L’esecuzione della pena presso il domicilio non si applica ai condannati minorenni
04 Marzo 2019
Massima
In tema di esecuzione penale nei confronti di condannati minorenni, non è applicabile l'istituto della esecuzione della pena presso il domicilio, introdotto per i condannati adulti dalla legge 26 novembre 2010, n. 199, trattandosi di modalità esecutiva non espressamente richiamata dagli artt. 1 e 2 d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121 e priva di contenuto rieducativo e, per tale ragione, contrastante con le finalità di recupero del soggetto minore cui è orientato l'ordinamento penitenziario minorile. Il caso
Il difensore di B.V., una giovane donna detenuta presso l'I.P.M. di Casal del Marmo, presenta istanza di applicazione dell'esecuzione della pena presso il domicilio ai sensi della legge 199/2010 in relazione alla pena di cui al provvedimento di cumulo del P.M. Minori di Brescia n. 11/16 emesso in data 31 gennaio 2019, con riferimento alla parte residua della pena ancora da espiare e un fine pena fissato al 10 dicembre 2019. Il Magistrato di sorveglianza per i minorenni di Roma, territorialmente competente sul detto istituto minorile, assumendo inapplicabile ai condannati minori d'età lo strumento dell'esecuzione domiciliare, riqualifica la domanda sub specie di richiesta di concessione della detenzione domiciliare e rigetta l'istanza per la ritenuta inidoneità del domicilio proposto, trattandosi di un camper provvisoriamente parcheggiato in luogo pubblico, senza specifica autorizzazione al pernotto stabile e valutate le informazioni acquisite dai Carabinieri, che avevano segnalato l'inidoneità del domicilio, a motivo dell'alta presenza di pregiudicati nella zona e dell'assenza di adeguata possibilità di controllo. La questione
La questione principale affrontata dal provvedimento in rassegna è la seguente: se sia ammissibile l'applicazione, ai condannati minorenni, dell'istituto della esecuzione della pena presso il domicilio, introdotto dalla l. 26 novembre 2010, n. 199. Le soluzioni giuridiche
La decisione del M.D.S.M. di Roma affronta la delicata questione dell'applicabilità ai condannati minorenni dell'esecuzione della pena presso il domicilio di cui all'art. 1 della l. 199/2010, alla luce della riforma dell'ordinamento minorile varata con il d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 121 (Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 81, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103), che ha previsto, per la prima volta, una specifica e organica disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni. La soluzione cui perviene in Magistrato di sorveglianza, che non ritiene applicabile l'istituto “svuotacarceri” ai minori d'età, si fonda su argomenti di natura letterale e, soprattutto, sistematica. Viene, anzitutto, richiamato il principio di sussidiarietà, in forza del quale, fino al compimento del venticinquesimo anno di età del condannato, l'esecuzione penale e penitenziaria si sviluppa – salvo tassative eccezioni - secondo le regole stabilite per i minorenni. Precisamente, l'art. 1 d.lgs. 121/2018 prevede che trovino applicazione in via prioritaria le disposizioni del medesimo decreto (tanto sotto il profilo del procedimento quanto in relazione alle modalità applicative delle misure penali di comunità) e, per quanto da esse non previsto, quelle del codice di procedura penale, della legge 26 luglio 1975 n. 354, del relativo regolamento di attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000 n. 230 e del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, e relative norme di attuazione, di coordinamento e transitorie approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272. A tale “catalogo” della normativa applicabile in via sussidiaria ai minori si aggiunge il richiamo, contenuto nel comma 12 dell'art. 2, d.lgs. 121/2018, alla disciplina dell'affidamento in prova in casi particolari (art. 94, d.P.R. 309/1990) e alle disposizioni sull'affidamento in prova, detenzione domiciliare e semilibertà contenute nella l. 354/1975. Tali disposizioni si applicano, tuttavia, “in quanto compatibili” con le norme peculiari contenute nel d.lgs. 121/2018. Resta, dunque, testualmente esclusa dal novero delle misure applicabili ai minorenni l'esecuzione domiciliare di cui alla l. 199/2010. Un secondo argomento valorizzato dalla decisione in rassegna si sviluppa sul piano sistematico, prendendo le mosse dal principio di ordine generale in materia di esecuzione della pena per i minorenni, iscritto nell'art. 3 del d.lgs. 121/2018, in forza del quale, per tutte le misure penali di comunità, il tribunale di sorveglianza deve prescrivere lo svolgimento di attività di