Brevi riflessioni sulle discrepanze tra gli artt. 3 e 375 c.c.i.

Marina Spiotta
07 Ottobre 2019

L'esame del combinato disposto degli artt. 3 e 375 del d.lgs. n. 14/2019 consente di mettere in luce una serie di differenze, lessicali e sostanziali, non facili da spiegare e tutt'altro che irrilevanti sul piano pratico. Lo scopo del presente contributo non è fornire una lettura destruens delle norme, ma stimolare la ricerca di un'interpretazione construens.
Premessa

L'esame del combinato disposto degli artt. 3 e 375 del d.lgs. n. 14/2019 consente di mettere in luce una serie di differenze, lessicali e sostanziali, non facili da spiegare e tutt'altro che irrilevanti sul piano pratico.

Lo scopo del presente contributo non è fornire una lettura destruens delle norme, ma stimolare la ricerca di un'interpretazione construens.

I dati normativi

Tra i giochi di enigmistica più diffusi vi è anche quello di trovare le differenze tra due vignette.

In questa sede può essere utile raffrontare gli artt. 3 e 375 che, pur rappresentando i pilastri del d.lgs. n. 14/2019 (per brevità c.c.i.), non paiono perfettamente allineati tra loro e conformi al criterio direttivo enunciato dall'art. 14, lett. b, della l. delega n. 155/2017, che imponeva al Governo di codificare «il dovere dell'imprenditore (individuale) e degli organi sociali di istituire assetti organizzativi adeguati per la rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi per l'adozione tempestiva di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale».

Finora, l'attenzione della dottrina e dei notai è stata (comprensibilmente) catalizzata dal combinato disposto degli artt. 375 e 377 c.c.i. (in vigore da metà marzo 2019) che hanno, rispettivamente, riscritto e richiamato il precetto (“mantra”) del capoverso dell'art. 2086 c.c. nell'incipit di tutte le norme sulla gestione delle società, aggiungendo la specificazione per cui la stessa «spetta esclusivamente agli amministratori» e rischiando così di compromettere la validità di tutte le clausole statutarie coinvolgenti i soci di s.r.l. (sul punto, si veda anche G. Rescio, Brevi note sulla “gestione esclusiva dell'impresa” da parte degli amministratori di s.r.l.: distribuzione del potere decisionale e doveri gestori, in questo portale).

Questo focus si sofferma invece sulle divergenze tra gli artt. 3, comma 1, e 375 c.c.i., ma anche (affinando la lente d'ingrandimento) tra il comma 2 degli artt. 2086 c.c. e 3 c.c.i. (che, in teoria, dovrebbero avere la stessa sfera applicativa), il cui rapporto pare essere di genus a species (così G. Fauceglia, Il nuovo diritto della crisi e dell'insolvenza, Torino, 2019, 229).

Lo scopo non è certo di puntare il dito contro pretesi errori o sviste del legislatore, ma semmai di comprendere la ratio e le ricadute di certe scelte e di stimolare un dibattito che, stante la nuova delega ad apportare disposizioni integrative/correttive rilasciata con la legge n. 20/2019, potrebbe essere d'aiuto per rendere il quadro normativo più coerente. Si è così raccolto l'invito formulato da M. Fabiani, Il Codice della crisi tra conflitti e aspettative nell'attesa di Ferragosto 2020, in Ilcaso.it, il quale ha giustamente sottolineato che «oggi dovrebbe essere il tempo delle riflessioni e delle comprensioni più ancora che il tempo delle interpretazioni visto che l'attuazione è differita ad oltre un anno» e che sarebbe inutile brandire «il metal detector alla caccia degli errori (di lessico o di contenuto)» della riforma e più utile cercare di suggerire un'interpretazione “correttiva” visto che il tempo a disposizione per correggere gli errori non manca.

Un anno fa, proprio su questo portale, chi scrive aveva avuto l'opportunità di svolgere alcune riflessioni derivanti dall'esame incrociato della disciplina dell'esdebitazione con l'(allora) emanando obbligo di qualunque debitore di «assumere le obbligazioni in modo prudente e proporzionato alle proprie capacità patrimoniali», giungendo ad ipotizzare in prospettiva una rilettura della nozione di diligenza, valutabile, non solo e non tanto nell'adempimento, quanto piuttosto nella formazione dell'indebitamento (cfr. M. Spiotta, Diligenza nell'assumere obbligazioni versus diligenza nell'adempimento, in questo portale).

