La prova del nesso causale nella responsabilità contrattuale e aquiliana
21 Agosto 2019
Inquadramento
ll tema della distribuzione dell'onere probatorio in ordine al nesso di causalità nella responsabilità da inadempimento e nella responsabilità aquiliana involge essenzialmente i profili del “chi” deve provare e del “come” si prova la causalità. Il primo argomento attiene, in realtà, al nodo relativo all'individuazione della parte in giudizio su cui ricadono le conseguenze della mancanza di prova sull'aspetto eziologico, in applicazione della generale previsione di cui all'art. 2697 c.c. La seconda questione riguarda, invece, il quomodo della prova, ossia le condizioni attraverso cui può reputarsi soddisfatto l'assolvimento dell'onere probatorio sulla causalità. In primis, occorre rilevare che la prova della causalità non verte in senso stretto su un fatto, bensì su una regola di giudizio ovvero sul criterio di collegamento tra due fatti (la condotta e l'evento dannoso ovvero il fatto illecito o l'inadempimento e le conseguenze dannose). Il che non toglie che la causalità debba essere integrata – e, per l'effetto, provata – affinché possa invocarsi il risarcimento del danno. Infatti, se l'evento dannoso o le conseguenze dannose non siano riconducibili ad una condotta particolare del debitore o dell'autore dell'illecito, e tale collegamento non sia riscontrato, nessuna riparazione può essere riconosciuta. In secondo luogo, l'oggetto della prova del nesso causale può interessare due distinti stadi della causalità: la causalità materiale o la causalità giuridica. La prova della causalità materiale, o di fatto, consiste nella dimostrazione del nesso che lega la condotta del debitore o dell'autore dell'illecito all'evento dannoso. Tale rapporto è regolato dal principio della condicio sine qua non, cui si associa il correttivo della causalità adeguata, di cui agli artt. 40 e 41 c.p.: l'evento dannoso deve essere la conseguenza della condotta, all'esito di un giudizio controfattuale ex post di eliminazione mentale (in base ad una prognosi postuma), ovvero di un giudizio ipotetico di inclusione nel caso di condotte omissive (se la condotta attiva dovuta, in base ad un obbligo di prevenzione specifico o generico, fosse stata posta in essere, quell'evento dannoso non si sarebbe verificato), esclusi, in ogni caso, dal novero della causalità i contegni atipici, anomali, inverosimili o eccezionali rispetto agli eventi realizzatisi, alla stregua di una valutazione ex ante. In ragione di tale ricostruzione, la relazione eziologica è esclusa nell'ipotesi in cui intervengano cause pregresse, simultanee o sopravvenute, da sole sufficienti a determinare l'evento, innestando tali fattori, siano essi umani o naturali, delle serie causali autonome, idonee a recidere il nesso tra la condotta in contestazione e l'evento dannoso (c.d. causalità sorpassante o interrotta). La prova della causalità giuridica, o di diritto, postula la risoluzione in termini positivi del primo piano della causalità materiale e concerne la dimostrazione del legame che intercorre tra l'evento dannoso e le conseguenze che esso ha determinato, ossia che le perdite subite e/o il mancato guadano siano conseguenza immediata e diretta di quell'evento, secondo un giudizio di regolarità causale o di occasionalità necessaria o di normalità causale ex art. 1223 c.c. (come richiamato in sede di illecito extracontrattuale dall'art. 2056, comma 1, c.c.). Per effetto di questa impostazione, un interrogativo di fondo esige una spiegazione plausibile: concepito nei termini anzidetti, sembrerebbe che un problema di causalità materiale o di fatto si ponga anche nella responsabilità contrattuale. In realtà, ai sensi della formulazione letterale dell'art. 1218 c.c., nelle obbligazioni di dare o di fare o di non fare, che abbiano fisiologicamente ad oggetto uno spostamento patrimoniale, la condotta di inadempimento si identifica con l'evento di inadempimento. E ciò perché, qualora il programma di obbligazione si attui in ragione della determinazione di un incremento di ricchezza economica nella sfera giuridica del creditore, l'evento dannoso si realizza con il mancato conseguimento della prestazione dovuta: è lo stesso inadempimento a generare in sé il nocumento. Il discorso si pone in termini diversi qualora l'obbligazione non si attui mediante uno spostamento patrimoniale programmato, ma consista in un comportamento eterogeneo, non immediatamente produttivo di incrementi di ricchezza. In tali casi anche nella responsabilità contrattuale la causalità si sviluppa secondo un duplice piano: la causalità di fatto tra la condotta inadempiente e l'evento dannoso; la causalità di diritto tra l'evento dannoso e le conseguenze pregiudizievoli. Si pensi, per tutte, alla responsabilità sanitaria, ma il ragionamento vale, in genere, per le obbligazioni professionali: la prestazione richiesta non è, in tal caso, immediatamente produttiva di uno spostamento patrimoniale, cosicché l'inadempimento rileverà in quanto sia in concreto produttivo di un evento dannoso. Ove la condotta inadempiente non produca alcun danno, non vi è diritto al risarcimento. Pertanto, in tali fattispecie di obbligazioni è necessario discriminare un inadempimento qualificato da un inadempimento oggettivo: il primo è il contegno violativo delle leges artis astrattamente idoneo a produrre un evento dannoso; il secondo è l'inadempimento che in concreto abbia cagionato un evento lesivo nella sfera giuridica del creditore. Le due figure di inadempimento non sono corrispondenti, sicché può esservi un inadempimento qualificato cui non consegua un evento dannoso in concreto. L'inadempimento qualificato deve essere semplicemente allegato. Per converso, solo ove dall'inadempimento oggettivo discenda un evento pregiudizievole, occorre domandarsi se tra quest'ultimo e la condotta inadempiente sussista un nesso causale e fornirne, all'esito, dimostrazione.
