Prime osservazioni al Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: riflessi penalistici

Niccolò Bertolini Clerici
26 Marzo 2019

Lo scorso 14 febbraio 2019 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto Legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 «Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155» destinato a entrare in vigore - salvo alcune specifiche disposizioni vigenti a far data dal 16 marzo 2019 - a partire dal 15 agosto 2020. Per quanto attiene ai profili penalistici della materia, la disciplina della bancarotta e degli altri reati fallimentari attualmente contenuta nella legge fallimentare viene trasferita, pressoché invariata, agli articoli 322-347 del nuovo codice.
Introduzione

Lo scorso 14 febbraio 2019 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto Legislativo 12 gennaio 2019, n. 14 «Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155» destinato a entrare in vigore - salvo alcune specifiche disposizioni vigenti a far data dal 16 marzo 2019 - a partire dal 15 agosto 2020.

Fine dichiarato della delega e perseguito dal legislatore delegato, è stato quello di realizzare una riforma organica della materia delle procedure concorsuali capace di favorire l'emersione dello stato di crisi in un momento, precedente all'insolvenza, che consenta interventi di ristrutturazione tempestivi e, per ciò stesso, più efficaci nell'ottica della maggior tutela del ceto creditorio e del recupero di efficienza dell'attività d'impresa.

Come subito rilevato a ridosso della pubblicazione dello schema di decreto legislativo avvenuta nel mese di novembre 2018, tale riforma, coerentemente con il contenuto della delega, ha riguardato quasi esclusivamente le disposizioni di natura civilistica.

Per quanto attiene, quindi, ai profili penalistici della materia - in via di prima approssimazione e sintesi - la disciplina della bancarotta e degli altri reati fallimentari attualmente contenuta nella legge fallimentare viene trasferita, pressoché invariata, agli articoli 322-347 del nuovo codice, costituendone il Titolo IX dedicato alle «Disposizioni penali».

Obiettivo di questo contributo è quello di fornire, con specifico riferimento ai profili penalistici, una prima fotografia delle limitate novità introdotte dal nuovo articolato, non mancando di soffermare l'attenzione su alcuni aspetti della nuova disciplina che paiono utili al richiamo di talune problematicità che hanno caratterizzato l'applicazione delle disposizioni penali della legge fallimentare.

Le principali novità in materia penale

La principale - se non altro perché di più immediata evidenza - tra le novità che accompagnano il trasferimento di tale disciplina nel nuovo contenitore normativo è di natura lessicale: coerentemente con le finalità del codice di cui si è detto, le disposizioni penalistiche hanno recepito la sostituzione del termine «fallimento» con la locuzione «liquidazione giudiziale» operata dall'art. 349 c.c.i. secondo cui «nelle disposizioni normative vigenti i termini “fallimento”, “procedura fallimentare”, “fallito” nonché le espressioni dagli stessi termini derivate devono intendersi sostituite, rispettivamente, con le espressioni “liquidazione giudiziale”, “procedura di liquidazione giudiziale” e “debitore assoggettato a liquidazione giudiziale” e loro derivati».

Sempre per ciò che attiene le disposizioni penalistiche, si segnalano, inter alia:

(i) l'abrogazione espressa dell'art. 221 l.fall. che, come noto, prevede la riduzione di un terzo delle pene previste per la bancarotta, per il ricorso abusivo al credito e per la denuncia di creditori inesistenti laddove venga applicato al fallimento il rito sommario (anch'esso abrogato);

(ii) l'abrogazione espressa dell'art. 235 l.fall. che punisce la violazione dell'obbligo (abrogato dall'introduzione del codice) di trasmissione dell'elenco dei protesti cambiari al presidente del tribunale;

(iii) la previsione, a mezzo dell'art. 25 del codice, di peculiari misure premiali che spaziano dalla clausola espressa di non punibilità in caso di particolare tenuità del danno, alla circostanza attenuante a effetto speciale prevista per i casi di parziale soddisfacimento di una porzione dei debiti chirografari. A queste ultime verrà dedicato, infra, un apposito paragrafo;

(iv) l'introduzione di fattispecie punitive della condotta dell'imprenditore che dissimula la propria condizione finanziaria al fine di accedere alla nuova procedura di esdebitazione e la rimodellazione della fattispecie di falsità in attestazioni per l'accesso al concordato con l'introduzione di un reato di falso proprio dei componenti degli organismi di composizione della crisi che nelle attestazioni relative ai dati aziendali del debitore che voglia presentare domanda di concordato preventivo o accordo di ristrutturazione dei debiti espongano informazioni false ovvero omettano di riferire informazioni rilevanti in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel pianoonei documenti ad esso allegati.

