Improcedibilità

Roberta Metafora
27 Maggio 2019

Assai difficile è fornire una definizione univoca di improcedibilità del processo civile; in esso, infatti, la nozione di improcedibilità assume valenza ed effetti diversi a seconda del grado di giudizio in cui essa si è verificata.
Inquadramento

Assai difficile è fornire una definizione univoca di improcedibilità del processo civile; in esso, infatti, la nozione di improcedibilità assume valenza ed effetti diversi a seconda del grado di giudizio in cui essa si è verificata.

In generale ed in via di prima approssimazione, l'improcedibilità consiste nel verificarsi di una causa ostativa all'esame dell'atto introduttivo del giudizio da parte del magistrato, sia in primo grado, sia nelle fasi di gravame.

Tali cause non sono sempre e solo ascrivibili a un'omessa attività della parte istante, come accade nel giudizio di appello in cui l'art. 348 c.p.c. sanziona la mancata costituzione dell'appellante nei termini prescritti dalla legge, ma possono rientrare, in un'ottica più ampia, anche ipotesi diverse, quali un'eventuale transazione intervenuta tra le parti, il perimento del bene, il pagamento della sanzione amministrativa; accedendo a questa nozione più ampia di improcedibilità, si constata facilmente come esse rispondano a una ratio diversa dall'inattività, e non riconducibile a unità: da qui la difficoltà di individuare con precisione il tratto caratterizzante l'istituto.

Resta tuttavia fermo ed indiscusso che, a differenza delle ipotesi di inammissibilità, le cause di improcedibilità non sono mai riconducibili al contenuto dell'atto introduttivo del giudizio, ma attengono sempre a un'attività estrinseca e successiva rispetto a tale atto.

Come si vede, non è opportuno né utile il tentativo di ricostruire un concetto generale di improcedibilità in grado di tener conto di tutte le fattispecie in cui il legislatore utilizza tali termini. Solo con riferimento alle impugnazioni può ipotizzarsi un “sistema” in cui l'improcedibilità viene dal legislatore concepita in maniera sufficientemente organica e coesa, sicché è con riguardo a questo ambito che è opportuno concentrare l'attenzione.

Le ipotesi di improcedibilità: il giudizio di primo grado

Molte sono le norme che sanzionano con l'improcedibilità del giudizio il mancato compimento di un'attività extra processuale: si pensi all'art. 443 c.p.c. in tema di rilevanza del procedimento amministrativo sulla domanda relativa alle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie, nonché all'art. 445-bis, comma 2, c.p.c. in tema di accertamento tecnico preventivo obbligatorio nelle controversie ivi richiamate. Ancora, oltre il codice di rito, si consideri, ad es., l'art. 2545-quinquiesdecies, comma 3, c.c., a proposito del ricorso per il controllo giudiziario delle società cooperative; e, fuori dell'ambito processualcivilistico, l'art. 35 c.p.a., in relazione al ricorso introduttivo; infine, l'art. 2, comma 1, l. 7 agosto 1990, n. 241 a proposito della domanda introduttiva del procedimento amministrativo. L'ambito limitato del presente lavoro impedisce di esaminarle tutte; l'attenzione si concentrerà su quelle di maggior rilevanza sul piano pratico e sistematico.

Il tentativo di mediazione e di negoziazione assistita

Come è noto, se, in generale, chiunque sia parte di una controversia civile (vertente su diritti disponibili) può liberamente provare a risolvere la lite tramite la mediazione, per alcune specifiche controversie l'utilizzo di tale strumento è imposto dalla legge: si tratta delle controversie vertenti nelle materie originariamente elencate dall'art. 5, comma 1 d.lgs. n. 28/2010, ed oggi, in seguito alla riforma del 2013 (d.l. n. 69/2013), elencate dal comma 1-bis del medesimo art. 5.

Analogamente, il d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito in l. 10 novembre 2014, n. 162, ha introdotto con evidente scopo deflattivo l'istituto della negoziazione assistita, prevedendo che per alcune controversie il previo esperimento del procedimento di negoziazione assistita assurge a condizione di procedibilità della domanda giudiziale che la parte intende presentare innanzi all'autorità giudiziaria.