Nessun dubbio ricorre sul fatto che, in ragione della clausola generale di responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 2043 c.c., sia onere del danneggiato fornire la prova che il fatto doloso o colposo realizzato abbia cagionato un danno-evento ingiusto. Più controversa è la distribuzione dell'onere probatorio nella responsabilità da inadempimento, in base ai profili sostanziali e processuali ricavabili dall'art. 1218 c.c., ove sia necessario indagare sull'integrazione di un rapporto eziologico tra inadempimento oggettivo ed evento dannoso. I più recenti arresti della Cassazione hanno stabilito che, così come accade per la distribuzione dell'onere probatorio nella responsabilità aquiliana, anche nella responsabilità contrattuale l'onere della prova sul nesso di causalità materiale tra l'inadempimento oggettivo e il danno-evento è a carico del creditore attore, con la conseguenza che, ove la causa resti ignota od oscura od incerta, il risarcimento del danno da inadempimento non spetta. Pertanto, le cause ignote sono a carico del creditore. In senso diverso, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza 11 gennaio 2008, n. 577, avevano previsto, con riguardo al danno da trasfusione di sangue infetto, che anche il difetto di nesso eziologico fosse a carico del debitore, in tal modo onerato della prova che l'inadempimento dedotto dal creditore danneggiato non fosse in relazione causale con i nocumenti denunciati. Per converso, Cass. civ., 26 luglio 2017, n. 18392, Cass. civ., 14 novembre 2017, nn. 26824 e 26825, Cass. civ., 7 dicembre 2017, n. 29315, Cass. civ., 15 febbraio 2018, n. 3704 e Cass. civ., 23 ottobre 2018, n. 26700 (ma, in tal senso, in precedenza, già si erano pronunciate Cass. civ., 14 giugno 2011, n. 12961 e Cass. civ., 12 giugno 2015, n. 12254), pur senza smentire espressamente il precedente delle Sezioni Unite innanzi evocato, hanno chiarito che la dimostrazione delle cause del fatto costitutivo della pretesa risarcitoria derivante dall'inadempimento è a carico del creditore, mentre resta a carico del debitore convenuto la prova delle cause del fatto estintivo, ossia delle ragioni giustificatrici dell'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile. Segnatamente, sia nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, sia in quelli di risarcimento del danno derivante da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa tra questa e il danno costituiscono l'oggetto di due accertamenti concettualmente distinti; la sussistenza della prima non dimostra, di per sé, anche la sussistenza del secondo, e viceversa. Pertanto, l'art. 1218 c.c. solleva il creditore dell'obbligazione che si afferma non adempiuta dall'onere di provare la colpa del debitore inadempiente, ma non dall'onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento. Così nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere dell'attore, ossia del paziente danneggiato, dimostrare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui si chiede il ristoro. Siffatto onere va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno. Se, al termine dell'istruttoria, non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata. Ne discende, con riferimento alla responsabilità della struttura sanitaria (atteso che, all'esito dell'entrata in vigore della legge Gelli-Bianco 8 marzo 2017, n. 24, la responsabilità del medico è qualificata come aquiliana), che non basta che il paziente dimostri il contratto di spedalità e deduca l'aggravamento o l'insorgenza della patologia in conseguenza delle cure prestate, ma è necessario che sia data prova della concreta riconduzione di tale aggravamento o dell'insorgenza della lesione alla condotta, attiva od omissiva, dei medici che operano in quella struttura. Cosicché, quando le cause rimangano ignote o comunque incerte, anche all'esito dell'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio, specie con riguardo alla verificazione di un esito infausto, la responsabilità non potrà essere ascritta alla struttura convenuta. Nondimeno, nel configurare la distinzione tra cause dei fatti costitutivi e cause dei fatti estintivi, i precedenti poc'anzi richiamati prospettano due corollari di non poco momento. Secondo il primo corollario, intanto il convenuto sarà tenuto a dimostrare le cause del fatto estintivo, ossia dell'impossibilità della prestazione, in quanto, in base ad uno sviluppo diacronico di succedaneità, il creditore attore abbia già dimostrato le cause del fatto costitutivo, ossia della causalità materiale tra l'inadempimento e il danno. In forza del secondo corollario, l'onere probatorio che fa carico al debitore convenuto, in ordine alla causa del fatto estintivo, avrà una duplice valenza: da una parte, su un piano oggettivo, è richiesta la dimostrazione circa l'integrazione del caso fortuito, ovvero di un'impossibilità della prestazione per ragioni oggettive ex art. 1256 c.c.; dall'altra, su un piano soggettivo, la prova dovrà avere ad oggetto anche la circostanza che tale impossibilità non sia addebitabile a colpa del debitore. Il che rende più gravoso l'onere spettante al debitore, che dovrà appunto operare in siffatta doppia direzione, sia oggettiva sia subiettiva. Il creditore è onerato della prova sia della fonte del suo diritto che del danno di cui domanda il risarcimento. Il secondo dei due temi di prova è inteso, anzitutto, come evento lesivo: solo in un momento successivo dovranno essere valutate le conseguenze pregiudizievoli risarcibili. Il creditore (danneggiato) deve inoltre “allegare” non un inadempimento tout court ma l'inadempimento “qualificato”, cioè idoneo, sul piano astratto, a provocare il genere di situazioni nelle quali rientra l'evento dannoso in concreto verificatosi. All'allegazione di tale inadempimento qualificato segue l'onere della dimostrazione del nesso eziologico tra l'inadempimento oggettivo e l'evento lesivo. Infatti, la