Liquidazione al professionista dell’indennità per ingiustificato arricchimento in assenza di un regolare contratto

06 Giugno 2019

Sulla base di quali parametri dovrà calcolarsi l'indennizzo per l'arricchimento senza causa in assenza di un contratto scritto tra il professionista e la P.A.?
Massima

L'indennizzo per ingiustificato arricchimento dovuto al professionista che abbia svolto la propria attività a favore della pubblica amministrazione, ma in difetto di un contratto scritto, non può essere determinato, neppure indirettamente quale parametro, in base alla tariffa professionale che il professionista avrebbe potuto ottenere se avesse svolto la sua opera a favore d'un privato, né in base all'onorario che la P.A. avrebbe dovuto pagare, se la prestazione ricevuta avesse formato oggetto d'un contratto valido.

Il caso

Tizio e Caio convenivano in giudizio l'Agenzia per il diritto allo studio universitario nel Lazio (di qui, Agenzia) per sentirla condannare al pagamento nei loro confronti di talune somme a titolo di indennità per arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c., avendo gli stessi eseguito taluni lavori di progettazione in relazione all'esecuzione di opere di ristrutturazione deliberate dall'Agenzia, senza tuttavia che tale attività fosse stata preceduta da alcun contratto scritto.

Il Tribunale condannava l'Agenzia e la Corte d'Appello confermava la decisione di prime cure giudicando corretta la misura dell'indennità per ingiustificato arricchimento, stabilita sulla base delle tariffe professionali dedotte in giudizio.

Avverso detta sentenza l'Agenzia proponeva ricorso per Cassazione, mentre gli attori non svolgevano difese.

La questione

Il punto è il seguente: sulla base di quali parametri dovrà calcolarsi l'indennizzo per l'arricchimento senza causa in assenza di un contratto scritto tra il professionista e la P.A.?

Le soluzioni giuridiche

Oggetto della sentenza in commento è essenzialmente l'individuazione dei criteri da utilizzare per la liquidazione dell'indennità dovuta in caso di arricchimento senza causa, nell'ipotesi di specie prodottosi in capo alla p.a. in seguito alla realizzazione di taluni lavori eseguiti da due architetti, in assenza di un contratto d'appalto concluso tra questi e la p.a., nell'ambito di una più generale opera di ristrutturazione pur deliberata dall'Agenzia.

Premesso che né in sede di merito né di legittimità sorgono dubbi in punto di an,la questione oggetto del decisum attiene alla sola determinazione del quantum, ossia allapossibilità di usare, quale riferimento per la determinazione dell'indennità ex art. 2041 c.c., i parametri indicati per i compensi professionali da riconoscersi in caso di prestazioni analoghe o identiche a quelle eseguite.

I giudici di merito, omettendo di correttamente individuare l'orientamento giurisprudenziale consolidato, richiamano un arresto del Giudice di legittimità che validava la possibilità di utilizzare i parametri individuati con D.M. del Ministero vigilante e, conseguentemente, l'utilizzabilità delle parcelle redatte e vistate dal competente Ordine professionale.

La Suprema Corte, invece, cassando la decisione del Giudice distrettuale, che espressamente aveva citato l'orientamento di una Sezione semplice non conforme all'orientamento stabilito dall'Organo intestatario della funzione nomofilattica, richiama, motivatamente, la propria giurisprudenza consolidata, affermando che, in tema di azione d'indebito arricchimento nei confronti della p.a. conseguente all'assenza di un valido contratto d'appalto tra questa e un professionista, l'indennità ex art. 2041 c.c. va liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, con esclusione di quanto lo stesso avrebbe percepito a titolo di lucro cessante se il rapporto negoziale fosse stato valido ed efficace e senza che possano essere assunte come parametro le tariffe professionali, anche se richiamate da parcelle vistate dall'Ordine competente.

Osservazioni

La sentenza in commento è particolarmente degna di nota per la chiarezza e la perentorietà con cui affronta la questione -assai spinosa nella pratica giudiziaria- riguardante il noto problema dell'interpretazione della legge da parte dei Giudici.

Di là dalla riaffermazione del tradizionale orientamento che esclude, in assenza di un valido negozio, per la determinazione dell'indennità ex art. 2041 c.c., l'utilizzazione di parametri e istituti utilizzabili invero solo in caso in cui l'attività effettivamente resa sia stata esecuzione di una prestazione dedotta in un contratto scritto, centrale nella pronuncia qui in rilievo è la perentoria riaffermazione del fondamentale ruolo della funzione nomofilattica proprio delle Sezioni Unite.

È noto, infatti, che i Costituenti nella redazione dell'art. 94 Cost. fossero ispirati alla teoria dell'interpretazione oggi chiamata cognitiva (anche nota come teoria formalistica), per la quale i documenti normativi sono dotati di un significato proprio antecedente l'interpretazione, sicché gli interpreti altro non fanno che accertare e dichiarare questo significato già dato e, in tal senso, l'interpretazione si risolve in un'attività intellettuale di tipo conoscitivo. Così ragionando, pertanto, il discorso interpretativo può essere vero o falso, risultando vera quella interpretazione che riferisce l'esatto significato delle parole o, alternativamente, quella che penetra la reale volontà del Legislatore.

