Prescrizione del diritto alla ripetizione dei versamenti indebiti su conto corrente e decorrenza degli interessi

Francesco Bartolini
07 Ottobre 2019

Si è chiesto alla Suprema Corte di stabilire se, proprio in considerazione della detta diversità di decorrenza, la banca che eccepisce la prescrizione del diritto di restituzione del cliente debba, nel formulare tale difesa, specificare quali siano state nel corso del rapporto le rimesse solutorie e quali, invece, quelle di mero ripristino della provvista; quali le pretese prescritte e quali i diritti ancora azionabili.
Massima

L'onere di allegazione gravante sull'istituto di credito che, convenuto in giudizio, voglia opporre l'eccezione di prescrizione al correntista che abbia esperito l'azione di ripetizione di somme indebitamente pagate nel corso del rapporto di conto corrente assistito da una apertura di credito, è soddisfatto con l'affermazione dell'inerzia del titolare del diritto e la dichiarazione di volerne profittare senza che sia anche necessaria l'indicazione di specifiche rimesse solutorie.

Ai fini del decorso degli interessi in ipotesi di ripetizione di indebito oggettivo, il termine “domanda”, di cui all'art. 2033 c.c., non va inteso come riferito esclusivamente alla domanda giudiziale ma comprende, anche, gli atti stragiudiziali aventi valore di costituzione in mora, ai sensi dell'art. 1219 c.c.

Il caso

Nel giudizio giunto all'esame della Suprema Corte l'attore aveva chiesto la condanna dell'istituto bancario, sua controparte in un rapporto di conto corrente con apertura di credito, a restituirgli somme versate indebitamente, previa contestuale dichiarazione di nullità delle clausole di determinazione dell'interesse, in base agli usi praticati “su piazza”, e di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, con esclusione, altresì, delle commissioni di massimo scoperto. La banca convenuta aveva eccepito l'intervenuta prescrizione delle pretese avverse e il giudice di appello aveva accolto questa difesa con riguardo ai soli versamenti aventi natura solutoria, non anche con riferimento ai versamenti eseguiti dal cliente per ripristinare la provvista in affidamento. Infatti, quanto ai versamenti della prima specie, riparatori all'uso del conto in mancanza dell'affidamento od all'esposizione debitoria in entità maggiore di quella autorizzata, la prescrizione doveva ritenersi ormai maturata perché decorsa dai risalenti singoli atti di pagamento. Per quelli ripristinatori la prescrizione doveva invece essere computata con inizio dalla chiusura del conto e non si era ancora compiuta. L'eccezione difensiva fu pertanto accolta soltanto in parte.

Il ricorso per cassazione del correntista ha proposto (tra altri dichiarati inammissibili o assorbiti) due motivi di gravame sui quali si è accentrata l'attenzione della Corte. Con l'uno si è impugnato il capo di sentenza avente ad oggetto la dichiarazione di prescrizione del diritto a ripetere una parte dei versamenti e in proposito si contestano le modalità e la completezza dell'eccezione di prescrizione estintiva proposta dall'istituto di credito. Con l'altro si chiede di riconoscere una più favorevole decorrenza degli interessi dovuti sulle somme restituende.

La questione

Il ricorso non discute l'assunto secondo cui, per giurisprudenza ormai condivisa, deve farsi distinzione, nell'ambito dei rapporti di conto corrente con apertura di credito, tra i versamenti del correntista effettuati in funzione solutoria, per sanare il debito sorto dallo sconfinamento dal conto, e i versamenti che rientrano nell'esecuzione del contratto, nell'ambito delle operazioni di prelievo e ripristino della provvista consentite dall'affidamento. Il termine prescrizionale dell'azione di ripetizione delle somme che il correntista assume avere versato indebitamente ha decorrenza diversa, nelle due ipotesi: con inizio da ciascuno dei versamenti per gli atti solutori, in quanto essi costituiscono “pagamenti” con traslazione di patrimonio; dalla cessazione del rapporto e dal saldo per gli altri, in quanto computabili solo alla chiusura del conto di dare e avere. Ma, tanto assodato, alla Corte si è chiesto di stabilire se, proprio in considerazione della detta diversità di decorrenza, la banca che eccepisce la prescrizione del diritto di restituzione del cliente debba, nel formulare tale difesa, specificare quali siano state nel corso del rapporto le rimesse solutorie e quali, invece, quelle di mero ripristino della provvista; quali le pretese prescritte e quali i diritti ancora azionabili. Potrebbe la banca limitarsi ad opporre la prescrizione, senz'altra indicazione, o deve invece munire la sua eccezione di riferimenti concreti ai singoli atti ai quali la causa estintiva deve essere applicata e di essi indicare la data?

