Così la Sesta Sezione della Cassazione Civile, nell'
ordinanza n. 19434/19 depositata il 18 luglio 2019.
Il caso. I rumori, assurti al rango di immissioni intollerabili, provenienti dall'attività di revisione dell'officina fronteggiante la propria abitazione hanno portato la proprietaria dell'immobile a chiederne giudizialmente l'inibizione.
Sia il Tribunale che la Corte d'Appello hanno dato ragione alla proponente, condannando altresì il proprietario dell'officina al risarcimento dei danni.
La questione è poi giunta all'attenzione della Cassazione.
In particolare, il ricorrente ha da un lato sottolineato come i giudici del merito avrebbero dovuto individuare rimedi gradati, rispetto alla inibitoria totale (e quindi alla chiusura dell'attività), e dall'altro evidenziato come erroneamente i giudici del merito avevano considerato il danno come sussistente in re-ipsa, anziché come danno-evento.
Incombe sul giudice valutare le possibili alternative alla cessazione totale.
La suprema Corte ha accolto il ricorso, sotto entrambi i profili.
I Giudici hanno voluto dare continuità all'orientamento (così Cass. civ., n. 4394/2012 e n. 887/2011) secondo cui il giudice che pur accolga la domanda volta a far cessare le immissioni ha comunque l'obbligo di precisare le ragioni della scelta e motivare le misure in concreto adottate, tanto più nei casi in cui si ritenga impossibile adottare misure meno invasive della totale cessazione.
La cessazione dell'attività, infatti, è solo il “più estremo” tra i rimedi possibili per ricondurre le immissioni rumorose nel campo della normale tollerabilità, e viceversa il giudice, dovendo decidere in tema di “non facere” ha il dovere di valutare tutta la gradazione tra la cessazione dell'attività e l'imposizione di accorgimenti nello svolgimento della stessa, atti a ricondurla nell'ambito delle immissioni tollerabili.
Il danno-evento non può essere di derivazione giurisprudenziale. Anche il motivo relativo all'erronea qualificazione del danno da immissioni rumorose come danno in re ipsa, da cui era discesa la condanna al risarcimento dei danni, è stato accolto dalla Sesta Sezione.
D'altra parte, negli ultimi anni, e definitivamente con le sentenze di San Martino del 2008 (nn. 26972/08 e ss.), la Cassazione ha più volte ribadito che “quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato”.
Anche perché riconoscere un danno in re ipsa significa affermare che un danno è presunto, con conseguente inversione dell'onere della prova, e quindi a identificare il danno risarcibile con la lesione del diritto.
Così facendo, si viene però a configurare un danno punitivo, ma i danni punitivi, come chiarito dalle Sezioni Unite nel 2017 (n. 16601/2017) debbono essere previsti dal legislatore, in applicazione dell'art. 23 Cost.
Rimane dunque onere del danneggiato allegare e provare (anche a mezzo di presunzioni, che dovranno essere gravi, precise e concordanti) l'effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti.