Estinzione delle società di capitaliFonte: Cod. Civ. Articolo 2495
06 Luglio 2018
Introduzione
Con la riforma del diritto societario, operata dal legislatore attraverso il D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, entrato in vigore il 1 gennaio 2004, l'art. 2495 c.c. ha sostituito il previgente art. 2456 c.c. Con la formulazione data alla nuova norma e, in particolare, con l'inciso di esordio del comma 2, “Ferma restando l'estinzione della società” il legislatore ha cercato di sopire un lungo dibattito che, per anni, aveva contrapposto dottrina e giurisprudenza con particolare riferimento all'individuazione del “dies a quo” a partire da quale una società di capitali potesse ritenersi estinta (anche con riferimento all'art. 10 della l. fall. e alla diversità di trattamento tra imprenditore individuale e collettivo sino alle pronunce della Corte Costituzionale, di cui si dirà nel prosieguo).
Infatti, mentre la dottrina maggioritaria riteneva che l'iscrizione nel Registro delle Imprese della cancellazione della società comportasse ipso facto la contestuale estinzione della medesima, anche nel caso in cui non fossero ancora esauriti tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società e pendenti verso terzi, la giurisprudenza maggioritaria, invece, riteneva che l'estinzione potesse verificarsi soltanto nel momento in cui – dopo l'iscrizione nel Registro delle Imprese della cancellazione della società – fossero stati definiti ed esauriti tutti gli eventuali rapporti giuridici ancora pendenti nei quali la società cancellata era parte coinvolta. Secondo la giurisprudenza, quindi, la cancellazione della società, pur regolarmente formalizzata, non poteva essere condizione necessaria e sufficiente per ritenerla altresì estinta.
L'art. 2495 c.c., così come introdotto dalla riforma del 2003, ha cercato di portare chiarezza in materia, stabilendo che “Ferma restando l'estinzione della società” nel caso in cui, dopo la cancellazione della società, residuino dei creditori insoddisfatti, costoro potranno chiamare in giudizio o i soci, qualora essi abbiano percepito qualche somma in base al bilancio finale di liquidazione e nei limiti di quanto percepito, oppure i liquidatori, qualora il mancato pagamento dei creditori sociali sia stato dovuto a loro dolo o colpa (l'onere della prova sul punto grava in capo ai creditori). Nonostante l'introduzione di tale articolo di legge, la giurisprudenza successiva si è mostrata comunque divisa nell'interpretazione del medesimo, non concordando circa la coincidenza dell'estinzione della società con il momento della sua cancellazione, nel caso in cui – esaurita la fase liquidatoria – residuassero ancora rapporti giuridici coinvolgenti la società cancellata. La questione è stata quindi rimessa alle Sezioni Unite, che hanno infine risolto tale contrasto giurisprudenziale. L'art. 2495 c.c., norma cardine per quanto riguarda l'estinzione delle società di capitali, attribuisce ai liquidatori l'onere di chiedere la cancellazione della società dal Registro delle Imprese, una volta approvato il bilancio finale di liquidazione (ai sensi dell'art. 2493 c.c.).
Nulla si dice circa il termine entro il quale i liquidatori devono effettuare tale adempimento, nemmeno attraverso l'utilizzo di espressioni quali “senza indugio”, “tempestivamente” come, invece, il legislatore ha fatto in altri casi (ad es.: art. 2485 c.c.). Tale termine può però essere dedotto analizzando complessivamente le norme che disciplinano poteri, facoltà e doveri dei liquidatori (artt. 2487-2494 c.c.), le quali impongono ai medesimi oneri di diligenza qualificata, perizia e prudenza nello svolgimento dell'incarico loro conferito: evidentemente, quindi, i liquidatori dovranno presentare la domanda di cancellazione della società al Registro delle Imprese entro e non oltre il tempo che – ragionevolmente – si rende necessario, dopo l'approvazione del bilancio finale di liquidazione, per la predisposizione di tale domanda (senza indugio, dunque).