Anche la seconda questione posta con i motivi di ricorso riguarda termini di decorrenza. Una volta accertatosi in causa che la domanda del correntista non è prescritta per ciò che riguarda taluni dei versamenti indebiti, come vanno computati gli interessi sulle somme dovute in restituzione? Secondo i principi di cui all'art. 2033 c.c. essi sono esigibili dal momento della domanda: ma questa domanda è soltanto la richiesta formale al giudice o può consistere in un qualunque atto di richiesta stragiudiziale avente l'efficacia di costituire il debitore in mora? Se il correntista aveva chiesto alla banca nel corso del rapporto di restituirgli somme determinate sull'assunto del loro versamento indebito, il suo sollecito ha l'efficacia di una “domanda” nel senso richiesto dalla norma citata? La risposta positiva al quesito comporta conseguenze pratiche rilevanti: la richiesta stragiudiziale, se ritenuta efficace, determina l'interruzione della prescrizione, con conseguente computo della decorrenza della prescrizione dei diritti del correntista non più dai precedenti atti di versamento ma dalla posteriore e più favorevole data di tale interruzione.

Le soluzioni giuridiche

Nell'affrontare la prima delle questioni dibattute, la Suprema Corte ha dato dettagliatamente conto dei diversi orientamenti formatisi nella giurisprudenza di legittimità in ordine alle modalità di formulazione dell'eccezione di prescrizione estintiva e ha ricordato in proposito le acquisizioni di cui alla pronuncia a Sezioni Unite n. 10955/2002 alle quali si è espressamente adeguata. Tale decisione aveva affermato che l'onere di allegazione a carico delle parti ha ad oggetto il c.d. fatto principale della domanda o dell'eccezione: da intendersi costituito dai fatti costitutivi della domanda, per chi la propone, e dai fatti impeditivi, modificativi, estintivi del diritto fatto valere da controparte, per chi contesta la domanda proponendo l'eccezione. Con specifico riferimento all'eccezione di prescrizione, che è eccezione in senso stretto, il fatto principale da allegare è stato individuato dalla citata pronuncia nell'inerzia del titolare del diritto, inerzia che è la causa dell'estinzione della sua pretesa. E dunque la parte che propone l'eccezione deve soltanto dedurre detta inerzia, per adempiere al suo onere di allegazione, esprimendo la volontà di volersi avvantaggiare dell'evento estintivo verificatosi. Le Sezioni Unite nella più recente sentenza hanno ripreso espressamente il principio che era stato così enucleato con una pronuncia che di quel principio ha fatto applicazione al particolare caso in esame, della prescrizione opposta alle richieste di restituzione delle somme indebitamente versate dal correntista. Esse hanno affermato che la banca convenuta in giudizio, avendo il solo onere di allegare l'altrui inerzia, può limitarsi a formulare l'eccezione di prescrizione senza specificare a quali delle varie rimesse sul conto corrente, solutorie o ripristinatorie, la dedotta avvenuta estinzione si riferisca e quale ne sia la data di compimento.

La connessa questione della decorrenza degli interessi sulle somme oggetto di ripetizione di indebito è stata risolta sulla base di una aggiornata interpretazione dell'art. 2033 c.c. Questa norma dispone, per il caso di azione in ripetizione di indebito oggettivo, che gli interessi sono dovuti dalla “domanda”, senz'altra specificazione. La giurisprudenza prevalente ha inteso quel termine come riferito alla sola domanda giudiziale. Ma ragioni storiche, letterali e sistematiche inducono a concludere che il termine letterale così utilizzato va inteso come comprensivo di qualunque atto idoneo a costituire in mora l'accipiens in buona fede di somme non dovute. Gli interessi sulle somme riconosciute al correntista dovevano dunque essere ricalcolati tenendo conto di questa interpretazione innovativa a decorrere dai solleciti di restituzione del correntista nel corso del rapporto.

