La sentenza di patteggiamento è prova nel giudizio per il risarcimento dei danni derivanti da infortunio sul lavoro

Mattia Polizzi
08 Maggio 2019

L'ordinanza oggetto di commento si inserisce in un trend pretorio piuttosto consolidato, in forza del quale la sentenza c.d. di patteggiamento emessa in sede penale costituisce un importante elemento istruttorio per il giudizio civile; tuttavia, l'interesse suscitato dalla pronuncia si impone anche per i profili di criticità che tale principio comporta sul piano operativo e sistematico, anche alla luce di alcuni rilievi mossi dalla dottrina.
Massima

La sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento) di cui agli artt. 444 ss. c.p.p., pur se priva del vincolo del giudicato, costituisce un importante elemento probatorio per il giudizio civile, in quanto presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza che esonera la controparte dall'onere della prova; ne consegue che, qualora il giudice del merito intenda disconoscere tale efficacia probatoria egli ha il dovere di spiegare le ragioni per le quali l'imputato abbia ammesso una propria insussistente responsabilità ed il giudice penale vi abbia prestato fede.

Il caso

Mentre stava eseguendo dei lavori di potatura all'interno di un cestello agganciato al braccio di una gru posta su di un autocarro e manovrata dal proprio datore di lavoro, un lavoratore subisce un infortunio e lo cita in giudizio al fine di ottenere il risarcimento del patito danno non patrimoniale. In particolare, afferma l'attore che i danni occorsigli sarebbero stati causati da una eccessiva movimentazione del braccio della gru. Il convenuto, costituitosi in giudizio, eccepisce per converso che l'infortunio si era verificato per cause accidentali e, comunque, per esclusiva colpa del dipendente, il quale sarebbe caduto da una scala mentre eseguiva la potatura di una pianta all'interno di un vivaio. Il giudice di primo grado rigetta la domanda.

Il lavoratore propone appello avverso la decisione, lamentando – in particolare – che il Tribunale non avrebbe attribuito adeguato valore alla sentenza di patteggiamento pronunciata nei confronti del convenuto la quale, unitamente ad altri elementi probatori, avrebbe asseritamente confermato la responsabilità del datore di lavoro alla luce del disposto dell'art. 184 d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547. La Corte d'appello rigetta il gravame, ritenendo che l'affermazione della responsabilità del convenuto non può basarsi unicamente sulla sentenza di patteggiamento, poiché non sono ravvisabili presunzioni gravi, precise e concordanti in merito allo svolgimento della vicenda così come ricostruita dalla parte appellante.

Il soccombente ricorre per cassazione, sulla base di due motivi, ritenuti dalla Corte tra di loro connessi ed esaminati congiuntamente. In primo luogo, si afferma, ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché degli artt. 2730 ss. c.c. in relazione agli artt. 444 e 445 c.p.p.: ciò in quanto nei gradi precedenti di giudizio si era ritenuto che dalla sentenza di patteggiamento non potesse farsi discendere la prova della responsabilità (nel giudizio civile) dell'imputato, in contrasto con quanto affermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che aveva formato oggetto di discussione tra le parti: la sentenza impugnata, difatti, nel disconoscere l'efficacia probatoria della sentenza di patteggiamento, non avrebbe esplicitato perché il convenuto avesse ammesso una propria responsabilità in sede penale.

La questione

La controversia consente alla Cassazione di riaffermare un proprio orientamento piuttosto consolidato, prendendo posizione in merito all'efficacia probatoria che la sentenza c.d. di patteggiamento assume nell'ambito di un giudizio civile per risarcimento dei danni, nel caso di specie conseguenti ad un infortunio sul lavoro.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte accoglie il ricorso, riconoscendo la sussistenza del vizio di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. e per l'effetto cassa la sentenza con rinvio ad altra Corte d'appello. Riprendendo quanto sostenuto in diverse proprie pronunce, difatti, i Giudici di legittimità affermano che la sentenza di patteggiamento, pur non potendosi tecnicamente qualificare come pronuncia di condanna e pur non assumendo nel giudizio civile efficacia di giudicato, presuppone ed implica una certa ammissione della colpevolezza dell'imputato, che esonera la controparte dall'onere della prova; sicché il giudice di merito, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato abbia ammesso una propria (insussistente) responsabilità e le motivazioni per le quali il giudice penale abbia prestato fede a questa ammissione.

Osservazioni

La pronuncia in nota risulta un'ulteriore esplicitazione di un principio oramai pacifico nella giurisprudenza della Cassazione, che tuttavia non si presenta scevro da profili di interesse e di criticità, come osservato da parte della dottrina.