giurisprudenza, nel richiedere al creditore la prova che l'evento lesivo sia attribuibile da un punto di vista eziologico al debitore, fa riferimento, spesso in maniera esplicita, ad una nozione materiale di causalità, del resto sottesa all'esigenza processuale di verificare se il soggetto passivo del rapporto possa ritenersi responsabile di quanto accaduto. Così attribuisce all'attore del giudizio risarcitorio l'onere di dimostrare il nesso tra l'azione o l'omissione (ossia l'inadempimento oggettivamente inteso) del convenuto ed il danno-evento. Il che avviene a monte della valutazione circa i danni-conseguenza, relativi, invece, agli effetti pregiudizievoli dell'evento lesivo sulla sfera patrimoniale e personale del creditore. Tornando alla dimostrazione dell'elemento costitutivo della causalità materiale tra inadempimento e danno-evento, la relativa prova sarà governata dal principio di preponderanza dell'evidenza, secondo la formula del “più probabile che non”. Ciò potrà consentire di propendere per l'individuazione di una causa anziché dell'altra, anche in presenza di due cause alternative, in base allo schema dell'abduzione. Si puntualizza, però, che non si tratta di una rigorosa probabilità statistica o quantitativa (di tipo pascaliano), da desumere in termini percentuali per effetto del superamento della soglia del 50%, bensì di una probabilità logica (di tipo baconiano), sulla scorta di valutazioni tecniche, la cui integrazione è rimessa dal giudice all'ausiliario, che spesso orienta la decisione del contenzioso in modo preminente. In merito, la regola della preponderanza dell'evidenza, o del “più probabile che non”, si applica non solo all'accertamento del nesso di causalità fra l'omissione e l'evento di danno, ma anche all'accertamento del nesso tra quest'ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa (Cass. civ., 24 ottobre 2017, n. 25112). Inoltre, la ricostruzione del nesso di causalità materiale, secondo lo schema civilistico del “più probabile che non”, in ragione della tutela riparatoria che l'ordinamento in tale campo appresta (diversamente dalle finalità della pena nel diritto penale, la cui causalità, sebbene unitaria, si snoda, in sede attuativa, secondo lo schema dell' “oltre ogni ragionevole dubbio”) non deve essere atomistica, in modo che il singolo episodio sia considerato e valutato come inserito in una sequenza più ampia e coerente (Cass. civ., 26 febbraio 2019, n. 5487). Non è escluso che la mera deduzione o allegazione di determinati inadempimenti, sebbene il creditore non abbia fornito una prova specifica del nesso eziologico dell'inadempimento dedotto con il danno rivendicato, possa giustificare il risarcimento dei nocumenti provati, ove l'inadempimento allegato sia significativo in sé del danno arrecato. Ciò accade con riferimento al danno evidenziale, la cui elaborazione è stata prospettata a seguito del caso del c.d. “pallino anonimo”. Segnatamente, la Corte cost., nella sentenza 4 marzo 1992, n. 79, con riferimento alla vicenda relativa allo sparo di un pallino anonimo nell'esercizio dell'attività venatoria, ha ritenuto che, in caso di danno anonimo, è inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2050 c.c., rispetto ai parametri di cui agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevede che, quando non sia possibile l'individuazione di uno specifico responsabile del danno nell'esercizio di una attività pericolosa, sia applicabile la presunzione di responsabilità nei confronti di tutti i partecipi all'attività. Con riferimento all'art. 3 Cost., l'inammissibilità è stata dichiarata per incoerenza tra la censura e il tertium comparationis, atteso che la possibilità per le vittime della circolazione stradale, e non anche per le vittime di altre attività pericolose, come la caccia, di ottenere il risarcimento del danno quando, essendo una sola la condotta lesiva fra più condotte simultanee e uniformi, non sia identificabile l'unico autore dell'evento dannoso, non deriva da una differenziazione del rispettivo onere probatorio - la cui inversione resta, in entrambi i casi, limitata alla colpa e non si estende al nesso di casualità fra condotta ed evento - ma dalla previsione, nell'un caso e non nell'altro, dall'intervento assicurativo del Fondo di garanzia, all'epoca regolato dall'art. 19 della legge n. 990 del 1969; tale essendo il tertium comparationis invocato dal giudice rimettente, la parificazione fra le due situazioni non avrebbe potuto realizzarsi mediante il richiesto ampliamento della presunzione relativa di responsabilità posta dal censurato art. 2050 c.c. - ciò che avrebbe comportato ingiustificata disparità di trattamento rispetto al regime ex art. 2054 c.c. - bensì attraverso l'estensione (attinente a norma diversa da quella impugnata) del meccanismo di intervento assicurativo del suddetto art. 19, così come ha fatto, proprio per la caccia, la sopravvenuta l. n. 157 del 1992, modificando l'originario art. 8 della legge n. 968 del 1977 (non impugnato dal giudice a quo), che simile meccanismo non contemplava. Anche rispetto all'art. 24 Cost. la censura è stata considerata inammissibile, poiché, in tema di responsabilità per l'esercizio di attività pericolose, l'impossibilità, per il danneggiato, di provare il nesso eziologico, e quindi di individuare l'autore dell'evento dannoso, quando, fra più condotte uniformi ed autonome, una sola sia stata lesiva, non implica compressione del diritto di azione, ma consegue al normale operare in concreto dell'onere probatorio, rientrando, peraltro, nella discrezionalità del legislatore - cui è rimesso il bilanciamento fra gli interessi del danneggiato e del danneggiante – l'invocata introduzione di un nuovo criterio di imputazione del fatto illecito, fondato non già sul nesso di causalità, bensì sulla mera “partecipazione” ad una attività pericolosa, con condotte distinte ed autonome, da parte di più persone.
