Ricusazione del consulente tecnico d'ufficio

16 Luglio 2019

La terzietà–imparzialità del consulente tecnico d'ufficio significa che il consulente non deve essere legato a nessuna delle parti del processo, analogamente a quanto è prescritto per il giudice.
Inquadramento

L'analisi delle ipotesi in cui il consulente tecnico d'ufficio può essere ricusato deve necessariamente prendere le mosse dai principi che sorreggono il diritto processuale civile e che vengono in rilievo in materia di consulenza tecnica d'ufficio, con particolare riferimento al ruolo del consulente.

Ci si riferisce in particolare al principio del contraddittorio, al principio dell'imparzialità del giudice e al principio dispositivo.

In linea generale, è opportuno rammentare che la consulenza tecnica d'ufficio non costituisce un vero e proprio mezzo di prova ma lo strumento attraverso il quale viene accertata la verità dei fatti ove, per questa, occorrano una speciale competenza nella materia oggetto della controversia.

In questo senso, vengono, in rilievo materie, la cui risoluzione in fatto e in diritto, richiede il possesso di competenze che, in quanto settoriali e connotate da particolare spessore tecnico, non sono di conoscenza comune e, quindi, non fanno parte del bagaglio culturale e conoscitivo del Giudice.

Tale premessa consente sin d'ora di comprendere perché la consulenza tecnica d'ufficio, a differenza degli altri mezzi di prova (ad esempio produzioni documentali, testimonianze) sia rimessa all'apprezzamento del Giudice, il quale può disporla anche d'ufficio – a prescindere quindi da un'espressa richiesta delle parte che vi abbia interesse - ove lo ritenga necessario ai fini del decidere.

Ed ancora, l'inquadramento della consulenza tecnica quale mezzo di integrazione delle conoscenze tecniche del Giudice, consente di capire perché al consulente tecnico d'ufficio si applicano le norme di cui agli artt. 51 e 52 c.p.c., in materia di astensione e ricusazione del Giudice, dettate, come è noto, al fine di garantire l'imparzialità di giudizio.

É opportuno precisare che per “imparzialità” deve qui intendersi l'equidistanza da parte del giudicante e, quindi, anche del consulente, dagli interessi sottesi ai diritti e alle istanze delle parti in lite.

In evidenza

La terzietà–imparzialità del consulente tecnico d'ufficio significa che il consulente non deve essere legato a nessuna delle parti del processo, analogamente a quanto è prescritto per il giudice. Tale imparzialità è garantita dalla legge sotto un duplice profilo: innanzi tutto, con il demandarne la nomina al giudice, organo per il quale l'imparzialità è autonomamente e preliminarmente prescritta; e, in secondo luogo, con la previsione, anche per il consulente tecnico, degli istituti dell'astensione e della ricusazione (Cass. civ., sez. I, sent., 22 luglio 2004, n. 13667).

Le cause di ricusazione e di astensione del consulente tecnico d'ufficio. Profili disciplinari

Il consulente tecnico è un ausiliario del Giudice e fornisce a quest'ultimo lo strumento per comprendere il dato tecnico-scientifico necessario per la risoluzione della controversia, sicché può serenamente affermarsi che solo se la valutazione tecnica del consulente è imparziale la decisione del Giudice sarà imparziale, in quanto fondata su apprezzamenti di fatto che richiedono conoscenze tecnico specialistiche espresse e applicate in modo imparziale e trasparente.

Quanto precisato trova conferma nella disciplina codicistica dello status del consulente tecnico d'ufficio.

Trattasi, in particolare, del complesso di norme che hanno l'evidente scopo di garantire l'imparzialità e la capacità tecnica del consulente.

Vengono a tal proposito in rilievo le norme che disciplinano la procedura amministrativa attraverso cui si perviene alla selezione dei consulenti tecnici:

gli artt. 13 e 14 disp att. c.p.c. in materia di istituzione e formazione dell'albo;

gli artt. 15, 16, 17, 18 disp. att. c.p.c. in materia di iscrizione all'albo, che prevedono, quali requisiti di ingresso del consulente la “speciale competenza tecnica in una determinata materia”, la “condotta morale specchiata”, la “iscrizione nelle rispettive associazioni professionali”.

Tra tali requisiti particolarmente significativo è il mantenere una condotta morale specchiata, perché ciò attiene alla garanzia di imparzialità, intesa come rispettabilità sociale.

Il requisito in esame comporta che il consulente abbia tenuto e tenga una condotta tale da non subire condizionamenti impropri nello svolgimento dell'incarico.