La Suprema Corte ha difatti a più riprese – ed invero non sempre in maniera uniforme – affermato che la sentenza c.d. di patteggiamento (rectius: di applicazione della pena su richiesta delle parti) di cui agli artt. 444 ss. c.p.p. costituisce un importante elemento probatorio per il giudice del merito civile il quale, ove intenda disconoscere detta efficacia istruttoria, deve indicare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una propria insussistente responsabilità ed il giudicante penale abbia prestato fede a questa ammissione (per alcune pronunce di contenuto analogo si v., ex pluris, Cass. civ., sez. Trib., ord., 24 maggio 2017, n. 13034; Cass. civ., sez. III, sent., 2 febbraio 2017, n. 2695, in Diritto&Giustizia, 3 febbraio 2017, con nota di Savoia R., L'imprenditore che paga tangenti a funzionari del Comune può essere condannato a risarcire il danno all'immagine; Cass. civ., sez. I, sent., 31 marzo 2015, n. 6582; Cass. civ., Sez. Un., sent., 20 settembre 2013, n. 21591; Cass.civ., Sez. Un., sent., 31 luglio 2006, n. 17289; Cass. civ., sez. Trib., sent., 30 settembre 2005, n. 19251; Cass. civ., sez. Lav., sent., 5 maggio 2005, n. 9358;).

Come noto, mediante il patteggiamento «il giudice con sentenza applica quella pena che è stata precisata da una concorde “richiesta delle parti”, e cioè dell'imputato e del pubblico ministero» (così Tonini, 730-731) qualora e nei limiti in cui ricorrano le condizioni indicate dalla normativa di riferimento.

Prescindendo dalle plurime questioni inerenti tale procedimento speciale, può qui ricordarsi che uno dei punti maggiormente critici di questo istituto è rappresentato dalla natura e dagli effetti della sentenza di patteggiamento. Ciò anche alla luce del dettato normativo, considerato che ai sensi dell'art. 445, comma 1-bis, c.p.p. «salve diverse disposizioni di legge, la sentenza [di patteggiamento] è equiparata a una pronuncia di condanna»: l'utilizzo del termine “equiparata”, come autorevolmente osservato in dottrina, induce pertanto a ritenere che non si tratti, nel caso di specie, di una condanna in senso proprio (Tonini, 739, sub nota 60). Tre sono al riguardo le principali tesi proposte.

Secondo la dottrina maggioritaria si tratterebbe di una sentenza avente natura accertativa, stante la necessità che la pronuncia di patteggiamento contenga un accertamento di responsabilità.

Alla luce di una diversa teorica, spesso avvallata dalla giurisprudenza, si tratterebbe invece di un provvedimento non avente natura accertativa, sicché al giudice penale non sarebbe richiesto di indicare le prove sottese alla propria decisione né di enunciare le ragioni per cui ritenga non attendibili le prove contrarie.

Una terza impostazione, invece, respinge una scelta radicale tra i due estremi, sostenendo da un lato l'innegabile natura accertativa della pronuncia e dall'altro che il tipo di giudizio richiesto al giudice e la natura deflattiva del rito speciale rendono non necessario un obbligo motivazionale analogo a quello richiesto per la pronuncia di condanna resa in seguito ad un processo ordinario: ci si troverebbe in presenza di una forma di accertamento incompleto, basato sul consenso dell'imputato (che usufruirà di diversi benefici). Dette perplessità si riverberano anche sul ruolo che una sentenza di patteggiamento può rivestire all'interno del compendio istruttorio di un giudizio civile; la questione si pone in ragione del citato art. 445, comma 1-bis, c.p.p., il quale espressamente dispone che «la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi». Difatti, a norma dell'art. 651, comma 1, c.p.p., solo la sentenza penale di condanna che sia stata «pronunciata in seguito a dibattimento» assume detta efficacia nel giudizio civile (o amministrativo) per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato (e del responsabile civile): il giudicato si esplicherà con riferimento all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità civile ed all'affermazione che l'imputato lo ha commesso.

Sicché la valenza del patteggiamento dovrà essere riguardata sotto altro angolo visuale, ossia proprio quello della sua idoneità a costituire un valido mezzo di prova nel giudizio civile. E le criticità aumentano a maggior ragione in considerazione del principio – invero non unanimemente condiviso nella letteratura processual-civilistica – di tipicità dei mezzi di prova (sul quale si v., anche per le diverse posizioni in dottrina, Mandrioli-Carratta, 182 ss.); peraltro, non si può non osservare, quanto autorevolmente affermato in subiecta materia da una parte della dottrina, ossia anche a volersi ammettere l'esistenza di un principio di tipicità delle prove (legato a sua volta al concetto di legalità in seno ampio dei mezzi di prova), esso “non va tuttavia sopravvalutato nella sua portata pratica, perché il legislatore in concreto prevede tutti i mezzi di prova astrattamente idonei” a fondare il giudizio (Luiso, Diritto processuale civile, II, Milano, 2013, 74-75). Al riguardo, come è stato possibile osservare sinteticamente supra, l'orientamento consolidato nella giurisprudenza è nel senso che la sentenza di patteggiamento, anche se inidonea a far stato nel giudizio civile, contenga pur sempre una sorta di accertamento del fatto occorso e della relativa responsabilità. Da ciò discendono (almeno) tre conseguenze: l'esonero per la controparte dell'onere della prova; l'obbligo per il giudice civile di motivare in merito alle ragioni per cui l'imputato avrebbe dovuto ammettere una propria (altrimenti insussistente) responsabilità; l'onere, in capo ancora una volta al giudice civile, di ricostruire – nel caso in cui decida di discostarsi dalle risultanze della pronuncia di patteggiamento – i motivi in base ai quali il magistrato penale abbia deciso di optare per l'emissione di una sentenza lato sensu di condanna invece che per una pronuncia di proscioglimento ai seni dell'art. 129 c.p.p.