Il giudizio sull'integrazione della causalità individuale spetta, quale ultima parola, comunque al giudice che decide la controversia. Nondimeno, come si accennava in precedenza, un problema di distribuzione dell'onere della prova sulla causalità si pone solo nelle ipotesi residuali in cui il collegamento tra la condotta e l'evento dannoso non sia pacifico tra le parti, non sia evidente in base alle risultanze fattuali, non sia desumibile dai riscontri obiettivi di una consulenza tecnica d'ufficio percipiente, non sia determinabile in via inferenziale. Ove il nesso di causa sia riconosciuto dalla controparte o comunque non sia contestato, la relativa valutazione può ritenersi recepita a cura del giudice. E così, ove la dimostrazione della condotta e dell'evento dannoso lascino emergere ictu oculi e in via immediata l'integrazione della relazione eziologica, nessun dubbio si porrà nel ritenere la causa dimostrata. A medesime conclusioni deve pervenirsi ove la ricostruzione del nesso causale segua ad un'indagine di natura tecnica, che attesti l'esistenza di tale collegamento qualificato tra condotta ed evento. Così come la ricorrenza del rapporto causale può essere desunta dalle prove indirette: ossia quando da un meccanismo inferenziale di tipo presuntivo si possa trarre la convinzione che quell'evento è stato cagionato dalla condotta contestata. Alle presunzioni semplici ex art. 2729 c.c. ha fatto ricorso la giurisprudenza di legittimità per reputare integrata la causa in plurimi settori dell'ordinamento. Così, con riferimento alla responsabilità medica, ove la perdita o l'irregolarità o l'incompletezza della cartella clinica - e, in generale, della documentazione di supporto per la ricostruzione della causa - impediscano un'analisi specifica nel nesso eziologico, anche da tale carenza si può evincere, in base ad un ragionamento inferenziale, che l'inadempimento sia di per sé causa efficiente di produzione del danno. In questo senso, da ultimo, alcuni arresti di legittimità hanno affermato che l'ipotesi di incompletezza della cartella clinica va ritenuta circostanza di fatto che il giudice di merito può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza d'un valido nesso causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente, operando la seguente necessaria duplice verifica affinché quella incompletezza rilevi ai fini del decidere ovvero, da un lato, che l'esistenza del nesso di causa tra condotta del medico e danno del paziente non possa essere accertata proprio a causa della incompletezza della cartella; dall'altro, che il medico abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a causare il danno, incombendo sulla struttura sanitaria e sul medico dimostrare che nessun inadempimento sia a loro imputabile ovvero che esso non è stato causa del danno, incombendo su di essi il rischio della mancata prova (Cass. civ., 23 marzo 2018, n. 2750; nello stesso senso già Cass. civ., 21 novembre 2017, n. 27561, Cass. civ., 14 marzo 2016, n. 4989, Cass. civ., 12 giugno 2015, n. 12218). Allo stesso modo, l'inadempimento sarà passibile di essere considerato causa del danno con riferimento alle attività routinarie, sempre alla stregua di un meccanismo presuntivo. Sicché, in caso di prestazione professionale medico-chirurgica di routine, spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze siano state determinate dalla sua responsabilità, dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento; ne consegue che il giudice, al fine di escludere la responsabilità del medico nella suddetta ipotesi, non può limitarsi a rilevare l'accertata insorgenza di “complicanze intraoperatorie”, ma deve, altresì, verificare la loro eventuale imprevedibilità ed inevitabilità, nonché l'insussistenza del nesso causale tra la tecnica operatoria prescelta e l'insorgenza delle predette complicanze, unitamente all'adeguatezza delle tecniche scelte dal chirurgo per porvi rimedio (Cass. civ., 13 ottobre 2017, n. 24074). Quanto al danno da nascita indesiderata, non basta che il creditore dimostri l'errore diagnostico nella mancata rilevazione delle malformazioni del feto, ma è necessario, affinché la partoriente e il padre possano rivendicare il risarcimento del danno, che sia data dimostrazione, anche attraverso meccanismi presuntivi, della circostanza che, qualora fosse stata rilevata l'anomalia fetale attraverso puntuale informazione, ne sarebbe derivato un pericolo di pregiudizio grave per la salute fisica o psichica della gestante, di cui quest'ultima si sarebbe avvalsa per interrompere volontariamente la gravidanza secondo le condizioni di legge (Cass. civ., Sez. Un., 22 dicembre 2015, n. 25767). In conseguenza, l'omissione informativa sulla diagnosi delle malformazioni fetali non è condizione sufficiente per invocare il risarcimento dei danni, in virtù di un acritico automatismo tra conoscenza delle anomalie ed esercizio del diritto di aborto (che nel nostro ordinamento costituisce reato, salvi i casi particolari ammessi dalla legge, in ragione anche del momento temporale in cui tale facoltà è esercitata, sulla scorta dei presupposti espressamente regolati dall'art. 6 l. 22 maggio 1978, n. 194). Piuttosto, in base ad una