Come affermato dalla giurisprudenza, l'esperimento di tali forme di risoluzione alternativa della controversia è condizione di procedibilità, e non di proponibilità, della domanda giudiziale (Cass. civ., 13 aprile 2017, n. 9557).

Laddove non venga previamente esperita la procedura di mediazione o di negoziazione assistita, il giudice investito della controversia dovrà assegnare un termine per l'avvio e/o il completamento della procedura e rinviare la causa alla successiva udienza, rimanendo ferme le eventuali decadenze e preclusioni già verificatesi.

Il giudizio, pertanto, rimarrà pendente ed efficace, mentre l'attività processuale subirà solo un differimento in attesa che si concluda la procedura di mediazione.

L'esperimento del previo ricorso amministrativo

L'art. 443 c.p.c., prevedendo che la domanda relativa alla controversia previdenziale non sia procedibile se non quando siano esauriti i procedimenti amministrativi o siano decorsi centottanta giorni dalla data in cui è stato proposto il ricorso amministrativo, permette la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda giudiziale.

É d'uopo tuttavia la precisazione che l'azione giudiziaria è assolutamente improponibile (e non solo improcedibile), quando manca del tutto la domanda amministrativa dell'interessato: tale domanda, infatti, costituisce una condizione di ammissibilità della domanda giudiziale (o secondo alcune pronunce, «un presupposto dell'azione») e la sua mancanza è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio (v., tra le più recenti, Cass. civ., 10 maggio 2017, n. 11438; Cass. civ., 9 agosto 2017, n. 19767; Cass. civ., 11 maggio 2015, n. 9504; Cass. civ., 6 ottobre 2009, n. 21330).

Al verificarsi di una delle cause di improcedibilità previste dall'art. 443, il giudice sospende il giudizio e fissa all'attore un termine perentorio di sessanta giorni per la presentazione del ricorso in sede amministrativa; il processo deve essere riassunto a cura dell'attore, nel termine perentorio di centottanta giorni, che decorre dalla cessazione della causa di sospensione. Se il termine di sessanta giorni per l'instaurazione della procedura amministrativa non è rispettato, il giudice pronuncia l'improcedibilità della domanda. Se l'attore non adempie alla riassunzione, il processo si estingue.

L'improcedibilità nei giudizi di impugnazione. a)- L'appello

In appello l'improcedibilità consiste in un'inattività dell'appellante che l'ordinamento sanziona con la chiusura in rito del gravame. Le ipotesi di improcedibilità sono tassative e insuscettibili di applicazione analogica (Cass. civ., 8 maggio 2012, n. 6912).

A seguito della riforma del 1990, sono solo due le ipotesi di improcedibilità previste dalla legge: in primo luogo, viene sanzionata con l'improcedibilità dell'appello la mancata costituzione dell'appellante.

Ad essa è equiparata anche la tardiva costituzione dell'appellante dovendosi escludere una sanatoria ex art. 171, comma 2, poiché una costituzione dell'appellante sino alla prima udienza è incompatibile con il regime delle preclusioni, di matrice pubblicistica (Cass. civ., 13 marzo 2017, n. 6369; Cass. civ., 5 agosto 2016, n. 16598; Cass. civ., 15 marzo 2013, n. 6654; Cass. civ., Sez.Un. 18 maggio 2011, n. 10864).

Detta ipotesi è destinata tuttavia ad operare solo nei giudizi di appello che vengono instaurati con atto di citazione, giacché nei giudizi soggetti al rito del lavoro, il deposito del ricorso in appello è in grado di integrare contestualmente sia la proposizione del gravame sia la costituzione in giudizio dell'appellante.