Le ultime modifiche appena citate saranno oggetto, infra, di un più dettagliato approfondimento una volta delineati i profili generali che esercitano maggiore significatività in termini penalistici.

Gli artt. 2 e 121 del codice: soggetti attivi e presupposto oggettivo. L'insolvenza e il dissesto della società

Fatta questa breve premessa, viene subito in rilievo l'art. 121 c.c.i., rubricato «Presupposti della liquidazione giudiziale» ai sensi del quale «Le disposizioni sulla liquidazione giudiziale si applicano agli imprenditori commerciali che non dimostrino ilpossesso congiunto dei requisiti di cui all'articolo 2, comma 1, lettera d), e che siano in stato di insolvenza».

Secondo quanto disposto da quest'ultima norma, quindi, sono esclusi dalla liquidazione giudiziale, come oggi sono esclusi dal fallimento, le imprese minori, vale a dire quelle attività che presentano congiuntamente i seguenti requisiti:

1) «unattivopatrimonialediammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore»;

2) «ricavi, in qualunque modo essi risultino, per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell'istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall'inizio dell'attività se di durata inferiore»;

3) «un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila».

Considerate tali esclusioni, ed effettuato il coordinamento reso necessario dalla sostituzione del concetto di fallimento con quello di liquidazione giudiziale, le nuove disposizioni penali prevedono che soggetto attivo della bancarotta propria sia l'imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale (art. 322 c.c.i.) mentre della bancarotta impropria o societaria lo è l'amministratore (direttore generale, sindaco, liquidatore) di società in liquidazione giudiziale (art. 329 c.c.i.).

Coerentemente, deve ritenersi che manterrà immutata applicabilità anche in materia penale-concorsuale l'art. 2639 c.c. che, come noto, equipara al soggetto formalmente investito della qualifica o titolare della funzione prevista dalla legge civile anche colui che esercita di fatto in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione.

A ben vedere, le citate disposizioni di cui agli articoli 121 e 2 c.c.i. ripercorrono non solo i contenuti dell'art. 1 dell'attuale legge fallimentare, identificando i soggetti a cui si applicano le disposizioni sulla liquidazione giudiziale, ma individuano anche il presupposto oggettivo dell'essere «in stato di insolvenza» (come l'attuale art. 5 l.fall. opera con riferimento al fallimento).

In tal senso infatti l'art. 2 c.c.i. - non diversamente dall'attuale art. 15 l.fall. - prevede che l'insolvenza corrisponda allo «stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni».

L'insolvenza mantiene dunque la stessa funzione di presupposto per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale che, quindi, viene necessariamente ad assumere la stessa valenza della sentenza dichiarativa di fallimento.

Valenza che, secondo il più recente orientamento interpretativo assunto dalla Corte di legittimità, è quella di condizione obiettiva di punibilità per tutte le fattispecie di bancarotta fraudolenta pre-fallimentare che, connaturandosi come fattispecie di pericolo, non contemplano la dichiarazione di fallimento (recte: di apertura della liquidazione giudiziale) quale elemento oggettivo intrinseco del tipo legale.

Lo stato di dissesto: l'occasione mancata per fare chiarezza. La bancarotta impropria per operazioni dolose: l'evento dissesto

L'art. 2 c.c.i. (come, in generale, l'intero codice) non definisce, invece, lo stato di dissesto, che non pochi problemi interpretativi ha posto nella vigenza dell'attuale legge fallimentare, dovendosi ritenere concetto necessariamente differente dallo stato di insolvenza.

In tal senso muove il fatto che, come infatti già previsto rispettivamente dagli artt. 218 e 223, comma 2, n. 1 l.fall. in materia di ricorso abusivo al credito e bancarotta fraudolenta impropria da reati societari, i corrispondenti artt. 325 e 329, comma 2, lett. a) c.c.i. trattano il concetto di dissesto in maniera alternativa e distinta dallo stato di insolvenza escludendo, pertanto, sinonimia o equipollenza normativa degli stessi.

Il termine dissesto, quindi, anche a seguito dell'approvazione del codice, resta un concetto privo di un definito fondamento giuridico e che non sempre è agevole collocare in una fase precedente o concomitante all'insolvenza.