ricostruzione postuma della volontà ipotetica (ora per allora), occorrerà dimostrare il nesso causale tra tale omissione, imputabile al debitore, e l'esercizio che ne sarebbe derivato del diritto di interrompere la gravidanza, in presenza dei presupposti di legge. Quest'onere può essere assolto tramite praesumptiones hominis, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all'opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all'aborto per qualsivoglia ragione personale. In ordine al tema del consenso informato nell'ambito dell'attività sanitaria, oggi oggetto di specifica disciplina ai sensi della l. 22 dicembre 2017, n. 219, in linea generale ricorre responsabilità per difetto di consenso informato qualora, seppure a fronte di un intervento perfettamente riuscito, il paziente creditore dia la prova che, in presenza di informazioni adeguate circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, avrebbe rifiutato l'intervento o si sarebbe predisposto ad accettarne più serenamente le conseguenze e le sofferenze (Cass. civ., 19 luglio 2018, n. 19199; Cass. civ., 31 gennaio 2018, n. 2369; Cass. civ., 16 febbraio 2016, n. 2998). Anche in questo caso il creditore è onerato della dimostrazione del nesso eziologico, sempre in forza di una prognosi postuma volta a ricostruire la volontà ipotetica (c.d. giudizio controfattuale), degli esiti di un'informazione corretta ed esauriente, ossia dell'incidenza di dette informazioni, in realtà omesse, o sull'an del consenso o sugli effetti (quomodo) che la prestazione consapevole di tale consenso avrebbe avuto rispetto a quanto in concreto accaduto. Ma alla dimostrazione di tale collegamento può pervenirsi attraverso il meccanismo presuntivo. Fa eccezione a tale principio il difetto di consenso informato nella chirurgia estetica pura, atteso che gli interventi rientranti in tale ambito non attengono alla tutela della salute in senso stretto, ma perseguono uno scopo edonistico (il miglioramento dell'aspetto esteriore), rimesso al mero desiderio della persona interessata. In queste ipotesi il mancato raggiungimento del risultato, ossia l'inestetismo determinato, benché non ascrivibile a colpa, senza che tale possibile esito formasse oggetto di preventiva informazione, importa la responsabilità della struttura, presumendosi che il paziente avrebbe rifiutato siffatti interventi diretti a migliorare l'aspetto estetico, ma non necessari per la tutela della salute, ove avesse conosciuto i relativi rischi (Cass. civ., 6 giugno 2014, n. 12830). Con riguardo alla responsabilità del datore di lavoro per il danno patito dal lavoratore a seguito di infortunio sul lavoro ex art. 2087 c.c., incomberà sul lavoratore che agisce per il risarcimento provare il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento ed il danno mentre graverà sul datore di lavoro l'onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all'attività svolta e di aver adottato tutte le misure che, in considerazione della peculiarità dell'attività e tenuto conto dello stato della tecnica, siano necessarie per tutelare l'integrità del lavoratore, vigilando altresì sulla loro osservanza (Cass. civ., 9 giugno 2017, n. 14468). In questo ambito il datore di lavoro è tenuto a prevenire anche le condizioni di rischio insite nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia del lavoratore, dimostrando di aver messo in atto a tal fine ogni mezzo preventivo idoneo, con l'unico limite del c.d. rischio elettivo, da intendere come condotta personalissima del dipendente, intrapresa volontariamente e per motivazioni personali, al di fuori delle attività lavorative ed in modo da interrompere il nesso eziologico tra prestazione e attività assicurata (Cass. civ., 18 giugno 2018, n. 16026). In particolare, nel caso di omissione di misure di sicurezza espressamente previste dalla legge, o da altra fonte vincolante, c.d. nominate, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore; viceversa, ove le misure di sicurezza debbano essere ricavate dall'art. 2087 c.c., c.d. innominate, la prova liberatoria è generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, quali anche l'assolvimento di puntuali obblighi di comunicazione (Cass. civ., 26 aprile 2017, n. 10319). La rinnovata rilevanza della discriminazione tra obbligazioni di mezzi e di risultato a fini probatori
L'attribuzione generalizzata in capo all'attore dell'onere probatorio sul nesso di causalità materiale tra inadempimento oggettivo e danno-evento non ha mancato di alimentare alcune critiche. Precisamente, si è affermato che dare la “prova” del rapporto eziologico significherebbe dover dimostrare una sequenza concreta di eventi (sino a quello finale, che rappresenta il danno), tra i quali sia possibile istituire (e dimostrare l'esistenza di) nessi di collegamento e/o di derivazione. Con la conseguenza che non sarebbe plausibile “provare” (in concreto) tali nessi se non si siano prima “provati” (benché non si fosse tenuti a farlo), nel loro effettivo e specifico svolgimento, i singoli fatti della sequenza (e, in particolare, il fatto che si pone all'origine della sequenza medesima, ossia l'inadempimento), così sovvertendo il principio secondo cui nella responsabilità