In passato, per la giurisprudenza della Cassazione l'improcedibilità dell'appello principale normalmente non ostacolava la decisione di quello incidentale, anche tardivo ex art. 334, eventualmente proposto dall'appellato che avesse provveduto all'iscrizione della causa a ruolo (C 23.3.2005, n. 6220). A partire dal 2008 (Cass. civ., Sez.Un., 14 aprile 2008, n. 9741), la Corte di cassazione ha implausibilmente mutato orientamento affermando che alla dichiarazione di improcedibilità dell'impugnazione principale segue l'inefficacia dell'impugnazione incidentale tardiva.

Segue. La mancata comparizione dell'appellante

Questa fattispecie di improcedibilità opera sia negli appelli sottoposti al rito ordinario sia a quelli relativi al processo del lavoro (Cass. civ., 12 febbraio 2015, n. 2816; Cass. civ., 4 marzo 2011, n. 5238; Cass. civ., 4 ottobre 2010, n. 20639), ma non a quelli del processo tributario (Cass. civ., 16 dicembre 2014, n. 26437; Cass. civ., 14 giugno 2011, n. 13001).

Secondo la giurisprudenza più risalente, detta fattispecie operava solo in caso di comparizione dell'appellato, per cui si riteneva che se nessuna delle parti compariva alla prima udienza, dovesse applicarsi l'art. 181, comma 1, con conseguente rinvio della causa ad udienza successiva, di cui veniva data comunicazione all'appellante con le modalità dell'art. 170 (Cass. civ., 15 ottobre 1994, n. 8415). Se le parti non comparivano neppure a tale udienza, il giudice era onerato di disporre la cancellazione della causa dal ruolo, con conseguente estinzione.

Oggi invece, seguendo le suggestioni avanzate in dottrina, la Cassazione afferma la sanzione dell'improcedibilità operi anche all'ipotesi di mancata comparizione bilaterale delle parti (Cass. civ., 4 marzo 2011, n. 5238).

Nel caso invece la mancata comparizione avvenga ad una udienza successiva alla prima, si applica l'art. 309 (Cass. civ., 3 ottobre 1983, n. 5763).

Il regime dell'improcedibilità dell'appello

L'improcedibilità dell'appello è rilevabile d'ufficio (Cass. civ., 19 luglio 2005, n. 15206), prima della risoluzione di ogni altra questione (Cass. civ., 10 marzo 1980, n. 1581), anche ad opera della Suprema Corte, a meno che l'improcedibilità non sia stata espressamente esclusa dalla sentenza d'appello e l'appellato non abbia censurato la decisione sul punto.

Merita di essere precisato che detta evenienza non può essere dichiarata nel giudizio di rinvio, giacché il passaggio in giudicato non può più prodursi rispetto alla sentenza ormai definitivamente caducata dalla Cassazione, senza possibilità di reviviscenza (Cass. civ., 1 dicembre 1993, n. 11881).

L'improcedibilità dell'appello va dichiarata con sentenza (Cass. civ., Sez.Un., 2 febbraio 2016, n. 1914) e l'appellante, principale o incidentale, verrà sottoposto alla sanzione di cui all'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (secondo cui la parte che ha proposto l'impugnazione è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale: Corte cost., 30 maggio 2016, n. 120).

Ove il giudice d'appello abbia dichiarato d'ufficio l'improcedibilità del gravame per tardiva costituzione dell'appellante, senza sottoporre preventivamente alle parti detta questione, non sussiste alcuna nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa, trattandosi di decisione fondata su questione di diritto, in relazione alla quale le parti hanno la facoltà ex ante di esercitare ampiamente il contraddittorio; e ciò vieppiù ove si consideri che si tratta di questione processuale, in relazione alla quale l'ordinamento prevede un ampio spettro di controllo, sino alla possibilità che l'eventuale error in procedendo sia oggetto di ricorso per cassazione ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. nel qual caso la corte di legittimità diviene giudice del fatto processuale (Cass. civ., 16 ottobre 2017, n. 24312).

b)- L'improcedibilità del processo in Cassazione

L'art. 369 c.p.c. prevede che il ricorso per cassazione debba essere depositato nella cancelleria della Corte a pena di improcedibilità nel termine di venti giorni dall'ultima notificazione dell'atto di impugnazione alle parti.