Rilevano ancora sotto questo specifico profilo le fattispecie disciplinari di difetto di condotta morale e di inadempimento ai doveri derivanti dagli incarichi ricevuti ex art. 19 disp att. c.p.c. e le sanzioni previste al successivo art. 20 disp. att. c.p.c. (avvertimento, sospensione, cancellazione).

Possono ancora inquadrarsi tra le norme che mirano a garantire la trasparenza e l'indipendenza del consulente, gli artt. 22 e 23 disp. att. c.p.c. che riguardano la distribuzione degli incarichi ed il relativo potere di vigilanza in capo al Presidente del Tribunale.

In particolare, l'art. 52 della legge n. 69 del 2009 ha integrato il primo comma dell'art. 23 disp. att. c.p.c., introducendo il cd. criterio di rotatività degli incarichi prevedendo che il Presidente del Tribunale vigili affinché a nessuno dei consulenti iscritti all'albo sia conferito più del 10% degli incarichi affidati dall'ufficio.

La norma in esame si prefigge lo scopo di evitare che tra giudici e consulenti si instaurino rapporti privilegiati.

Per costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, la scelta del consulente tecnico è rimessa al potere discrezionale del giudice, salva la facoltà delle parti di far valere, mediante istanza di ricusazione ai sensi degli artt. 63 e 51 c.p.c. nel termine perentorio di cui all'art. 192 c.p.c., gli eventuali dubbi circa la obiettività e l'imparzialità del consulente stesso, dubbi che, ove l'istanza di ricusazione non sia stata proposta, non sono più deducibili mediante il ricorso per cassazione. (in questi termini, anche da ultimo, Cass. civ., sez. VI-L, ord., 24 gennaio 2019, n. 2103)

Il disposto dell'art. 63 c.p.c. prescrive l'obbligo per il consulente di assumere l'incarico conferitogli dal Giudice, salvo che questi riconosca la sussistenza di una giusta causa di astensione. La previsione in esame costituisce una clausola aperta dal contenuto atipico, nel senso che, anche al di fuori delle ipotesi di astensione obbligatoria, è rimesso al prudente apprezzamento del magistrato che ha nominato il consulente la valutazione della sussistenza di ragioni di opportunità tali da accogliere la richiesta di astensione formulata dal consulente ed esonerarlo dall'incarico conferito.

La disposizione in esame rispecchia la clausola di chiusura contenuta all'art. 51, ultimo comma, c.p.c., a mente della quale, anche al di fuori delle ipotesi di astensione obbligatoria (art. 51, comma 1, c.p.c.), il Giudice, ove sussistano gravi ragioni di convenienza, può chiedere al capo dell'ufficio l'autorizzazione ad astenersi.

Sulla scorta di quanto evidenziato, può affermarsi che anche per il consulente è prevista la cd. astensione facoltativa di cui alla citata norma.

Le ipotesi di astensione obbligatoria del consulente tecnico si ricavano in forza del combinato disposto di cui agli artt. 63 e 51 c.p.c., ovvero dalla disciplina della ricusazione.

Ed infatti, a mente dell'art. 63, comma 2, c.p.c., le parti possono ricusare il consulente per i motivi indicati all'art. 51 c.p.c.

Trattasi degli stessi motivi per cui il Giudice è tenuto ad astenersi (cd. astensione obbligatoria) e dei motivi integranti le gravi ragioni di opportunità di cui all'ultimo comma della norma citata (cd. astensione facoltativa).

Ed allora, se questo è il perimetro normativo di riferimento, può senz'altro affermarsi che le parti possono ricusare il consulente nelle seguenti ipotesi:

  1. se ha interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto;
  2. se egli stesso o la moglie è parente fino al quarto grado o legato da vincoli di affiliazione, o è convivente o commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori;
  3. se egli stesso o la moglie ha causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito con una delle parti o alcuno dei suoi difensori;
  4. se ha dato consiglio o prestato patrocinio nella causa, o ha deposto in essa come testimone;
  5. se è tutore, curatore, procuratore, agente o datore di lavoro di una delle parti; se, inoltre, è amministratore o gerente di un ente, di un'associazione anche non riconosciuta [36 c.c.], di un comitato [39 c.c.], di una società [2247 c.c.] o stabilimento che ha interesse nella causa.
  6. In ogni altro caso in cui esistono gravi ragioni di convenienza.

Per costante opinione giurisprudenziale, le ipotesi elencate all'art. 51, comma 1, c.p.c. sono tassative e insuscettibili di applicazione analogica, ad eccezione, come visto, della clausola di chiusura che contempla le “gravi ragioni di convenienza” la cui valutazione è rimessa al Giudice che ha nominato il consulente.

