Questioni pregiudiziali, punto fondamentale comune a più cause e giudicato esterno
03 Giugno 2019
Massima
Qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, fornendo la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto. Il caso
L'appellante propose in primo grado, con un unico ricorso, distinte domande rivolte a far accertare l'asserita esistenza di un pregresso rapporto di lavoro subordinato con la società convenuta e l'illegittimità del licenziamento da essa intimatogli, con contestuale condanna della stessa a versare le retribuzioni omesse ed a risarcire il danno subito in conseguenza dell'unilaterale risoluzione del rapporto. Il tribunale dispose la separazione delle cause cumulate per potersi pronunciare nelle forme semplificate di cui alla l. n. 92/2012 (comunemente nota come “legge Fornero”) sulle istanze concernenti il licenziamento, riservando ad una successiva decisione con sentenza l'esame delle altre richieste. L'ordinanza negò la riassunzione del ricorrente per la mancata risultanza di elementi atti a dimostrare la natura di subordinazione del lavoro prestato. In esito al separato giudizio di cognizione ordinaria, il tribunale respinse con sentenza tutte le domande del lavoratore per non avere questi provato il connotato di subordinazione delle sue prestazioni. Con l'appello il soccombente ha chiesto l'integrale accoglimento delle domande proposte in primo grado, con vittoria di spese di lite. La società convenuta ha eccepito l'avvenuta formazione del giudicato, posto che l'ordinanza di rigetto, motivata espressamente in ragione della riscontrata assenza di indici di subordinazione nel rapporto dedotto in causa, non era stata impugnata: e pertanto aveva accertato in via definitiva l'insussistenza del lavoro subordinato. Il tribunale dichiarò, con decisione assunta in forma di ordinanza, infondata la pretesa del ricorrente riguardante la sua reintegrazione nel posto di lavoro perché difettava la prova che tra le parti fosse intercorso un rapporto di natura subordinata. Nello stesso senso il tribunale pronunciò in seguito con sentenza. L'appello ha riproposto nel secondo grado di giudizio tutte le istanze formulate con il ricorso iniziale e questa riproposizione ha posto il problema di stabilire quali fossero gli effetti di eventuale preclusione dovuti all'accertamento già compiuto con l'ordinanza. Questo provvedimento, nonostante la semplicità della sua forma, è atto idoneo a chiudere con efficacia definitiva i giudizi in tema di licenziamento da trattarsi nei modi del così detto “rito Fornero”. E nel costituirsi nel grado di gravame la convenuta si era difesa proponendo l'eccezione di giudicato determinato dalla mancata impugnazione dell'ordinanza.
La questione
La Corte d'appello ha dovuto stabilire se nella vicenda di specie la decisione emanata con riguardo all'impugnazione del licenziamento costituiva un giudicato su una questione pregiudiziale logicamente prioritaria non soltanto per la decisione delle istanze di reintegrazione nel posto di lavoro (come affermato nell'ordinanza) ma anche con riguardo alle richieste di corresponsione delle retribuzioni omesse e di risarcimento del danno esaminate dal tribunale con sentenza e riproposte con l'atto di gravame. L'esser già stato affermato con ordinanza che non risultavano elementi probatori di un pregresso rapporto di subordinazione poteva precludere, in ipotesi, l'esame delle pretese riproposte al giudice d'appello, rivolte nuovamente a far accertare quella subordinazione e ad ottenere le pronunce conseguenti alla indebita cessazione del rapporto. Le soluzioni giuridiche
La Corte ha dichiarato l'infondatezza dell'appello in quanto ha ritenuto formatosi prima dell'impugnazione il giudicato sulla domanda di accertamento dell'esistenza di un vincolo di subordinazione nei rapporti di lavoro intercorsi tra le parti. Ha osservato in motivazione che nel cumulo delle domande proposte dal ricorrente quella principale, riguardante la pretesa natura subordinata del rapporto di lavoro, si poneva in rapporto di pregiudizialità di natura non meramente logica ma soprattutto di carattere “tecnico” rispetto alle altre, per la necessità di farne accertamento con una pronuncia passata in giudicato come chiesto dall'interessato esplicitamente nel suo ricorso. Non v'era dubbio che la domanda pregiudiziale e le domande pregiudicate si riferissero al medesimo rapporto giuridico e che, essendosi pronunciato con provvedimenti autonomi, la decisione sulla domanda pregiudiziale, divenuta definitiva (assunta con l'ordinanza) vincolava con la forza del giudicato la decisione delle domande da essa dipendenti. Al riguardo il collegio ha richiamato l'orientamento giurisprudenziale secondo cui, qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto accertato e risolto. Osservazioni