La Cassazione afferma che è improcedibile il ricorso del quale non sia stato depositato l'originale con relativa relata di notifica, ancorché il difensore abbia dichiarato la mancata restituzione dello stesso da parte dell'ufficiale giudiziario, con riserva di depositare l'originale (Cass. civ., 4 novembre 2005, n. 21333); l'obbligo del deposito, dunque, non può dunque ritenersi soddisfatto con la sola produzione di copia fotostatica del ricorso mancante della garanzia di autenticità, essendo essa inidonea ad assicurare la finalità cui si ispira la citata norma, che è quella di consentire la verifica della tempestività del ricorso o l'esistenza di una valida procura, a meno che non sussistano dubbi sulla conformità dell'originale alla copia depositata (Cass. civ., 1 dicembre 2005, n. 26222, in GC 2006, I, 1205; Cass. civ., 18 gennaio 2006, n. 888).

Inoltre, insieme con il ricorso devono essere depositati, sempre a pena di improcedibilità, non solo il decreto di concessione del gratuito patrocinio, ma anche la copia della sentenza impugnata.

Stando all'orientamento sino ad oggi invalso presso la Suprema Corte, i requisiti che l'art. 369, comma 2, n. 2, c.p.c. pretende siano soddisfatti — deposito di copia autentica del provvedimento e relata di notifica — sono funzionali a comprovare: 1) — la fedeltà documentale; 2) — la tempestività dell'impugnazione. In altre parole, lo scopo della norma è quello di permettere al Collegio di valutare se la proposizione dell'impugnazione sia avvenuta entro il termine perentorio breve, per poi poter esaminare l'ammissibilità e la fondatezza del ricorso.

Per la giurisprudenza di legittimità, tuttavia, non è necessario che la copia della sentenza munita della relata debba essere depositata unitamente al ricorso, potendo le due attività — deposito del ricorso e della sentenza notificata — avvenire anche separatamente, purché nel rispetto del termine previsto dall'art. 369 c.p.c. (Cass. civ., 21 febbraio 2013, n. 4356; Cass. civ., 11 maggio 2010, n. 11376; Cass. civ., 10 luglio 2007, n. 15396), mentre non può farsi questione dell'eventuale esistenza di equipollenti per il fatto che l'intimato non abbia svolto attività difensiva nel giudizio di cassazione o abbia depositato lui stesso la copia notificata della sentenza impugnata con la relata o, ancora, una copia si rinvenga nel fascicolo d'ufficio (Cass. civ., Sez.Un., 16 aprile 2009, n. 9004).

Quest'indirizzo è stato aspramente criticato in dottrina, osservandosi, tra l'altro, che escludere la rilevanza degli atti equipollenti ma contemporaneamente, escludere la necessità del contestuale deposito di ricorso e sentenza notificata, «dà luogo ad una scelta in sé contraddittoria» (Vanz, Sulle sorti (forse ancora da ridiscutere) del ricorso in cassazione in caso di mancato deposito della copia autentica della sentenza e della relata di notifica, in GI, 2009, 384). Peraltro, l'affermazione che il termine di venti giorni previsto dall'art. 369, comma 2, c.p.c. per il deposito del provvedimento impugnato sia unicamente finalizzato per permettere un controllo della verifica della tempestività dell'impugnazione e del riscontro della fedeltà documentale, permette un'interpretazione ben più ampia di quella fornita dal Supremo Collegio, giacché nella prassi del procedimento in cassazione queste verifiche avvengono in occasione della decisione sull'impugnazione e, dunque, in un tempo assai lontano dalla scadenza del termine di venti giorni dalla notifica del ricorso.