contrattuale il creditore è onerato della mera allegazione di tale inadempimento. Per l'effetto, sono stati valorizzati alcuni correttivi, volti a ridimensionare la portata indiscriminata dell'affermazione secondo cui, in ogni caso, l'onere di dimostrare il rapporto di causalità materiale ricadrebbe sul creditore. Così, nella più recente giurisprudenza si nota che, in ordine al riparto dell'onere probatorio nell'ipotesi di responsabilità contrattuale, assume rilievo la vecchia (e secondo molti superata) distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, oggi recuperata sotto altra veste, appunto per selezionare la distribuzione dell'incombenza della prova con specifico riguardo alle obbligazioni professionali, rispetto alle quali hanno una specifica incidenza rispettivamente gli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c. Il primo articolo dispone, con riferimento a tutte le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale (e non solo per il deposito, come era all'origine), che la diligenza deve essere commisurata alla specificità dell'attività prestata, ossia alla sua particolare natura; il secondo articolo, invece, sempre con riferimento alle obbligazioni dei professionisti, e segnatamente dei prestatori d'opera intellettuale, esclude la rilevanza della colpa lieve nelle fattispecie nelle quali l'adempimento implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. In questi casi il professionista risponderà solo per dolo o colpa grave. Viceversa, ove la prestazione sia di facile esecuzione, il professionista risponderà anche per colpa lieve. La distinzione tra obbligazioni di mezzi (o di comportamento) e di risultato, introdotta in Italia ad opera della dottrina (in specie da Luigi Mengoni), ma proveniente dall'esperienza d'oltralpe e tuttora codificata nei principi Unidroit, ha assunto nel corso degli anni, secondo la ricostruzione nomofilattica che ne è stata data, una valenza meramente descrittiva, e ciò sulla base dell'assunto secondo cui anche le obbligazioni di comportamento devono seguire un determinato modello, parametrato alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla scienza dello specifico settore di riferimento o, comunque, ad un modello di condotta virtuoso, cosicché, in questo senso, anche il mezzo è conformato ad un risultato. Tuttavia, fra le righe della giurisprudenza degli ultimi anni si è fatta strada la tesi in forza della quale sul riparto dell'onere probatorio assume una rilevanza determinante la distinzione tra obbligazioni governabili o “ad alta vincolatività” (o di sécurité secondo l'ordinamento francese) e obbligazioni non controllabili o “difficili”. Infatti, non tutte le prestazioni professionali impongono la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, potendosi distinguere, all'interno delle stesse professioni, prestazioni di facile esecuzione. Si pensi, quanto alle prestazioni mediche, alla distinzione tra l'esecuzione di interventi chirurgici che pongono fisiologicamente a rischio la vita del paziente ed esecuzione di interventi di routine o comunque di larga e statisticamente favorevole attuazione; o, ancora, nell'ambito delle obbligazioni dell'avvocato, alla distinzione tra garanzia sull'esito di una lite e difetti di informazione o errori marchiani nel rilascio di pareri pro veritate. In particolare, tra le ipotesi di inadempimento di prestazioni rimesse al pieno controllo dell'avvocato, si annoverano: l'aver fatto maturare la prescrizione del diritto di cui si chiede tutela, la proposizione di un appello inammissibile, l'avere omesso l'impugnazione, con il conseguente passaggio in giudicato della sentenza sfavorevole, il non essere comparso all'udienza di convalida dello sfratto, quale difensore dell'intimato, con il conseguente rilascio di un'ordinanza di convalida, la richiesta di prove inammissibili, l'omessa formulazione di alcuna prova, quando necessaria, la proposizione tardiva delle memorie assertive e istruttorie, che devono essere depositate nei termini perentori fissati dall'art. 183, comma 6, c.p.c., la proposizione dell'impugnazione fuori termine, la tardiva iscrizione a ruolo della citazione introduttiva dell'opposizione a decreto ingiuntivo. Con riguardo alle obbligazioni facenti capo all'amministratore di società, è altrettanto intuitiva la differenza tra la prestazione concernente la convocazione di un'assemblea, pienamente governabile e rientrante nella sua pacifica disponibilità, e il perseguimento dell'oggetto sociale, sulla cui attuazione influiscono anche fattori esterni al contegno dell'amministratore (Cass. civ., 10 agosto 2016, n. 16952). Nei casi in cui si tratti di prestazioni non dipendenti da circostanze esterne, la totale o inesatta esecuzione può giustificare il risarcimento del danno in favore del cliente che provi il nocumento subito, anche sub specie di perdita di chances. D'altro canto, che le obbligazioni di risultato abbiano cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico è comprovato dalle previsioni normative che contemplano determinate obbligazioni in termini teleologici, ossia nella prospettiva di identificare l'inadempimento con ogni ipotesi di mancato conseguimento del bene