La tecnica dell'elencazione specifica vale a individuare con certezza le ipotesi di astensione obbligatoria e a graduarle secondo la gravità.

Tra di esse possono distinguersi quelle situazioni di fatto che, oggettivamente e senza alcuna necessità di valutazione, esprimono la sussistenza di un interesse diretto del consulente e quelle situazioni che esprimono un interesse indiretto.

Le prime ricorrono allorquando il consulente sia titolare di un rapporto giuridico dipendente, connesso o incompatibile con quello oggetto del processo (art. 51, comma 1, nn. 1-2-3 e 4, c.p.c.), e le seconde quando viene in rilevo la sussistenza di una relazione di legame parentale o una situazione di contrasto tra il consulente e i soggetti a vario titolo coinvolti nella causa (art. 51, comma 1, n. 5 c.p.c.).

Come è evidente, le parti possono ricusare il consulente in tutte quelle ipotesi in cui quest'ultimo, al pari del Giudice, pur avendo l'obbligo di astenersi, ometta di farlo.

Proprio la previsione per cui le ipotesi di ricusazione vengono ricavate dalle ipotesi di (omessa) astensione, porta a ritenere che più che di obbligo di astensione debba parlarsi di “onere di astensione” e ciò in quanto, in caso di mancata astensione, obbligatoria o riconosciuta, sorge il potere delle parti di provocare la ricusazione del consulente, ai sensi dell'art. 63, comma 2, c.p.c.

Nel caso, poi, in cui il consulente ometta di rappresentare la causa di astensione obbligatoria, si determinano conseguenze sul piano disciplinare.

Ci si riferisce in particolare alla violazione dell'obbligo sancito all'art. 19 disp. att. c.p.c. di tenere una condotta morale specchiata, tale da essere ed apparire imparziale.

Il procedimento disciplinare a carico del consulente è disciplinato agli artt. 19 e ss disp. att. c.p.c.

Esso prende le mosse dal potere di vigilanza in capo al Presidente del Tribunale, il quale, d'ufficio o su istanza del Procuratore della Repubblica ovvero ancora del Presidente dell'associazione professionale, può promuovere procedimento disciplinare.

Ai sensi del successivo art. 20 disp att. c.p.c., per il giudizio disciplinare è competente il comitato di cui all'art. 14 disp. att. c.p.c. presieduto al Presidente del Tribunale e composto dal Procuratore della Repubblica e da un professionista iscritto nell'albo professionale designato dal consiglio dell'ordine o dal collegio della categoria cui appartiene il consulente tecnico.

Nella pratica degli uffici, sono normalmente i Giudici che procedono a segnalare al Presidente del Tribunale, perché eserciti il potere/dovere di vigilanza e disciplinare, eventuali condotte contrarie agli obblighi derivanti dall'incarico ricevuto.

In evidenza

Secondo la giurisprudenza di legittimità, la nomina dello stesso consulente tecnico d'ufficio nei diversi gradi di giudizio non integra un'ipotesi di astensione obbligatoria, ma facoltativa. Conseguentemente, in tali casi, l'unico mezzo per far valere l'incompatibilità è l'istanza di ricusazione ai sensi degli artt. 63 e 51 c.p.c. - alla quale non è equiparabile la richiesta di revoca dell'ordinanza di nomina del consulente (in questo senso, Cass. civ., Sez. Un.,n. 7770/2009).

Il procedimento per la ricusazione

L'incompatibilità del consulente non può essere fatta valere se non sia stata tempestivamente denunciata con richiesta di ricusazione (Cass. civ., Sez. Un., n. 17636/2003).

Il risvolto dell'orientamento giurisprudenziale citato è stato approfondito dalla Suprema Corte a Sezioni Unite con la sentenza n. 7770/2009, già richiamata.

Detta pronuncia stabilisce che il principio unanimemente affermato secondo cui le cause di incompatibilità o sospetta non imparzialità del consulente devono essere fatte valere con il procedimento di ricusazione, risulterebbe eluso se si ammettesse la censura per vizio di motivazione dell'ordinanza di rigetto della mera richiesta di sostituzione presentata in un caso in cui avrebbe potuto essere denunciata una causa di incompatibilità.

In sostanza, in presenza di una causa di astensione non fatta valere dalle parti per mezzo della ricusazione, non può formare oggetto di successiva doglianza il diniego di sostituzione del consulente tecnico richiesta dalla parti per le medesime ragioni di incompatibilità.

Discendono da quanto esposto due ordini di considerazioni.