La domanda deve essere depositata dai liquidatori presso l'Ufficio del Registro delle Imprese territorialmente competente in base all'ultima sede sociale e il soggetto deputato all'iscrizione della cancellazione è il Conservatore dell'Ufficio del R.I. provinciale territorialmente competente. Come brevemente anticipato in premessa, prima della riforma del diritto societario, attuata con il D.Lgs. 17 gennaio 2003 n. 6, entrato in vigore il 1 gennaio 2004, sulla base della legge delega n. 366 del 2001 e, in particolare, dell'art. 8 di quest'ultima, che demandava al legislatore delegato la disciplina degli effetti della cancellazione delle società dal R.I., dottrina e giurisprudenza aderivano in materia a orientamenti opposti. Mentre, infatti, secondo la dottrina prevalente, la cancellazione della società di capitali dal R.I. comportava automaticamente e contestualmente anche la sua estinzione giuridica, nonostante potessero permanere rapporti giuridici facenti capo alla società ancora non definiti e non esauriti a seguito della procedura di liquidazione, viceversa, secondo la giurisprudenza maggioritaria, la società poteva considerarsi estinta a seguito dell'iscrizione della sua cancellazione nel R.I. soltanto qualora fossero stati definiti tutti i rapporti giuridici facenti capo alla medesima. La legge in vigore al tempo non risolveva il contrasto in quanto l'art. 2456 c.c., poi sostituito dall'art. 2495 c.c. con la riforma del 2003, non si pronunciava sul punto. Anche la Corte Costituzionale era stata interessata dal dibattito sull'argomento, con particolare riguardo all'ambito fallimentare: infatti, l'art. 10 del R.D. n. 267 del 1942, nel testo previgente rispetto alla modifica legislativa operata con l'art. 9 del D.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5, entrato in vigore il 16 luglio 2006, si riferiva soltanto “all'imprenditore” (e non “agli imprenditori individuali e collettivi”) e il termine di un anno, entro il quale poteva essere dichiarato fallito l'imprenditore, decorreva dalla “cessazione dell'impresa”, anziché “dalla cancellazione dal Registro delle Imprese”.
La Corte Costituzionale era quindi stata chiamata a decidere su di una questione di legittimità costituzionale dell'art. 147 l. fall. (ante modifica 2006) comma 1 e 2, in relazione all'art. 10 l. fall. (ante modifica 2006), per violazione dell'art. 3 Cost. (principio di uguaglianza) in merito alla ritenuta disparità di trattamento al tempo sussistente tra, da un lato, l'imprenditore individuale cessato e, dall'altro lato, l'ente collettivo e i suoi soci illimitatamente responsabili parimenti cessati, in quanto, mentre il primo poteva essere dichiarato fallito soltanto entro un anno dalla cessazione dell'attività d'impresa, i secondi rimanevano assoggettati al fallimento senza alcun limite temporale, anche dopo la cancellazione della società dal R.I. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 66 del 12 marzo 1999, ha dato all'art. 147 l. fall. una interpretazione costituzionalmente orientata, stabilendo che tale norma va interpretata nel senso che “a seguito del fallimento della società commerciale di persone, il fallimento dei soci illimitatamente responsabili defunti o rispetto ai quali sia comunque venuta meno l'appartenenza alla compagine sociale, può essere dichiarato solo entro il termine fissato dagli articoli 10 e 11 del R.D. n. 267 del 1942, di un anno dallo scioglimento del rapporto sociale.” Con la successiva sentenza n. 319 del 21 luglio 2000, la Corte costituzionale ha invece dichiaratol'illegittimità costituzionale dell'art. 10 l. fall. “risultando assorbita in tale pronuncia la censura relativa all'art. 147 del R.D. n. 267 del 2942 – nella parte in cui prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell'impresa, entro il quale può intervenire la dichiarazione di fallimento, decorra, per l'impresa collettiva, dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, invece che dalla cancellazione della società stessa dal Registro delle Imprese”.
Successivamente alle sentenze della Corte Costituzionale, è stata emanata la legge delega per la riforma del diritto societario (L. n. 366/2001), attuata nel 2003. L'art. 2495 c.c., scaturito dalla legge delegata, nonostante la presenza dell'inciso “Ferma restando l'estinzione della società” è stato però oggetto di interpretazioni contrastanti da parte della giurisprudenza, divisa sull'individuazione del “dies a quo” per il decorso degli effetti - estintivi – consequenziali all'iscrizione della cancellazione della società nel R.I. Secondo talune pronunce della Corte di Cassazione, infatti, (Cass. civ., sez. III, sent. 15 gennaio 2007 n. 646; Cass. Civ., sez. III, sent. 23 maggio 2006 n. 12114; Cass. civ., sez. II, sent. 12 giugno 2000 n. 7972; Cass. Civ., sez. II, sent. 2 aprile 1999 n. 3221) la società poteva considerarsi estinta a seguito dell'iscrizione della sua cancellazione soltanto qualora fossero stati definiti tutti i rapporti giuridici facenti capo alla medesima; secondo altre pronunce, invece, (Cass. civ., sez. II, sent. 15 ottobre 2008 n. 25192; Cass. civ., Sez. lav., sent. 18 settembre 2007 n. 19347; Cass. civ., sez. I, sent. 28 agosto 2006 n. 18618), concordi con il pensiero della dottrina sul punto, la cancellazione produceva contestualmente l'effetto costitutivo dell'estinzione irreversibile della società anche in presenza di rapporti giuridici coinvolgenti l'ente non ancora definiti pur dopo la conclusione della fase liquidatoria.