finale. Si pensi: all'art. 1522, comma 1, c.c., che disciplina la vendita su campione, ammettendo il diritto potestativo alla risoluzione del contratto per inadempimento qualora si riscontri qualsiasi difformità della merce fornita rispetto al campione, ossia all'esclusivo paragone per la valutazione della qualità della merce; alle obbligazioni aventi ad oggetto il pagamento di somme di denaro, ove l'adempimento non può prescindere dalla soddisfazione della pretesa pecuniaria, qualsiasi sia il mezzo adoperato e prescelto dal debitore per raggiungere tale scopo; alle obbligazioni derivanti da contratti che implicano l'organizzazione dei mezzi necessari e la gestione a proprio rischio per il raggiungimento del risultato, come l'appalto ex art 1655 c.c., ma anche gli artt. 2224 e 2225 c.c., con riferimento alle prestazioni di lavoro autonomo consistenti nell'esecuzione dell'opera alla quale il debitore si era impegnato; alle obbligazioni che hanno specificamente ad oggetto la promessa del risultato, cioè il bene finale e non l'attività strumentale al suo perseguimento, come può accadere nei contratti di lavoro dipendente quando sia pattuita la clausola di rendimento minimo; alle azioni edilizie specificamente contemplate dal legislatore con riferimento alla garanzia per i vizi e per l'evizione; alle obbligazioni che discendono dal fatto dell'ausiliario ex art. 1228 c.c. Sotto altro versante, alcune pronunce di legittimità valorizzano, come detto a fini probatori, la ripresa della distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, esaltando piuttosto la rimessione del momento attuativo della prestazione al pieno governo o, comunque, all'ampia disponibilità del debitore, e tanto indipendentemente dall'ambito negoziale da cui il rapporto trae fonte (Cass. civ., 18 ottobre 2016, n. 21031; Cass. civ., 29 luglio 2016, n. 15786; Cass. civ., 28 giugno 2016, n. 13292; Cass. civ., 23 giugno 2016, n. 13007; Cass. civ., 19 aprile 2016, n. 7708; Cass. civ., 20 maggio 2015, n. 10289). Deve reputarsi così superata la datata discriminazione tra prestazioni che derivano da un contratto d'opera, dapprima annoverate tout court nella categoria delle obbligazioni di risultato, e prestazioni che derivano da una prestazione d'opera intellettuale, in passato ricondotte alla categoria delle obbligazioni di comportamento. Infatti, non tutte le attività professionali sono fuori dal controllo del professionista. Si pensi alla discriminazione tra prestazioni del direttore dei lavori e del progettista nel contratto di appalto: è un'obbligazione di risultato la prestazione del progettista avente ad oggetto la predisposizione dei calcoli statici per le strutture in cemento armato. Cambia tuttavia la prospettiva da cui muove la giurisprudenza. L'accento non è più posto sulla natura astratta della prestazione, in base al programma negoziale contemplato, bensì sulla governabilità in concreto dell'esecuzione. Sono prestazioni controllabili o governabili quelle oggettivamente eseguibili alla luce dello stato attuale della scienza. Sicché rientrano tra le obbligazioni non controllabili quelle nelle quali il risultato sia aleatorio, perché dipendente da fattori esterni, oggettivi e/o soggettivi, concomitanti con la condotta del debitore. In tali casi la diligenza costituisce un criterio di determinazione del contenuto del vincolo, che può esonerare da responsabilità quand'anche la prestazione non sia adempiuta. Ricadono, viceversa, tra le obbligazioni governabili, controllabili o disponibili quelle in cui il bene finale rientra nel pieno controllo del debitore e non è condizionato da fattori esterni. In tali casi la diligenza assume il mero ruolo di parametro di controllo e valutazione del comportamento del debitore (Cass. civ., Sez. Un., 28 luglio 2005, n. 15781). Tale qualificazione non può essere accomunata ad una tipologia astratta e onnicomprensiva di obbligazioni, come quelle del professionista. In proposito, il disegno volto ad una ricostruzione unitaria della distribuzione dell'onere probatorio nelle attività professionali, nonostante i due caratteri comuni dell'aleatorietà delle prestazioni convenute in obbligazione e dell'asimmetria informativa tra le parti, è ostacolato appunto dall'eterogeneità delle prestazioni, cui nel caso concreto è tenuto il professionista. La prestazione sul piano oggettivo è piuttosto governabile in tutti casi in cui si possa realizzare l'evento esterno del fortuito, senza il quale la prestazione dipenderebbe esclusivamente dal comportamento del debitore. E ciò a prescindere dal novero in cui detta prestazione si inserisce. Al riguardo, si obietta che in realtà nessuna prestazione ricade nel pieno dominio del debitore, poiché l'insidia di fattori, anche contingenti, inaspettati e imprevedibili, oltre che invincibili, può comunque condizionare l'adempimento anche nelle obbligazioni che, a prima vista, sembrano rimetterne l'esecuzione alla mera condotta conforme del debitore. Tuttavia, la distinzione sembra reggere anche all'esito di tale obiezione. Affinché l'obbligazione sia collocata tra quelle governabili o non, non è infatti dirimente la determinazione delle possibilità di attuazione della prestazione in termini