Consapevoli delle critiche avanzate e soprattutto delle gravi conseguenze che l'orientamento restrittivo comporta, di recente le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza 13 dicembre 2016, n. 25513, partendo dalla necessità di leggere ed interpretare la nozione di improcedibilità alla luce del principio di effettività della tutela giurisdizionale del giusto processo, affermano che se è vero che la sanzione di improcedibilità prevista dall'art. 369 c.p.c. in linea generale non si pone in contrasto con tale principio perché non incide sulla possibilità di ricorso ma solo sulla prosecuzione del giudizio per effetto della inattività delle parti, è del pari vero che non permettere di “salvare” il ricorso per cassazione proposto qualora i requisiti di procedibilità previsti dall'art. 369 risultino dimostrati alla luce degli atti di causa pone problemi dal punto di vista della proporzionalità tra lo scopo e il mezzo impiegato.

Per questo motivo, le Sezioni Unite hanno affermato che laddove venga proposto ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado ai sensi dell'art. 348-ter, comma 3, c.p.c. ed il ricorrente non abbia depositato la copia autentica della sentenza di primo grado e dell'ordinanza di inammissibilità dell'appello, con la relativa comunicazione o notificazione, se anteriore, la Corte non è tenuta a dichiarare l'improcedibilità dell'appello, laddove la stessa officiosamente rilevi, dal trasmesso fascicolo di ufficio, che lo stesso sia stato proposto nei sessanta giorni dalle menzionate comunicazioni o notificazioni, ovvero, in mancanza di entrambe, entro il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c.

In conclusione, in virtù del comma 3 dell'art. 369 c.p.c. e del conseguente onere di trasmissione del fascicolo d'ufficio che è posto in capo al ricorrente (fascicolo che contiene l'originale dell'ordinanza di inammissibilità, nonché gli estremi della comunicazione della stessa), è possibile, se del caso anche consultando il fascicolo del controricorrente, evitare la declaratoria di improcedibilità.

La progressiva diffusione dei meccanismi di notificazione tramite modalità telematiche ha inoltre determinato il sorgere del problema, di recente risolto dalle Sezioni Unite, concernente la procedibilità del ricorso in Cassazione proposto contro un provvedimento notificato con modalità telematica.

Ci si chiede nello specifico se sia sufficiente il deposito della copia analogica della sentenza impugnata e notificata in via telematica, purché sia munita dell'attestazione di conformità o il controricorrente non ne abbia disconosciuto la conformità all'originale notificatogli, o se sia invece necessario il deposito della copia autentica della predetta sentenza al fine di evitare che il ricorso per cassazione sia dichiarato improcedibile.

Le Sezioni Unite, con la decisione 25 marzo 2019, n. 8312, hanno escluso l'applicabilità della sanzione dell'improcedibilità del ricorso in caso di deposito di copia analogica della sentenza notificata a mezzo PEC priva dell'attestazione di conformità ove venga depositata dal controricorrente copia analogica della decisione ritualmente autenticata ovvero questi non abbia disconosciuto la conformità della copia all'originale notificatogli.

In particolare, è stato evidenziato che, diversamente da quel che accade in ambiente analogico, il destinatario della notifica telematica del ricorso per cassazione predisposto in forma di documento informatico e sottoscritto con firma digitale è in grado di effettuare direttamente tale verifica di conformità perché viene in possesso dell'originale dell'atto. Di qui la conclusione che non dare rilievo a questa situazione si tradurrebbe in un "vuoto formalismo" privo di ragionevolezza e che, anzi, rischierebbe di allungare i tempi processuali se non addirittura di rendere impossibile il raggiungimento di una decisione sul merito delle censure.

A pena d'improcedibilità poi devono essere depositati gli atti processuali e i documenti ed i contratti ed accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda. L'improcedibilità del ricorso conseguirà peraltro non alla mancata produzione di tutti gli atti già acquisiti al giudizio di merito e degli interi fascicoli di parte dei precedenti gradi di giudizio, ma solo alla mancata produzione degli specifici atti (già acquisiti al giudizio di merito) il cui esame sia necessario per l'esame del ricorso e la decisione sulle censure proposte (Cass. civ., 29 settembre 2005, n. 19132).