Osservazioni

La sentenza delle Sezioni Unite ha risolto due questioni in diritto sulle quali la giurisprudenza aveva espresso orientamenti risolutivi contrapposti.

La prima questione riguarda il comportamento della banca che resiste alla pretesa del suo correntista di vedersi restituire somme asseritamente versate in modo indebito e che si difende opponendo a tale pretesa l'intervenuta prescrizione del diritto alla ripetizione. Tale eccezione è rimessa interamente alla discrezione della parte interessata, quale difesa in senso stretto, non rilevabile d'ufficio. Essa necessita, cioè, di una deduzione apposita, che costituisce un tipico atto difensivo nel giudizio. Si è chiesto alla Suprema Corte di stabilire se questa eccezione debba essere corredata dei dettagli, in fatto, rilevanti ai fini della determinazione del momento di decorrenza del termine prescrizionale o se la banca possa limitarsi ad una formulazione generica facendo valere il proposito di approfittare dell'estinzione dei diritti altrui. La questione era stata variamente decisa, in passato, e le Sezioni Unite ne hanno offerto una soluzione che costituisce coerente applicazione di un principio generale di più vasta portata.

Entrambe le parti, si ricorda nella motivazione, hanno l'onere di allegare i fatti sui quali fondano le rispettive domande e difese. L'attore deve provare i fatti costitutivi della sua pretesa; il convenuto, che ad essa si opponga, deve allegare i fatti impeditivi, modificativi, estintivi del diritto avversariamente azionato. Il contenuto necessario delle rispettive allegazioni è tuttavia riferito al così detto fatto principale (in contrapposizione ai fatti secondari, di dettaglio): a quello, cioè, che dà corpo e identità alla domanda o all'eccezione. Sorgerà, poi, nel corso del processo, l'onere della prova, concettualmente diverso e successivo rispetto a quello di allegazione e con esso non confondibile. Per l'intanto, il contenuto minimo delle dichiarazioni di parte attiene all'esposizione del fatto principale. Ne segue che, se questa regola deve essere applicata al caso dell'azione di ripetizione di indebito esercitata dal correntista contro la banca, costui ha l'onere di allegare come fatto principale della sua domanda l'avvenuta effettuazione di versamenti bancari indebiti nel contesto del rapporto di conto corrente con apertura di credito: non anche di indicare partitamente i singoli atti e le correlative date. Simmetricamente, la banca convenuta che intenda opporre la prescrizione ha soltanto l'onere di allegare il fatto principale nella quale essa si risolve: l'inerzia del titolare del diritto. La durata del tempo necessario a maturare l'estinzione del diritto non esercitato e la natura della prescrizione che vi dà causa costituiscono una quaestio juris riservata alla valutazione del giudice, cui compete in esclusiva la cognizione del regime giuridico dell'istituto. La Corte afferma in modo esplicito che il tempo e la sua durata non sono altro che la dimensione del fatto principale, una circostanza ad esso inerente che non ha valore costitutivo di un corrispondente tipo di prescrizione. Non esistono tanti tipi di prescrizione, a seconda del lasso temporale occorrente a verificarla: e per questa ragione è sufficiente dedurre con l'eccezione la sola circostanza dell'inerzia di chi doveva esercitare il diritto. In questo ordine di idee, chiedere al convenuto che la sua eccezione sia “particolarmente connotata” in riferimento al termine iniziale della prescrizione, individuando e specificando le diverse rimesse solutorie, comporterebbe, si osserva, l'introduzione di una nuova tipizzazione delle diverse forme di prescrizione che la pronuncia a Sez. Unite del 2002 aveva dimostrato essere inesistente. Inoltre, si aggiunge, il ritenere necessaria l'indicazione delle rimesse di natura solutoria implica la presunzione della natura ripristinatoria dei versamenti secondo un andamento fisiologicamente regolare del rapporto: ma la presunzione attiene al profilo probatorio che va distinto da quello allegatorio.