Dette conseguenze, tuttavia, non sono andate esenti da critiche in dottrina (cfr. a titolo di esempio Russo, 1 ss.), sulla base della difficilmente confutabile osservazione per cui il legislatore ha (operando un deciso mutamento rispetto al passato) temperato notevolmente, se non addirittura eliminato del tutto, il principio dell'unità della giurisdizione in favore del nuovo presupposto della separazione delle giurisdizioni, in linea con le scelte di fondo dei sistemi processuali penali di stampo accusatorio (Tonini, 902 ss.): sicché il giudice, al di fuori delle ipotesi in cui operi il vincolo del giudicato penale, non può ritenersi soggetto ad alcun particolare «onere di motivazione sulle ragioni che lo hanno indotto ad operare una diversa valutazione degli elementi probatori già emersi nell'istruttoria esperita in sede penale» (Russo).

Sarebbe pertanto da rigettarsi l'automatica relevatio ab onere probandi in favore della controparte, in quanto il patteggiamento non potrebbe essere qualificato come una vera e propria confessione: ciò in ragione della difficile individuazione in capo al presunto confitente dell'elemento soggettivo dell'animus confitendi, ossia della «volontà e consapevolezza di riconoscere la verità del fatto dichiarato, obiettivamente sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte» (così Cass. civ., sez. L., sent., 9 aprile 2013, n. 8611). Si consideri, al riguardo, che la Suprema Corte ne ha escluso la sussistenza nel caso di dichiarazione resa dal datore di lavoro in un verbale ispettivo, poiché il tal caso la dichiarazione medesima è stata resa «in funzione degli scopi dell'inchiesta», evidentemente differenti da quelli di un giudizio civile per risarcimento dei danni (Cass.civ., sez. Lav., sent., 7 settembre 2015, n. 17702).

Del pari, sarebbe incongrua la seconda conclusione alla quale perviene la giurisprudenza maggioritaria, ossia l'obbligo per il giudicante civile di motivare in merito alle ragioni per cui l'imputato avrebbe “ammesso” una propria (inesistente) responsabilità: se, infatti, si riconduce la sentenza di patteggiamento ad una (pure indubbiamente rilevante) prova, non paiono esserci ragioni per sottrarla al generale principio di cui all'art. 116 c.p.c. , in forza del quale – come noto – le prove sottoposte al giudice devono essere liberamente valutate secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga diversamente.

Ancora, sconta profili di criticità anche il terzo approdo, ossia la necessità di una ricostruzione dei motivi per i quali il magistrato penale abbia optato per la concessione della sentenza di patteggiamento e non, invece, per la pronuncia ai sensi dell'art. 129 c.p.p.: detto onere parrebbe contraddire la litera del già citato comma 1-bis dell'art. 445 c.p.p. che, nel negare che la sentenza di patteggiamento possa avere efficacia di giudicato nei giudizi civili, pare ispirata ad una ratio di incentivazione dell'imputato alla rinuncia del diritto a difendersi tramite dibattimento proprio perché quest'ultimo non avrà a patire conseguenze (automaticamente) sfavorevoli in altri giudizi.

Le critiche dottrinali sinteticamente richiamate non appaiono certo peregrine. Ciò, tuttavia, non pare possa implicare una revisione in nuce del trend pretorio maggioritario, almeno con riferimento alla valenza della sentenza di patteggiamento come prova nel giudizio civile. È piuttosto necessario, come peraltro efficacemente fatto con l'ordinanza in nota, evitare automatismi di portata eccessiva ed ingiustificata. Alla luce delle recenti innovazioni legislative, difatti, la strada della unità delle giurisdizioni non è (più) percorribile: sicché se la validità (spesso decisiva) della sentenza di patteggiamento come mezzo di prova non può (e non deve) essere negata, non pare che la condanna in sede civile possa farsi derivare automaticamente da tale mezzo istruttorio (quasi si tratti di una prova legale), prescindendo cioè da valutazioni in merito alla intrinseca portata della pronuncia penale, nonché da una sua comparazione con l'impianto istruttorio del caso concreto considerato nel suo complesso.

Guida all'approfondimento
  • Carratta, Sentenza di patteggiamento, accertamento semplificato dei fatti e riflessi sul giudizio civile, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, II, 439 ss.;
  • Caprioli, voce Condanna (diritto processuale penale), in Enc. dir., Ann. II-1, Milano, 2008, 101 ss.;
  • Gialuz, voce Applicazione della pena su richiesta delle parti, in Enc. dir., Ann. II-1, Milano, 2008, 13 ss.;
  • Mandrioli-Carratta, Diritto processuale civile, II, Torino, 2016, 182 ss.;
  • Russo, Sul valore probatorio della sentenza di patteggiamento, in Eclegal.it, 7 marzo 2017, 1 ss.;
  • Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, 2011,730 ss., 891 ss.

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