Attualmente, si ritiene che detto onere si considera assolto: a) qualora il documento sia stato prodotto nelle fasi di merito dallo stesso ricorrente e si trovi nel fascicolo di esse, mediante la produzione del fascicolo, purché nel ricorso si specifichi che il fascicolo è stato prodotto e la sede in cui il documento è rinvenibile; b) qualora il documento sia stato prodotto, nelle fasi di merito, dalla controparte, mediante l'indicazione che il documento è prodotto nel fascicolo del giudizio di merito di controparte, pure se cautelativamente si rivela opportuna la produzione del documento ai sensi dell'art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c. per il caso in cui controparte non si costituisca in sede di legittimità o si costituisca senza produrre il fascicolo o lo produca senza il documento; c) qualora – infine – si tratti di documento non prodotto nelle fasi di merito relativo alla nullità della sentenza o all'ammissibilità del ricorso, oppure di documento attinente alla fondatezza del ricorso e formato dopo la fase di merito e comunque dopo l'esaurimento della possibilità di produrlo, mediante la produzione del documento, previa individuazione e indicazione della produzione stessa nell'ambito del ricorso (Cass. civ., 20 novembre 2017, n. 27475; Cass. civ., Sez.Un., 7 novembre 2013, n. 25038; Cass. civ., 2 ottobre 2012, n. 16760; Cass. civ., 11 gennaio 2016, n. 195).

In sostanza, il ricorso è improcedibile solo nel caso in non risulti con chiarezza il luogo ed il contesto di produzione del documento, ferma restando la sufficienza del deposito dell'istanza di trasmissione per i documenti contenuti nel fascicolo d'ufficio.

Si è peraltro precisato che gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi, dei quali il legislatore ha imposto il deposito, sono comunque quelli che non fanno parte del fascicolo d'ufficio del giudizio nel quale è stata pronunciata la sentenza impugnata (Cass. civ., 1 marzo 2010, n. 4898; Cass. civ., 21 luglio 2010, n. 17196).

Infine, stando al n. 3 dell'art. 369, comma 2, c.p.c. mirando esso ad assicurare che la procura speciale al difensore, conferita con atto separato, venga depositata non oltre il tempo accordato per la costituzione del ricorrente, il detto deposito può anche essere effettuato separatamente, purché nel termine perentorio di venti giorni dall'ultima notificazione del ricorso (Cass. civ., Sez.Un., 22 luglio 2002, n. 10722; Cass. civ., Sez.Un., 14 novembre 2003, n. 17304). Se la procura non risulti indicata né nella nota di deposito, né nell'elenco dei documenti, per cui non vi è prova che sia stata depositata, unitamente al ricorso, all'atto dell'iscrizione a ruolo, il ricorso dovrà essere dichiarato improcedibile.

L'improcedibilità nel processo di esecuzione

Il codice di rito non disciplina esplicitamente la figura dell'improcedibilità del processo esecutivo, limitandosi a prevedere ipotesi di estinzione per rinuncia agli atti esecutivi e per inattività (artt. 629-631 c.p.c.), sulla falsariga del processo ordinario di cognizione.

Dottrina e giurisprudenza si erano variamente interrogate sulla possibilità di ammettere ipotesi di chiusura atipica del processo, verificandosi nella prassi molteplici ipotesi di stallo del processo, non riconducibili alle ipotesi di rinuncia o di inattività delle parti.

Con il d.l. 132/2014, conv. in l. 162/2014 è stato introdotto nelle disposizioni di attuazione al codice di rito l'art. 164-bis, il quale ammette la chiusura del processo esecutivo in caso di infruttuosità dell'espropriazione forzata. Viene così ammessa la possibilità che il giudice dell'esecuzione possa dichiarare la chiusura del processo per il verificarsi di ogni causa di improcedibilità, i.e. di qualunque vicenda (fuori dei casi di estinzione) che impedisca al processo esecutivo di giungere a una fisiologica conclusione con la completa realizzazione del suo scopo, per riconosciuta impossibilità di realizzarlo.