Le conclusioni cui perviene la sentenza sono logicamente ineccepibili. Ne deriva una conseguenza che le stesse Sezioni Unite non possono fare a meno di menzionare. Se né il correntista e neppure la banca convenuta sono tenuti a indicare i versamenti da considerare prescritti, perché avvenuti in epoca utile alla causa estintiva, e quali, invece, sono ancora azionabili in ripetizione, chi dovrà provvedere alla loro determinazione e quantificazione? Si risponde in sentenza: una consulenza tecnica. In pratica, le generiche allegazioni di parte vengono ad assumere un contenuto concreto per mezzo dell'opera di un terzo, in veste di esperto contabile nominato in ausilio del giudice. Ma, viene da chiedersi, non spetta all'attore indicare in modo sufficientemente determinato il quantum della sua richiesta al giudice? (L'art. 163 c.p.c. pretende «la determinazione della cosa oggetto della domanda»). E la consulenza tecnica non è soltanto uno strumento di valutazione di fatti già probatoriamente accertati, per diventare essa stessa una fonte di prova soltanto allorchè occorrono specifiche cognizioni tecniche e la prova non sarebbe possibile alle parti? E (in definitiva) la semplificazione dell'onere di allegazione non si traduce forse nell'esenzione dall'onere di fornire sin dalle prime fasi del processo il preciso thema decidendum, per la cognizione del giudice e per consentire il contraddittorio alla parte avversa?

Importante e interessante anche la soluzione data alla seconda questione esaminata dalla Corte.

Nella vicenda di specie il correntista aveva dimostrato di avere inviato alla banca in corso di rapporto alcune richieste di restituirgli somme che asseriva versate indebitamente. La giurisprudenza tradizionale e maggioritaria escludeva che simili solleciti potessero avere l‘effetto della “domanda” dalla quale l'art. 2033 c.c. fa decorrere il diritto a percepire gli interessi sulle somme versate senza titolo lecito. L'orientamento così formatosi trovava fondamento nella considerazione dell'accipiens di denaro in buona fede alla stregua di un possessore, tenuto, se non in mala fede, a restituire i frutti soltanto dalla domanda giudiziale, come espressamente disposto dall'art. 1148 c.c. (conformemente al generalissimo principio per il quale gli effetti della sentenza retroagiscono al momento della domanda). Soltanto due pronunce della Corte erano andate di contrario avviso e, nel ricordarle, le Sezioni Unite ne hanno condiviso le argomentazioni. Ed hanno affermato che il termine utilizzato dalla norma citata non è riferito alla sola domanda in giudizio ma è comprensivo degli atti stragiudiziali di messa in mora, come deve ammettersi in base ai seguenti elementi convergenti:

  • l'interpretazione maggioritaria che si è inteso sconfessare era il risultato di una scelta storicamente risalente e non più coerente con il sistema attuale del codice civile. Il codice del 1865 non disciplinava la situazione dell'accipiens in buona fede e pertanto in via interpretativa lo si considerava come un possessore tenuto a restituire cose e denaro soltanto dalla formale richiesta in giudizio: il possesso vale titolo e diventa non legittimo soltanto con la sentenza, i cui effetti retroagiscono alla domanda perché il corso del processo non deve andare a danno dell'attore che ha ragione. Attualmente quella situazione è espressamente prevista nel contesto della disciplina delle obbligazioni e l'accipiens è considerato quale semplice debitore.
  • L'accipiens in buona fede è debitore per la restituzione di una prestazione cui non aveva diritto e, a differenza dal possessore, per il quale il suo possesso vale titolo, è tenuto a questa restituzione sin dal momento della messa in mora, da qualunque atto essa provenga.
  • Un elemento letterale contribuisce a considerare idoneo qualunque atto di richiesta: la natura giudiziale della domanda è dal legislatore espressamente menzionata solo nei casi in cui essa è richiesta in questa forma: non solo dall'art. 1148 ma anche in tema di prescrizione dall'art. 2943 comma 2 c.c.
  • Sotto un profilo sistematico, mentre la condizione del possessore di buona fede non muta per l'altrui richiesta di restituzione della cosa posseduta, sino all'accertamento compiuto dalla sentenza, nel caso dell'indebito oggettivo il legislatore non si preoccupa di qualificare la situazione che lo determina ma si limita a prendere atto che manca un presupposto legale perché la prestazione corrisposta possa essere conservata e concede alla parte il diritto di riprendersi quanto pagato dal momento in cui ha manifestato la volontà di ottenere la restituzione.

La Corte ha cassato con rinvio per una nuova determinazione dell'ammontare del dovuto in restituzione al correntista.

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