Visto il permanere di tale contrasto giurisprudenziale, la questione è stata rimessa alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione le quali si sono pronunciate con le note sentenze nn. 4060, 4061, 4062 del 22 febbraio 2010 .
Le Sezioni Unite sono state seguite dalla successiva giurisprudenza sia di legittimità che di merito, tra le altre: Cass. Civ., sez. VI, sentenza 26 luglio 2016 n. 15471: “Nello specifico, la società di capitali M.P. srl - soggetto giuridico debitore - era già estinta, in conseguenza della avvenuta cancellazione dal registro delle imprese nel 2009, al momento della notifica degli avvisi di accertamento, giusta il disposto dell'art. 2495 c.c., comma 2 (introdotto del D.Lgs. 17 gennaio 2003, art. 4, recante riforma organica della disciplina delle società di capitali e delle società cooperative), che ricollega l'effetto "estintivo" delle società dotate di personalità giuridica alla pubblicità costitutiva della iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese, con la conseguenza che, estinta la società, i diritti vantati dai creditori della società, rimasti insoddisfatti, potevano essere fatti valere esclusivamente nei confronti dei soci e soltanto fino a concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, ovvero anche nei confronti del liquidatore, ma soltanto nel caso in cui questo avesse versato in colpa”. Il comma 2 dell'art. 2495 c.c.: la tutela dei creditori sociali insoddisfatti dopo l'estinzione dell'ente
Il legislatore, con la disposizione in commento, ha voluto garantire tutela ai creditori sociali che, a seguito della cancellazione della società e, dunque, della sua estinzione, non siano stati soddisfatti nelle proprie pretese nella fase liquidatoria. I creditori sociali insoddisfatti possono quindi:
Trattandosi dunque di fenomeno successorio, per cui il debito della società cancellata (e dunque estinta), con il conseguente venir meno della sua personalità e soggettività giuridica, si trasferisce ai soci tramite una successione "pro quota" nel lato passivo della medesima obbligazione originariamente sorta in capo alla società poi estinta. L'originario debito sociale, che resta perciò immutato "ex latere creditoris", continua a trovare la sua fonte nel medesimo rapporto tra il terzo (creditore) e la società che da principio lo ha generato, conservando la propria causa (estranea al rapporto sociale) e la propria originaria natura giuridica. Quanto al termine della prescrizione dell'azione del creditore sociale insoddisfatto verso il socio, la giurisprudenza ritiene quindi che esso non possa essere quello breve, quinquiennale, di cui all'art. 2949 c.c., ma quello ordinario, decennale, che decorre dal momento in cui inizia a maturare il termine di prescrizione previsto per l'azione nei confronti della società, non potendo iniziare a decorrere un nuovo termine dal momento della sua cancellazione ed estinzione (così si esprime la Corte di Cassazione, sez. I civile, con la sentenza n. 5113 del 3 aprile 2003). Di recente la Suprema Corte (sentenza n. 15474/2017) si è espressa sull'argomento come segue: “In tema di effetti della cancellazione di società di capitali dal registro delle imprese nei confronti dei creditori sociali insoddisfatti, il disposto dell'art. 2495, comma 2, c.c. implica che l'obbligazione sociale non si estingue ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, sicché grava sul creditore l'onere della prova circa la distribuzione dell'attivo sociale e la riscossione di una quota di esso in base al bilancio finale di liquidazione, trattandosi di elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato dal creditore nei confronti del socio”. Per quanto riguarda, poi, la successione dei soci in eventuali debiti tributari della società estinta, la Cassazione, Sez. Trib., con la sentenza n. 9094/2017, ha affermato che “I soci di una società cancellata dal registro delle imprese sono destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla stessa, ma non definiti all'esito della liquidazione, indipendentemente, dunque, dalla circostanza che essi abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione. Che i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente neanche ai fini dell'esclusione dell'interesse ad agire del fisco creditore”, anche se “L'estinzione della società determina l'intrasmissibilità della sanzione (ex art. 8 d.lg. n. 472 del 1997), regola che costituisce corollario del principio della responsabilità personale, codificato nell'art. 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo, sia ai soci, sia ai liquidatori”. In conclusione, dunque, “Anche dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese, la possibilità di sopravvenienze attive o anche la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio, valgono ad ammettere un interesse dell'Agenzia delle Entrate a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, i quali subentrano nel lato passivo del rapporto d'imposta. L'estinzione della società determina, però, l'intrasmissibilità della sanzione amministrativa tributaria”;
L'azione nei confronti dei soci è cumulabile con quella verso i liquidatori ma, essendo evidentemente diversi i presupposti delle due azioni, non può sussistere nessun vincolo di solidarietà passiva tra gli uni e gli altri.