La prima, che il Giudice del merito, in qualunque momento e per qualsiasi ipotesi – e quindi anche e a maggior ragione nel caso in cui sussista una causa di incompatibilità del consulente non denunciata a mezzo di ricusazione – può, ai sensi dell'art. 196 c.p.c., d'ufficio o su istanza di parte disporre la sostituzione del consulente ove ricorrano gravi motivi; tuttavia, il mancato esercizio del potere di sostituzione, se sorretto da adeguata e congrua motivazione, non è suscettibile di rivalutazione da parte della Corte di Legittimità (in questo senso, tra le tante, Cass. civ., sez. L, sent., n. 3105/2004).

La seconda, che la parte che intenda far valere l'incompatibilità del consulente, è tenuta a provocarne la ricusazione secondo le norme del codice di procedura civile.

Il procedimento di ricusazione è, in particolare, disciplinato all'art. 192 e ss. c.p.c.

L'istanza di ricusazione deve essere proposta, a pena di inammissibilità, almeno tre giorni prima dell'udienza fissata per il conferimento dell'incarico peritale.

La competenza a decidere sulla ricusazione è rimessa al Giudice che ha nominato il consulente e la decisione assume la forma dell'ordinanza non impugnabile. Al regime espresso di non impugnabilità discende l'applicazione della norma di cui all'art. 177, comma 3, n. 2, c.p.c., a mente del quale l'ordinanza espressamente dichiarata non impugnabile dalla legge non è né modificabile né revocabile da parte del Giudice che l'ha pronunciata.

Conseguentemente, la decisione sull'istanza di ricusazione non è né revocabile né modificabile.

In evidenza

La scelta del consulente tecnico è rimessa al potere discrezionale del giudice, salva la facoltà delle parti di far valere mediante istanza di ricusazione ai sensi degli artt. 63 e 51 c.p.c. gli eventuali dubbi circa la obiettività e l'imparzialità del consulente stesso, dubbi che, ove l'istanza di ricusazione non sia stata proposta, non sono più deducibili mediante il ricorso per cassazione (Cass. civ., sez. VI-L, ord., n. 2103/2019).

Le sorti dell'elaborato peritale in caso di mancata ricusazione del consulente

Quanto agli effetti sull'elaborato peritale depositato dal consulente che versi in un'ipotesi di incompatibilità non denunciata e non fatta valere a mezzo della ricusazione, deve osservarsi che, in assenza di espressa disposizione di legge, non può ritenersi che venga in rilievo un'ipotesi di nullità.

Di talché, anche in tal caso, il Giudice, esercitando il potere riconosciutogli dall'art. 196 c.p.c., può provvedere alla sostituzione del consulente e disporre la rinnovazione delle operazioni peritali.

Ovviamente perché detto potere sia esercitato in modo equilibrato e ragionevole, è necessario che il Giudice ritenga – e di tale convincimento dia conto nell'ordinanza di sostituzione e rinnovazione delle operazioni peritali – che la sussistenza della causa incompatibilità (anche non accertata in quanto non denunciata nei termini perentori per la ricusazione) abbia refluito, condizionandone le valutazioni, sull'elaborato peritale.

Ma anche aldilà di tale ipotesi, in cui sostanzialmente il Giudice ritenga che l'elaborato peritale non sia connotato da quella imparzialità e terzietà che deve sovrintendere all'ufficio del consulente, può venire in rilievo il caso che la causa di incompatibilità venga conosciuta dalle parti dopo le operazioni peritali.

In tale ultimo caso, il potere di sostituzione del consulente e di disporre la rinnovazione delle operazioni peritali può fondarsi sulla sopravvenuta compromissione del rapporto fiduciario tra che deve legare il Giudice all'ausiliario nominato.

Particolarmente significativo in materia è l'orientamento espresso anche di recente dalla Suprema Corte, secondo cui l'art. 192, comma 2, c.p.c., nel prevedere che l'istanza di ricusazione del consulente tecnico d'ufficio deve essere presentata con apposito ricorso depositato in cancelleria almeno tre giorni prima dell'udienza di comparizione, preclude definitivamente la possibilità di far valere successivamente la situazione di incompatibilità, con la conseguenza che la consulenza rimane ritualmente acquisita al processo.

A tale principio non è consentita deroga per l'ipotesi in cui la parte venga a conoscenza soltanto in seguito della situazione di incompatibilità, poiché, in questo caso, è possibile esclusivamente prospettare le ragioni che giustificano un provvedimento di sostituzione affinché il giudice, se lo ritenga, si avvalga dei poteri conferiti dall'art. 196 c.p.c., spettando, comunque, all'ausiliario il compenso per l'attività svolta.

Riferimenti
  • Mandrioli, Diritto processuale civile, XVIII edizione;
  • Commentario breve al codice di procedura civile, ed. 2016, Padova.
Sommario