Estinzione e improcedibilità del processo esecutivo, pur avendo in comune la chiusura del processo esecutivo prima della sua naturale conclusione, presentano numerosi tratti distintivi: 1) l'estinzione si fonda sulla rinuncia o sull'inattività delle parti, a differenza dell'improcedibilità che trova la sua origine nell'impossibilità di conseguire lo scopo satisfattivo dell'esecuzione forzata. Inoltre, 2) la sospensione della prescrizione opera solo per il caso di improcedibilità ex art. 2945, comma 3, c.c. Soprattutto, 3) l'ordinanza che pronuncia l'estinzione è soggetta a reclamo al collegio, quale previsto dall'art. 630 c.p.c. e il collegio si pronuncerà con sentenza, soggetta ad appello con rito camerale (e dunque da proporre sempre con ricorso, anziché con citazione), mentre l'improcedibilità (o estinzione atipica) è soggetta all'opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.

Come affermato da costante giurisprudenza, nei casi in cui il giudice dell'esecuzione, esercitando il proprio potere officioso, dichiari l'improcedibilità della procedura esecutiva in base al rilievo della mancanza originaria o sopravvenuta del titolo esecutivo o della sua inefficacia, il provvedimento adottato a definitiva chiusura della procedura esecutiva, è impugnabile esclusivamente con l'opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell'art. 617 c.p.c.; diversamente, se tale provvedimento è adottato in seguito a contestazioni del debitore prospettate mediante una formale opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615 c.p.c., in relazione alla quale il giudice dell'esecuzione abbia dichiarato di volersi pronunziare, il provvedimento sommario di provvisorio arresto del corso del processo esecutivo, che resta perciò pendente, è impugnabile con reclamo ai sensi dell'art. 624 c.p.c. Al fine di distinguere tra le due ipotesi, deve ritenersi decisivo indice della natura definitiva del provvedimento la circostanza che, con esso, sia disposta la liberazione dei beni pignorati (Cass. civ., 22 giugno 2017, n. 15605; Cass. civ., 8 maggio 2018, n. 10946; Cass. civ.,7 dicembre 2018, n. 31695).

Gli effetti dell'improcedibilità

Per quanto attiene agli effetti dell'improcedibilità è necessario distinguere a seconda che la relativa causa si sia verificata in appello o in primo grado; in quest'ultimo caso, la dichiarazione di improcedibilità dell'atto introduttivo del primo grado di giudizio non impedisce la riproposizione della domanda, dal momento che la chiusura del giudizio in rito non estingue il diritto di azione; al contrario, l'improcedibilità dell'atto di impugnazione consuma il relativo potere, anche se il termine non è ancora scaduto (art. 387 c.p.c.), con conseguente passaggio in giudicato formale della sentenza impugnata.

Merita però di essere precisato che detta regola non esclude che la parte incappata nella decadenza possa proporre una seconda impugnazione – purché tempestiva, cioè nel rispetto del termine di impugnazione (da considerarsi comunque iniziato a decorrere, come termine c.d. breve, dal momento della prima notificazione dell'appello) – sempre che non sia già intervenuta una declaratoria di improcedibilità od inammissibilità (Cass. civ., 4 febbraio 2016, n. 2165).

Riferimenti
  • Caporusso, La consumazione del potere d'impugnazione, Napoli, 2011;
  • Cerino Canova-Consolo, Inammissibilità e improcedibilità: I) Diritto processuale civile, in EGT, Roma, 1993;
  • Ciaccia Cavallari, La rinnovazione nel processo di cognizione, Milano, 1981;
  • Fabbrini-Tombari, Inammissibilità e improcedibilità del ricorso per cassazione e possibili sanatorie per raggiungimento dello scopo, in FI, 1993, I, 3019 ss.;
  • La China, Procedibilità (dir. proc. civ.), in EdD, XXXV, Milano 1986, 794;
  • Poli, Invalidità ed equipollenza degli atti processuali, Torino, 2012;
  • Verde-Olivieri, Processo del lavoro, in EdD, XXXVI, Milano 1987, 198.
Sommario