale in ipotesi di tre anni di reclusione per un reato di bancarotta semplice e dovendosi applicare una pena accessoria di pari durata, quest'ultima possa comunque superare i due anni, limite edittale quest'ultimo previsto dall'art. 217 l. fall.).

Conclusioni

La sentenza della Suprema Corte qui brevemente annotata, oltre a ribadire principi consolidati in tema di bancarotta fraudolenta, riveste significativo interesse in quanto costituisce una delle prime pronunce emesse successivamente alla dichiarazione di parziale incostituzionalità dell'art. 216, ultimo comma l. fall., per di più discostandosi, con condivisibili argomenti, dalla interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale circa la disciplina che nell'immediato, in attesa di una riforma organica del sistema delle pene accessorie, possa sostituirsi a quella dichiarata costituzionalmente illegittima.

In merito al reato di ricorso abusivo al credito resta aperta, invece, la questione della sua natura commerciale oppure fallimentare, sul punto la Corte essendosi limitata ad una ricognizione delle diverse posizioni giurisprudenziali senza tuttavia cogliere l'occasione per pronunciarsi espressamente in favore dell'una o dell'altra tesi.

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