In proposito basti ricordare che, mentre autorevolissima dottrina osservava che il dissesto «riflette il substrato economico patrimoniale dell'insolvenza, lo squilibrio tra attività e passività: deteriorando il relativo rapporto si cagiona o si aggrava il dissesto» (Pedrazzi, in Pedrazzi-Sgubbi, Reati commessi dal fallito, Milano, 1994, 335), la dottrina più recente (e ormai in numero sempre più nutrito) ritiene che invece il dissesto costituisca un quid minus rispetto all'insolvenza e, quindi, al fallimento (recte: alla liquidazione giudiziale).

Al riguardo merita una specifica e autonoma menzione la bancarotta societaria impropria per effetto di operazioni dolose.

Non può passare inosservato, infatti, che l'attuale formulazione dell'art. 223, comma 2, n. 2, l.fall. punisce la condotta del cagionare, con dolo o per effetto di operazioni dolose, il «fallimento», laddove, invece, l'art. 329, comma 2, lett. b) c.c.i. (dove trova ricollocazione, nel nuovo articolato. la medesima fattispecie punitiva) si riferisce espressamente alla causazione del «dissesto».

Trattandosi, come noto, di un tipo legale costruito secondo lo schema del reato d'evento, la nuova (e diversa) formulazione della norma potrebbe determinare non secondari riflessi in termini sostanziali (si pensi al momento consumativo del reato) e/o probatori.

Le misure premiali

Come anticipato, tra i profili penalistici della nuova disciplina di più immediata evidenza, trovano sicura menzione le c.d. misure premiali delineate dagli articoli 24 e 25 c.c.i., ai sensi dei quali, nei casi in cui il debitore abbia posto in essere l'iniziativa volta a prevenire l'aggravarsi della crisi in via tempestiva, sono riconosciuti determinati «benefici» anche di natura penale.

In particolare, l'art. 25 c.c.i., dopo aver delineato al comma primo i benefici di natura tributaria e concorsuale, prevede, al comma secondo che «quando, nei reati di cui agli articoli 322, 323, 325, 328, 329, 330, 331, 333 e 341, comma 2, lettere a) e b), limitatamente alle condotte poste in essere prima dell'apertura della procedura, il danno cagionato è di speciale tenuità, non è punibile chi ha tempestivamente presentato l'istanza all'organismo di composizione assistita della crisi d'impresa ovvero la domanda di accesso a una delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza di cui al presente codice se, a seguito delle stesse, viene aperta una procedura di liquidazione giudiziale o di concordato preventivo ovvero viene omologato un accordo di ristrutturazione dei debiti. Fuori dai casi in cui risulta un danno di speciale tenuità, per chi ha presentato l'istanza o la domanda la pena è ridotta fino alla metà quando, alla data di apertura della procedura di regolazione della crisi o dell'insolvenza, il valore dell'attivo inventariato o offerto ai creditori assicura il soddisfacimento di almeno un quinto dell'ammontare dei debiti chirografari e, comunque, il danno complessivo cagionato non supera l'importo di 2.000.000 euro».

La disposizione prevede, quindi, che nei casi di bancarotta fraudolenta o semplice, commessa sia dall'imprenditore in liquidazione giudiziale sia da soggetti diversi, oltre che nei casi di ricorso abusivo al credito, e purché si tratti di concotte pre-liquidatorie, trovino applicazione una causa di non punibilità per danno di speciale tenuità e una circostanza attenuante ad effetto speciale.

Si osservi che la causa di non punibilità, ancorché possa apparire, a prima vista, mutuata dall'istituto dell'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis c.p., non prevede alcuno dei requisiti stabiliti in proposito dalla citata norma codicistica quali, principalmente, la non abitualità del comportamento. D'altra parte, essendo incentrata sul concetto di danno, mal si concilia con tutte quelle fattispecie di bancarotta che, in attesa della loro attesa riformulazione, sono attualmente configurate come reati di pericolo.

La circostanza attenuante ad effetto speciale, a sua volta, opera allorché la condotta non abbia cagionato un danno di speciale tenuità, secondo un criterio quantitativo di raffronto fra l'attivo e il passivo della procedura: la pena è ridotta fino alla metà, qualora alla data di apertura della procedura di regolazione della crisi o dell'insolvenza, il valore dell'attivo inventariato o offerto ai creditori superi il quinto dell'ammontare dei debiti.