percentuali; piuttosto, occorre all'esito valutare se il costo economico per evitare il fortuito appartenga o meno all'equilibrio causale del rapporto, anche se riferito alle prestazioni accessorie di protezione e sicurezza, cui sia tenuto il debitore. Si tratta, pertanto, di ponderare l'esigibilità in concreto della prestazione sulla scorta delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla scienza di settore, ove sussistenti, o di altri utili parametri di confronto, che fungano da criteri di orientamento per stabilire fino a che punto può spingersi la pretesa di dare attuazione alla prestazione, alla stregua della causa specifica del contratto da cui trae fonte il rapporto obbligatorio controverso. Ne consegue che ciò che assume rilievo non è l'individuazione del soggetto debitore, sia questi professionista o meno, bensì la valutazione della prestazione sotto il profilo oggettivo: la verifica cioè dell'oggettiva realizzabilità della stessa, salvo il fortuito, ovvero la possibilità che quella prestazione sia suscettibile di esecuzione solo ponendo in essere un comportamento adeguato e consono alla natura della prestazione stessa (Cass. civ., 23 marzo 2017, n. 7410). La discriminazione innanzi accolta tra obbligazioni governabili e non governabili assume una concreta incidenza sulla distribuzione dell'onere probatorio. Ciò perché nelle obbligazioni non governabili l'attore dovrà non solo dimostrare la fonte legale o negoziale del rapporto obbligatorio e l'eventuale scadenza del termine, ma dovrà altresì dimostrare, a fronte dell'allegazione dell'inadempimento della controparte, che una diversa ed esigibile condotta diligente del debitore avrebbe prodotto il risultato auspicato dal creditore. Sarà, invece, onere del debitore fornire la prova liberatoria, ossia provare l'osservanza delle regole dell'arte e la sua conformazione ai protocolli di settore. Nelle obbligazioni governabili, per converso, sarà onere del creditore istante dimostrare l'oggettiva eseguibilità della prestazione, in quanto controllabile appieno dal debitore; quest'ultimo, per contro, sarà gravato della prova liberatoria in ordine all'integrazione del caso fortuito, inteso come circostanza eccezionale, esterna e non dominabile, che ha reso impossibile il raggiungimento del fine ultimo cui aspirava legittimamente il creditore. Da questa discriminazione deriva che le cause ignote che non consentono l'adempimento della prestazione dedotta in obbligazione sono a carico del creditore nei rapporti non governabili; sono a carico del debitore nei rapporti controllabili (Cass. civ., 28 febbraio 2014, n. 4876). Come innanzi chiarito, la ricostruzione del nesso di derivazione eziologica esistente tra la condotta del debitore o del danneggiante e le conseguenze dannose risarcibili implica la scomposizione del giudizio causale in due autonomi e consecutivi segmenti, il primo volto ad identificare - in applicazione del criterio del “più probabile che non” - il nesso di causalità materiale che lega la condotta all'evento di danno, il secondo diretto, invece, ad accertare il nesso di causalità giuridica che lega tale evento alle conseguenze dannose risarcibili, accertamento, quest'ultimo, da compiersi in applicazione dell'art. 1223 c.c., norma che pone essa stessa una regola eziologica (Cass. civ., 17 settembre 2013, n. 21255; Cass. civ., 19 febbraio 2013, n. 4043; Cass. civ., 11 febbraio 2009, n. 3357). Sarà onere del creditore o del danneggiato dimostrare, in primis, l'esistenza e, quindi, la riconducibilità delle conseguenze pregiudizievoli (perdite subite, mancati guadagni) all'evento dannoso, secondo un giudizio di regolarità o normalità causale: detti pregiudizi, patrimoniali e non, devono essere conseguenza diretta e immediata dell'evento lesivo e non meramente occasionati dallo stesso. L'intervento di fattori concorrenti, naturali o umani, e in quest'ultimo caso ascrivibili a terzi o allo stesso creditore ovvero al danneggiato, incide proprio sul nesso di causalità giuridica, ossia sulla selezione dei nocumenti risarcibili. Infatti, ai sensi degli artt. 1227 e 2055 c.c., il nostro ordinamento non aderisce alla tesi della responsabilità parziaria, la quale implica che le cause concorrenti influiscano sul rapporto di causalità materiale, bensì alla teoria del danno differenziale. Sicché qualora la produzione di un evento dannoso risulti riconducibile alla concomitanza di una condotta umana e di una causa naturale, l'autore del fatto illecito o il debitore inadempiente risponde, in base ai criteri della causalità naturale, di tutti i danni che ne sono derivati, a nulla rilevando che gli stessi siano stati concausati anche da eventi naturali, che possono invece rilevare ai fini della stima del danno, ossia sul piano della causalità giuridica, determinando il danno risarcibile sia in ragione della differenza tra lo stato complessivamente presentato dal danneggiato dopo il fatto e lo stato pregresso, sia alla stregua della situazione che si sarebbe determinata se non fosse intervenuto il fatto lesivo imputabile (Cass. civ., 20 novembre 2017, n. 27524; Cass. civ., 13 novembre 2014, n. 24204; Cass. civ., 21 luglio 2011, n. 15991).
*Fonte: www.ridare.it |