utilità sociale, anche a titolo gratuito, o di volontariato. Inoltre, il primo comma dell'art. 2 del decreto cit. prescrive che tutte le misure devono prevedere un “programma di intervento educativo”. L'art. 6, del medesimo testo normativo, infine, stabilisce che, anche nel disporre la detenzione domiciliare, il tribunale di sorveglianza fissa le relative modalità tenendo conto del programma di intervento educativo predisposto dall'Ufficio di servizio sociale per i minorenni. Il compendio normativo sopra enunciato è coerente con la ratio legis che traspare, altresì, dal comma 2 dell'art. 1, ove si afferma che «l'esecuzione della pena detentiva e delle misure penali di comunità deve favorire percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime del reato, tendendo a favorire la responsabilizzazione, l'educazione e il pieno sviluppo psicofisico del minorenne, la preparazione alla vita libera, l'inclusione sociale e a prevenire la commissione di ulteriori reati, anche mediante il ricorso ai percorsi di istruzione, di formazione professionale, di educazione alla cittadinanza attiva e responsabile, e ad attività di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero». Nella prospettazione accolta dal provvedimento del M.D.S.M. di Roma, il convergente dato derivante da tali indicazioni ermeneutiche porta, in definitiva, a escludere che, nell'assetto delineato dalla riforma dell'ordinamento minorile, possa trovare ulteriore spazio applicativo l'esecuzione della pena presso il domicilio. All'argomento testuale che – sulla base del principio di sussidiarietà – non contempla tale strumento tra le misure applicabili ai condannati minorenni si affianca, infatti, la prospettiva sistematica, alla luce della quale l'assenza di contenuto rieducativo dell'esecuzione domiciliare rende tale “beneficio” un quid del tutto eccentrico rispetto alle coordinate educative che l'ordinamento penitenziario minorile intende perseguire mediante le peculiari modalità esecutive della pena approntate per i minori infraventicinquenni, che vengono meno soltanto qualora «le finalità educative non risultano in alcun modo perseguibili a causa della mancata adesione al trattamento in atto» (art. 24 d.lgs. 121/2018). Il M.D.S.M. di Roma si pone anche la questione della possibile disparità di trattamento che tale approdo interpretativo potrebbe determinare rispetto al sistema esecutivo previsto per i condannati adulti, sotto il profilo della maggiore celerità della procedura di cui alla l. 199/2010 che potrebbe consentire un più rapido accesso dei condannati all'esecuzione extramuraria. Tale considerazione potrebbe, invero, sostenere la tesi dell'applicabilità dello strumento de quo anche ai minorenni, sulla scorta del principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 323/2000, ove, nell'affrontare il tema del rapporto fra c.p.p. e d.P.R. 448/1988, ha ribadito quale criterio discretivo quello del favor minoris. Evidenzia, tuttavia, il giudice che il caso affrontato dalla Corte, riguardava una disposizione intervenuta successivamente all'entrata in vigore del d.P.R. 448/1988, laddove, nel caso del d.lgs. 121/2018, quest'ultimo è invece posteriore alla l. 199/2010, talché se ne inferisce che il legislatore non l'abbia voluta consapevolmente richiamare, costruendo un sistema che dovrebbe garantire comunque, attraverso l'attività dispiegata dagli USSM, una tempestiva predisposizione del programma di intervento educativo e così consentire al giudice di sorveglianza di provvedere con la opportuna celerità sull'applicazione delle misure di comunità, salva sempre la possibilità di un'applicazione in via provvisoria delle medesime da parte del magistrato di sorveglianza. Osservazioni
La decisione in rassegna, assunta alla luce della riforma dell'ordinamento penitenziario minorile introdotta con il d.lgs. 121/2018, costituisce un leading precedent in materia di rapporti tra le fonti e risolve, in termini condivisibili – come subito si dirà – la questione dell'applicabilità ai condannati minori e infraventicinquenni della misura “svuotacarceri” prevista dalla l. 199/2010. Soluzione applicativa, quella affacciata dal M.D.S.M., che poggia su un duplice e solido fondamento: la natura “chiusa” del catalogo di fonti normative delineato nell'art. 1 del d.lgs. 121/2018 che – ubi lex voluit, dixit – non richiama il disposto della l. 199/2010 (né, per inciso, l'istituto della sospensione della pena di cui all'art. 90, d.P.R. 309/1990); e l'argomento sistematico, per cui l'obbligatorio svolgimento di un programma educativo (nonché di un'attività di volontariato o di utilità sociale) non è compatibile con l'istituto dell'esecuzione domiciliare, che prescinde da