La falsità in attestazioni e nelle dichiarazioni di accesso alle procedure di composizione della crisi

Il delitto proprio del professionista attestatore, come noto disciplinato dall'attuale formulazione dell'art. 236-bis l.fall., viene incorporato dal codice della crisi d'impresa nell'art. 342 c.c.i. ai sensi del quale il professionista che nelle relazioni o attestazioni degli accordi in esecuzione di piani attestati di risanamento, degli accordi di ristrutturazione dei debiti, delle relative rinegoziazioni, delle convenzioni di moratoria o, ancora, dei piani di concordato e delle relative proposte concorrenti e delle richieste di autorizzazione al pagamento di crediti pregressi «espone informazioni false ovvero omette di riferire informazioni rilevanti in ordine alla veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati, è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da 50.000 a 100.000 euro. Se il fatto è commesso al fine di conseguire un ingiusto profitto per sé o per altri, la pena è aumentata».

La fattispecie conserva la connotazione di reato proprio del professionista, definito dal codice come «professionista indipendente» che, ai sensi dell'art. 2 lett. o) c.c.i. deve essere necessariamente dotato dei seguenti requisiti: «1) essere iscritto all'albo dei gestori della crisi e insolvenza delle imprese, nonché nel registro dei revisori legali; 2) essere in possesso dei requisiti previsti dall'articolo 2399 del codice civile; 3) non essere legato all'impresa o ad altre parti interessate all'operazione di regolazione della crisi da rapporti di natura personale o professionale; il professionista ed i soggetti con i quali è eventualmente unito in associazione professionale non devono aver prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore, ne' essere stati membri degli organi di amministrazione o controllo dell'impresa, né aver posseduto partecipazioni in essa».

La descrizione della condotta, a ben vedere si discosta da quanto previsto dall'attuale art. 236-bis l.fall. ove la stessa è riferita alla sola esposizione di informazioni false e all'omessa esposizione di informazioni rilevanti, senza definire il perimetro della «veridicità dei dati contenuti nel piano o nei documenti ad esso allegati» che costituisce, quindi, un novum. Tale integrazione, secondo la stessa Relazione illustrativa, dovrebbe consentire una più precisa individuazione del contenuto delle informazioni rilevanti la cui omissione costituisce reato.

Il codice introduce poi specifiche norme a repressione dei potenziali falsi commessi dall'imprenditore che richieda l'accesso alla nuova procedura di esdebitazione ex art. 283 c.c.i. secondo cui «il debitore persona fisica meritevole, che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità, diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura, [… si obbliga al] pagamento del debito entro quattro anni dal decreto del giudice laddove sopravvengano utilità rilevanti che consentano il soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore al dieci per cento. […]».

Ai sensi dell'art. 344 c.c.i., infatti, è sanzionata la condotta del debitore che con la domanda di accesso all'esdebitazione – anch'essa presentata a mezzo dell'organo di composizione della crisi «produce documentazione contraffatta o alterata o sottrae, occulta o distrugge, in tutto o in parte, la documentazione relativa alla propria situazione debitoria ovvero la propria documentazione contabile ovvero omette, dopo il decreto di esdebitazione, la dichiarazione di cui al comma 7 del medesimo articolo 283, quando dovuta o in essa attesta falsamente fatti rilevanti».

Parimenti, l'art. 345 c.c.i. punisce il componente dell'organismo di composizione della crisi che renda dichiarazioni false sui dati aziendali del debitore che intenda presentare domanda di omologazione di accordi di ristrutturazione dei debiti o di apertura del concordato preventivo.

Tale reato di falso, a ben vedere, risulta modellato sullo schema proposto dal delitto di falso in attestazioni e relazioni ex art. 342 c.c.i. con riferimento alla procedura del concordato preventivo.

In conclusione

L'essenziale richiamo dei rilievi penalistici della nuova normativa sin qui condotto conferma come l'attuale disciplina penale fallimentare (rectius: dell'insolvenza) rimanga per gran parte inalterata, così divaricandosi ulteriormente la distanza che negli ultimi anni si è venuta a creare tra i reati fallimentari (strenuamente ancorati al concetto di fallimento quale prototipo delle procedure concorsuali, di natura spiccatamente liquidatoria) e il diritto civile fallimentare che, invece, si è orientato più verso procedure che mirano alla conservazione dell'impresa.

Alla luce della nuova normativa civilistica si rende perciò sempre più urgente l'ammodernamento della normativa penale attraverso la complessiva rimodulazione dei reati di bancarotta, anche ad evitare che venga lasciato alla sola sensibilità dei Tribunali assicurare la doverosa coerenza tra il sistema delle procedure concorsuali di composizione assistita della crisi e l'apparato repressivo penale.

Sommario