Attualmente, invece, la parte maggioritaria della Dottrina ritiene che ciascuna disposizione esprima potenzialmente non già una sola e univoca norma, ma più norme alternative: tante norme quante sono le possibili interpretazioni confliggenti (o semplicemente divergenti) di quell'unica disposizione. Inoltre la naturale difficoltà delle operazioni ermeneutiche, con l'inevitabile margine di creatività che esse implicano, sarebbe oggi accresciuta dalle caratteristiche di estrema complessità dell'attuale sistema normativo, caratterizzato da un rilevante numero di atti normativi in vigore, dalla loro stratificazione, dalla pluralità di soggetti da cui essi provengono, dall'ambiguità (talora voluta) delle formulazioni utilizzate.

Orbene, la molteplicità dei Giudici chiamati a interpretare la stessa disposizione di legge e la conseguente concreta possibilità di risultati interpretativi divergenti possono portare, di fatto, a una vanificazione della fondamentale disposizione di cui all'art. 3, comma 1, Cost. eludendo in concreto il principio di legalità e di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

Di qui, la necessità di un'attività che assicuri l'uniformità dell'interpretazione, la quale non potrà non rappresentare un valore essenziale di ogni Ordinamento giuridico, giacché se è vero chel'interpretazione della legge non può darsi mai per certa, è vero anche che essa debba essere, almeno, prevedibile; pertanto solo la preesistenza della legge unitamente alla prevedibilità della sua lettura, per via di un'opera coerente della giurisprudenza, assicurano una solida struttura all'ordinamento giuridico.

In questo senso, la sentenza in commento è particolarmente degna di nota proprio perché riafferma la centralità della funzione nomofilattica, alla luce dell'attuale ordito normativo.

Il termine nomofilachia è, infatti, antico e deriva dal combinarsi delle parole greche nòmos (legge) e phýlax (guardiano): appunto, guardiano della legge. Nell'antica Grecia, la nomofilacìa era, infatti, la Magistratura incaricata di custodire il testo originale delle leggi e di assicurare una certa stabilità alla legislazione, cui si contrapponevano i nomateti (legislatori) che, invece, miravano alla revisione del nòmos adeguando la legge al divenire dei tempi.

Ebbene, premesso che, nella giurisdizione ordinaria, detta centrale funzione è sancita dall'art. 65 del r.d. n. 12/1941 sull'Ordinamento giudiziario -che tuttavia appare ispirata alla cit. teoria formalistica dell'interpretazione, che presuppone la possibilità di individuare come “esatta” una determinata portata della norma- il valore della sentenza in commento va ravvisato nell'aver il Giudice di legittimità cassato con rinvio la decisione del Giudice distrettuale, ammonendolo di aver fatto applicazione di un principio di diritto sancito da una Sezione semplice in modo difforme da quanto, sul punto, invero, già affermato dall'unico Organo intestatario della funzione nomofilattica: le Sezioni Unite civili.

Correttamente, dopo aver richiamato l'orientamento consolidatosi a seguito di due pronunce del Supremo Consesso nel 2008 e nel 2009, muovendo dalla lettura dell'art. 374 c.p.c., modificato dall'art. 8, commi 2 e 3, del d.lgs. n. 40/2006 -dove la rilevante innovazione è costituita dal vincolo che consegue, per le Sezioni semplici, dalla decisione delle Sezioni Unite- il Collegio rileva, da una parte, che il richiamo del Giudice di merito ad una sentenza di una Sezione semplice difforme e successiva alle sentenze delle Sezioni Unite produce una falsa applicazione di norme di diritto, dall'altra, che, in realtà, quella sentenza difforme (peraltro priva di un'adeguata motivazione che individuasse le ragioni della mancata applicazione dell'orientamento consolidato) non si sarebbe mai dovuta pronunciare.

Le Sezioni semplici, infatti, qualora intendano discostarsi dal principio enunciato dalle Sezioni Unite, potranno solo rimettere «la decisione del ricorso» a queste ultime, le quali o riaffermeranno il principio già enunciato oppure muteranno orientamento ed enunceranno un principio di diritto diverso. In sostanza, le Sezioni semplici non hanno l'obbligo di conformarsi al contenuto del precedente delle Sezioni Unite, ma solo il divieto di emettere una pronuncia di contenuto difforme.

È evidente dunque che la nuova disposizione sia stata introdotta come ulteriore presidio alla funzione nomofilattica, per evitare che i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite possano essere elusi da successive pronunce della stessa Corte. Peraltro, si tratta di una disposizione sfornita di specifica sanzione: il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite vincola la Sezione semplice da un punto di vista deontologico (e forse disciplinare), ma se quest'ultima se ne discosta, la legge non prevede alcun mezzo di impugnazione della decisione assunta.

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