considerazioni di natura (ri)educativa, essendo ispirato a finalità di mera deflazione del sovraffollamento carcerario. L'argomento utilizzato dal giudice romano appare difficilmente superabile poiché il dato letterale rispecchia esattamente la volontà del legislatore (si veda al proposito la Relazione illustrativa al decreto) di identificare con precisione le fonti legislative destinate a costituire il corredo normativo su cui si sviluppa il nuovo ordinamento minorile. Tale lettura potrebbe essere superata soltanto negando ai richiami normativi contenuti nelle disposizioni di cui all'art. 1 e 2, comma 12, d.lgs. 121/2018 natura di numerus clausus. Ma una tale prospettazione mal si concilia tanto con l'inequivocabile dato letterale, dal quale traspare l'evidente intenzione del legislatore di delimitare il novero delle fonti normative applicabili all'esecuzione minorile a quelle sole testualmente richiamate (altrimenti non si spiegherebbe la ragione di una tale elencazione), quanto con la circostanza che, nella originaria versione del decreto approvata in sede di “preconsiglio”, non compariva il riferimento alle disposizioni del d.P.R. 309/1990, inserito solo in un secondo tempo nel comma 12 dell'art. 2, una volta palesatasi l'iniziale omissione: un intervento che non si giustifica, evidentemente, se non in un'ottica, appunto, di numerus clausus. Tale precisa opzione legislativa è, del resto, funzionale alla salvaguardia delle peculiari modalità esecutive dell'ordinamento penitenziario minorile, quali esplicitate nel comma 2 dell'art. 1, d.lgs. 121/2018, in base al quale essa deve svilupparsi attraverso l'effettuazione di percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime di reato; porre attenzione alle esigenze di responsabilizzazione, educazione e pieno sviluppo psico-fisico del minorenne; preparare alla vita libera; favorire l'inclusione sociale e la prevenzione della commissione di ulteriori reati, anche mediante il ricorso ai percorsi di istruzione, di formazione professionale, di istruzione e formazione professionale, di educazione alla cittadinanza attiva e responsabile, e attività di utilità sociale, culturali, sportive e di tempo libero. E' in tale contesto che le considerazioni di natura sistematica espresse dal provvedimento in commento appaiono particolarmente convincenti, soprattutto se lette in comparazione sistematica con la previsione del d.lgs. 121/2018, art. 2, comma 12, che – proprio a salvaguardia di tali peculiari modalità dell'esecuzione penale minorile – stabilisce che le disposizioni in materia di misure alternative alla detenzione di cui alla l. 354/1975 si applicano ai minori “in quanto compatibili”. Il senso di tale clausola di salvaguardia si coglie, appieno qualora si consideri che, alla luce del diritto vivente, alcune misure (si pensi, per richiamare l'esempio più pertinente alla questione qui in analisi, alle tipologie di detenzione domiciliare disciplinate dall'art. 47-ter, ord. penit.)non consentono quelle deroghe alle prescrizioni che sarebbero necessarie allo svolgimento di attività riparative, di percorsi di inclusione sociale o di volontariato. Con riferimento specifico alla possibilità per il giudice di autorizzare il detenuto domiciliare ad assentarsi dal domicilio,ove lo stesso non possa altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita ovvero versi in situazione di assoluta indigenza (art. 284 c.p.p.), la giurisprudenza di legittimità è giunta, infatti, ad affermare che la valutazione del giudice deve essere improntata a criteri di particolare rigore, di cui deve essere dato conto nella motivazione del relativo provvedimento (Cass, I, n. 3649/99), essendo – per altro verso - ammessa solo da una parte della dottrina la possibilità che il contenuto delle prescrizioni, essenzialmente di contenuto negativo (divieto di frequentare luoghi o persone), possa estendersi a prescrizioni di segno positivo, implicanti un facere. Tali considerazioni acquistano ancor più forza ove si confrontino le sopra evocate modalità esecutive specifiche dell'esecuzione minorile con le caratteristiche di mera “esecuzione della pena” che connotano lo strumento deflativo di cui alla l. 199/2010. Quest'ultimo, invero, come ha in più occasioni ribadito la giurisprudenza di legittimità, integra una soluzione esecutiva approntata dal legislatore per mere finalità di deflazione della popolazione carceraria, la cui applicazione resta subordinata alla sola positiva verifica dell'assenza di particolari elementi di pericolosità (collegati al pericolo di fuga o di reiterazione di reati) e della disponibilità di un idoneo domicilio, senza alcuna valutazione afferente ai profili di meritevolezza del detenuto