Il 2° comma dell'art. 2495 c.c. prevede che l'atto introduttivo della domanda giudiziale proposta dai creditori insoddisfatti contro i soci oppure contro i liquidatori debba essere notificato presso la sede della società, se depositato entro il termine di un anno dalla sua cancellazione. Nonostante, dunque, con la cancellazione dal R.I., la società sia estinta, l'indirizzo della sua ultima sede è quello al quale devono essere effettuate le notifiche nell'anno successivo. Si ritiene che, nel formulare tale disposizione, il legislatore si sia ispirato all'art. 303 c.p.c. comma 2, che consente di notificare l'atto di riassunzione del giudizio agli eredi, entro un anno dal decesso della parte, nell'ultimo domicilio del defunto: secondo Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 6070 del 12 marzo 2013, tale circostanza è “testimonianza evidente di una visione in chiave successoria del meccanismo in forza del quale i soci possono esser chiamati a rispondere dei debiti insoddisfatti della società estinta”.
Quanto, poi, alle modalità concrete secondo le quali tale notifica verrà effettuata dall'ufficiale giudiziario, ha destato perplessità la circostanza che l'unica modalità di notifica effettivamente possibile sia quella di cui all'art. 140 c.p.c., non essendo realmente praticabili quelle di cui agli artt. 138, 139, 145 c.p.c., non essendovi più, presumibilmente e ragionevolmente, nessun rappresentante o addetto incaricato che possa ritirare l'atto notificato presso l'ultima sede sociale dopo la cancellazione ed estinzione della persona giuridica. Peraltro, il fatto che, in concreto, la notifica avvenga sempre ai sensi dell'art. 140 c.p.c., ha fatto sorgere dubbi circa la violazione del diritto costituzionale di difesa della parte convenuta (i soci o i liquidatori) in quanto, attraverso tale modalità di notifica, sussiste la possibilità concreta che i destinatari dell'atto non vengano effettivamente a conoscenza della pendenza del giudizio risarcitorio incardinato dai creditori insoddisfatti nei loro confronti.
Come precedentemente evidenziato, nel caso in cui, cancellata la società, emergano diritti o beni residui o sopravvenuti, facenti capo alla società cancellata ma non considerati nel bilancio finale di liquidazione, motivo per cui il valore economico di tali beni/diritti non è stato precedentemente ripartito tra i soci, le S.U. della Corte di Cassazione ritengono che si instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa e quindi anche la relativa gestione avverrà secondo le norme che disciplinano tali istituti (sentenza n. 6070 del 12 marzo 2013). Ebbene, da un punto di vita processuale, essendo la società estinta, quest'ultima non potrà né iniziare una causa né essere chiamata in giudizio; ciò significa che la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente ai soci, ai sensi dell'art. 110 c.p.c., i quali, a seguito dell'estinzione dell'ente, divengono comunisti sui beni/diritti residuati o sopravvenuti dalla/alla liquidazione e alla cancellazione della società e, pertanto, parti potenziali (o effettive, se il giudizio già pendeva nei confronti della società al momento della sua estinzione) di un giudizio che abbia ad oggetto tali beni/diritti.
In merito, la sentenza n. 6070 del 12 marzo 2013 delle Sezioni Unite esprime il seguente principio di diritto: “La cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l'estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio. Se l'estinzione della società cancellata dal registro intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dall'art. 299 c.p.c. e segg., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci. Ove invece l'evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile, l'impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d'inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta”. Di recente, la Corte di Cassazione, sez. Trib., con sentenza n. 5988/2017, ha confermato tale pronuncia: “In tema di contenzioso tributario, qualora l'estinzione della società di capitali, all'esito della cancellazione dal registro delle imprese, intervenga in pendenza del giudizio di cui la stessa sia parte, si verifica un evento interruttivo disciplinato dagli artt. 299 e ss. c.p.c.; ove, invece, ciò non sia dichiarato o notificato, o si verifichi quando sia ormai impossibile farlo nei modi stabiliti, l'impugnazione della sentenza resa nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d'inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta in quanto il limite di responsabilità degli stessi di cui all'art. 2495 c.c. non incide sulla loro legittimazione processuale ma, al più, sull'interesse ad agire dei creditori sociali”, che è stata nuovamente ribadita da Cass. Civ., sez. Trib., sentenza n. 17795/2017.
Unica eccezione a tale principio, segnalata anche nella sentenza de qua, si ha con riguardo al fallimento. Infatti, l'art. 10 l. fall. prevede che una società possa essere dichiarata fallita entro un anno dalla sua cancellazione: il procedimento per la dichiarazione di fallimento (e le eventuali successive fasi di impugnazione) possono quindi svolgersi nei confronti della società (e, per essa, del suo l.r.p.t.), nonostante l'avvenuta cancellazione ed estinzione: si tratta evidentemente di una fictio iuris consentita. Riferimenti
Normativi
Giurisprudenza
Bibliografia
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