La pronuncia della Corte di merito ha con giusta ragione disatteso le aspettative dell'appellante anche se, a rigore, merita qualche osservazione critica. Nella decisione si afferma che l'ordinanza emessa per rispettare le celerità e le forme volute dall'art. 47 l. 28 giugno 2012, n. 92, aveva risolto con efficacia di giudicato ogni contestazione concernente la natura del rapporto lavorativo intercorso tra il ricorrente e la società convenuta, presunta datrice di lavoro. Una siffatta natura non era stata dimostrata e il conseguente accertamento negativo aveva assunto la forza della cosa giudicata per mancata impugnazione (a conferma dell'idoneità dell'ordinanza al giudicato sono state richiamate le decisioni di Cass. civ., Sez. Un., ord., n. 17443/2014, e di Cass. civ., sez. VI, n. 18263/2017). Il collegio ha argomentato che la riproposizione di tutte le domande già esaminate dal tribunale sottoponeva alla sua cognizione la domanda di accertamento dell'esistenza del vincolo della subordinazione: ma questa domanda, caratterizzata dal connotato di pregiudizialità “tecnica” rispetto a quelle consequenziali aventi in essa il loro presupposto, era già stata respinta con decisione (l'ordinanza) passata in giudicato. Nella vicenda in oggetto, concludeva il collegio, l'accertamento in ordine alla natura subordinata dell'attività prestata dall'appellante non costituiva una mera componente interna del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al risarcimento dei danni cagionati dalla risoluzione contrattuale ma rappresentava un fatto autonomo e indipendente che si ergeva a presupposto giuridico del predetto diritto e che ben poteva formare oggetto di autonomo giudizio. Le osservazioni della Corte sono fondate su un presupposto che non trova riscontro nella particolare vicenda di fatto cui si riferisce la sua decisione. Esse implicano che nella causa proseguita in appello per impugnazione della sentenza di rigetto del ricorso fosse ammissibile la stessa domanda già respinta con l'ordinanza (oltre che con la sentenza di primo grado). Infatti, soltanto a questa condizione poteva discutersi di questioni pregiudiziali e di decisioni passate in giudicato. Unicamente tra pronunce confrontabili (nella specie: l'una già emessa con ordinanza del tribunale e l'altra da adottarsi dalla Corte d'appello) può porsi un problema di logica interferenza e di esclusione. Ma se la prima, in ordine di tempo, di tali pronunce ha deciso con efficacia di giudicato la stessa, identica, domanda che viene riproposta ad un secondo esame si è in presenza di un ne bis in idem inammissibile e non già dell'effetto di un giudicato su una domanda da decidere. Più radicalmente dell'effetto della cosa giudicata, impedisce un nuovo giudizio il divieto generale di riproporre al giudice domande già decise con pronuncia definitiva. La Corte avrebbe dovuto rilevare l'inammissibilità dell'appello invece di affermare il giudicato. Il principio di diritto al quale ha inteso rimettersi la Corte d'appello è ineccepibile ma riguarda fattispecie diverse da quelle condotte alla sua cognizione. Esso riguarda il caso di due giudizi tra le stesse parti, riferiti ad un medesimo rapporto giuridico, l'uno dei quali già definito con l'accertamento di un punto fondamentale comune ad entrambe le cause: il principio è nel senso che l'accertamento preclude il riesame dello stesso punto ormai risolto. Ma la situazione così individuata presuppone che i due giudizi non abbiano ad oggetto la medesima domanda bensì soltanto un punto fondamentale comune che, acquisito definitivamente nell'uno di essi, deve essere accettato per quello che ne risulta anche nell'altro giudizio. Se la seconda domanda fosse la stessa di quella già decisa, la regola in gioco sarebbe quella della sua non riproponibilità. Non a caso il principio di diritto a cui si è attenuto il collegio (enunciato da Cass. civ., Sez.Un., n. 13916/2006 e da Cass. civ., n. 11754/2018) non accenna affatto alla formazione di un giudicato ma si esprime nel senso del verificarsi di una preclusione. Il giudicato si forma su domande munite ciascuna di una propria autonomia; mentre la decisione di un punto fondamentale comune a più cause comporta la non necessità di ritornare all'esame di quel punto e ciò soltanto per palesi ragioni di economia processuale. In realtà la situazione affrontata dalla Corte d'appello era consequenziale ad una irregolare conduzione del processo addebitabile al giudice di primo grado. Il tribunale aveva ritenuto di dover separare le varie domande del ricorrente in ossequio alle norme della legge n. 92/2012 che richiedono rapide trattazioni per le cause in tema di licenziamento intimato ai sensi dell'art. 18 Statuto dei lavoratori. Con un primo provvedimento aveva negato la tutela del rapporto perché non ne era risultata la natura subordinata, presupposto necessario per la pronuncia sul licenziamento. Con il secondo provvedimento aveva negato le reintegrazioni patrimoniali perché non era risultata provata la natura subordinata delle prestazioni lavorative, che si assumeva essere state illecitamente interrotte per il licenziamento ingiustamente intimato. Ma sulla detta natura subordinata del rapporto lavorativo il tribunale, quando proseguiva la causa in vista della sentenza, si era già pronunciato con una decisione suscettibile di definitività, non impugnata e pertanto ormai munita della forza del giudicato. In pratica, come si è sopra accennato, il tribunale si è pronunciato due volte sulla medesima questione. Un siffatto modo di procedere ha costituito una palese violazione del disposto dell'art. 47 l. n. 92/2012. Proprio perché non si torni inutilmente su questioni decise, questa norma dispone espressamente che si proceda nelle forme abbreviate del rito previsto per l'impugnazione del licenziamento anche quando sorge questione sulla qualificazione del rapporto di lavoro. É evidente infatti che se, denunciato il licenziamento, viene da controparte negata la subordinazione opponendosi che il rapporto era di autonomia, sul punto deve decidersi una volta sola e nella medesima sede: senza pronunciarsi dapprima sulla subordinazione come presupposto per conoscere del licenziamento tra datore di lavoro e dipendente; e poi fare di quella stessa subordinazione l'oggetto di un accertamento autonomo e pregiudiziale all'esame delle domande consequenziali al licenziamento.
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