o di risocializzazione del medesimo (Cass. pen., Sez. I, 10 febbraio 2014, n. 6138, che ha, altresì, affermato la ontologica differenza tra l'esecuzione domiciliare e la misura alternativa della detenzione domiciliare). Orbene, nel caso della realtà minorile, non solo non ricorre quella situazione di emergenza sotto il profilo della sovrappopolazione carceraria che ha indotto al varo della misura “svuotacarceri” di cui alla l. 199/2010 e che – in linea di tesi – potrebbe fondare un'applicazione analogica di tale strumento alla realtà minorile in forza della eadem ratio, ma vi è, per converso, l'esigenza di applicare strumenti trattamentali ed esecutivi che obbediscano alle prioritarie esigenze educative del condannato minore, che il legislatore ha voluto tendenzialmente prevalenti su quelle di natura meramente custodiale collegate a valutazioni inerenti alla pericolosità soggettiva. Evidente, in questa prospettiva, che la modalità esecutiva domiciliare, modellata dalla legge “svuotacarceri” su coordinate essenzialmente custodiali, non risponda (e sia, anzi, antitetica) alle finalità educative peculiari dell'esecuzione minorile, non potendo, per sua stessa natura, configurarsi quale misura alternativa alla detenzione compatibile con gli ambi spazi di libertà che lo svolgimento del progetto educativo e delle attività correlate (es. volontariato o lpu) necessariamente implicano, in un'ottica di educazione e responsabilizzazione del minorenne. Quest'ultima considerazione induce una ulteriore riflessione. È pur vero che, nella materia minorile, l'interprete privilegia la soluzione ermeneutica che, astrattamente, appaia più favorevole al condannato quale potrebbe apparire, appunto, l'ipotesi di ritenere applicabile nell'esecuzione minorile uno strumento che – in ultima analisi – consente una fuoriuscita dal circuito penitenziario. Tuttavia, si tratta di una opzione che andrebbe comunque adottata nel rispetto della specificità dell'ordinamento minorile, che obbedisce – in ogni fase del percorso esecutivo - all'imperativo della massimizzazione dell'effetto educativo del trattamento e dei benefici somministrati ai minori, che impone una strutturazione della disciplina in molti casi non corrispondente a quella ordinaria. Si pensi, a titolo esemplificativo, alla previsione per cui non è consentita – a differenza di quanto avviene con riguardo alle esecuzioni nei confronti dei condannati adulti (v. art. 678 c.p.p.) – l'iniziativa ufficiosa per la concessione dei benefici penitenziari (art. 11, d.lgs. 121/2018): quella che, di primo acchito, potrebbe apparire come una disposizione che introduce un trattamento deteriore per i minori rispetto agli adulti, rappresenta, invece, una ben precisa scelta del legislatore mirata a responsabilizzare il condannato minorenne in rapporto alla propria vicenda esecutiva (si veda in proposito la Relazione illustrativa al decreto). Nella medesima prospettiva quella che, in prima battuta, potrebbe apparire una soluzione coerente con il favor minoris (vale a dire la possibilità di applicare l'esecuzione domiciliare di cui allal. 199/2010 anche ai minori) si risolve, a ben considerare, in una opzione interpretativa contraria alle peculiari finalità dell'ordinamento minorile che – per usare le parole del Giudice delle leggi – persegue l'individualizzazione del trattamento e l'educazione del minore condannato, ribadendo che l'esecuzione penale minorile deve favorire il ricorso alle misure alternative risocializzanti, in linea con le indicazioni internazionali, convenzionali ed europee (Corte cost., sent. 90/2017). Applicare a soggetti minorenni uno strumento meramente alternativo al carcere senza alcuna connessa progettualità educativa non soltanto integrerebbe un tradimento degli scopi che la riforma introdotta con il d.lgs. 121/2018 intende perseguire, ma potrebbe, per di più, rappresentare una via per eludere surrettiziamente il preciso disposto di alcuni capisaldi della riforma minorile: si intende alludere a quanto prescrivono gli artt. 1, comma 2 (quanto alle modalità esecutive nei confronti dei minori), 2 comma 2 (in tema di obbligatoria predisposizione di un programma educativo) e 3 comma 1 (ogni misura deve prescrivere lo svolgimento di attività di volontariato o di utilità sociale). Alla luce delle ben note difficoltà operative a predisporre una così articolata progettualità è, infatti, concreto il rischio che la “svuotacarceri” possa essere individuata nella pratica come un facile mezzo per aggirare l'impegnativa fase construens del contenuto educativo della misura in nome di scorciatoie applicative che, certamente, non si collocano nella cornice ideale posta alla base del nuovo ordinamento. |