Detto inciso, presente (nell'art. 4) dello schema di decreto redatto dalla Commissione Rordorf e diffuso il 22 dicembre 2017, è stato espunto dal testo del d.lgs. n. 14/2019, ma, tra le proposte di emendamenti formulate dal Centro “CRISI” (acronimo di Centro di Ricerca interdipartimentale su Impresa, Sovraindebitamento e Insolvenza, promosso dai Dipartimenti di Management e di Scienze Economico-Sociali e Matematico-Statistiche dell'Università degli Studi di Torino e coordinato dai proff. M. Irrera e S.A. Cerrato), vi è anche quella di (re)introdurlo nell'art. 3 c.c.i., così rendendo la rubrica (riferita al debitore in generale) coerente con il suo contenuto (i due commi nel testo attuale concernono il solo imprenditore) e ponendo l'accento, in apertura del codice, sulla rilevanza dell'equilibrio economico-finanziario come principio di portata generale in grado di ampliare l'orizzonte della disciplina delle obbligazioni, tutta costruita sulla fase dell'adempimento o dell'inadempimento e poco "attenta" al momento dell'assunzione delle obbligazioni (così O. Cagnasso, Proposta n. 2 di emendamento all'art. 3, facente parte del documento Osservazioni e proposte di modifica al d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, pubblicato anche su questo portale e su Ilcaso.it).

Le differenze

L'art. 3 (a differenza della bozza dell'art. 4 sopra citata) è rubricato «Doveri del debitore» (termine appropriato poiché le condotte ivi codificate sono regole deontologiche rivolte alla collettività e tese a valorizzare la dimensione etica dell'attività imprenditoriale, laddove l'obbligo dovrebbe riflettere un lato di un rapporto giuridico specifico e determinato), ma apre la Sezione I, intitolata «Obblighi dei soggetti che partecipano alla regolazione della crisi e dell'insolvenza» del Capo II («Principi generali») del d.lgs. n. 14/2019.

La norma consta di due commi che pongono a carico dell'imprenditore individuale e di quello collettivo i doveri di adottare, rispettivamente, «misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte» e «un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell'art. 2086 c.c., ai fini della tempestiva rilevazione dello stato di crisi e dell'assunzione di idonee iniziative». Vi è dunque un rinvio all'art. 2086 c.c. che, a sua volta, è stato modificato (dall'art. 375 c.c.i.) nella rubrica (da «Direzione e gerarchia nell'impresa» a «Gestione dell'impresa») e arricchito di un comma, la cui formulazione però non coincide con quella del capoverso dell'art. 3.

La differenza più evidente, ma forse anche la più facile da spiegare, è quella fra «assetti adeguati» e «misure idonee».

L'art. 2 c.c.i., nell'elencare una serie di definizioni [alcune delle quali forse superflue, trattandosi di concetti richiamati una sola volta: v. nozione di «società pubbliche» di cui alla lett. f) e di «parti correlate» contenuta nella successiva lett. l)] non specifica il significato della diversità dei due sostantivi (e aggettivi), ma è plausibile ritenere che gli «assetti» siano sinonimi di uffici e richiedano quindi un “quid pluris” (così D. Fico, Le modifiche al diritto societario volte a favorire l'emersione anticipata della crisi, in Ilfallimentarista.it) rispetto alle meno pregnanti «misure», che potrebbero semplicemente consistere nel rivolgersi ad un commercialista, ossia «nel conferimento di un apposito mandato a professionista esterno, il quale si occupi di curare questo aspetto dell'organizzazione aziendale permettendo all'imprenditore di acquisirne formalmente l'elaborato, intestandolo, così, alla propria responsabilità» (così D. Latella, Nuovi assetti organizzativi societari e Codice della crisi d'impresa, in www.federnotizie.it, 2019). Anche P. Benazzo, Il Codice della crisi di impresa e l'organizzazione dell'imprenditore ai fini dell'allerta: diritto societario della crisi o crisi del diritto societario?, in Riv. soc., 2019, 276, nota 4, ragionando per differenza tra i due precetti, rimarca che «nel caso di imprenditore collettivo il dovere viene ad assumere necessariamente una portata e un'estensione di tipo organico-istituzionale e strutturale».

Ciò consentirebbe anche di comprendere la diversità tra il verbo («adottare») impiegato per l'imprenditore individuale (ma ripetuto anche nel comma 2 dell'art. 3 c.c.i.) che ben si attaglia alle «misure» e il (più impegnativo) verbo «istituire» utilizzato dall'art. 375 c.c.i. che pare una sintesi dei verbi «curare» e «valutare» usati dall'art. 2381 c.c. [così L(orenzo) De Angelis, L'influenza della nuova disciplina dell'insolvenza sul diritto dell'impresa e delle società, con particolare riguardo alle s.r.l., in ODC, 2019, fasc. 1, 13].

La tempistica sembra coincidente anche se, a ben vedere, il comma 2 dell'art. 3 c.c.i. non ripete la locuzione (presente nel comma 1 e nell'art. 2086 c.c.) per cui l'adozione dei rimedi deve avvenire «senza indugio».

Da notare incidentalmente che l'art. 3 c.c.i. sembra accontentarsi della mera assunzione delle iniziative, mentre l'art. 2086 c.c. ne richiede esplicitamente anche l'attuazione.

Un'altra asimmetria tra i due commi dell'art. 3 c.c.i. è rappresentata dalla circostanza che mentre il comma 1 parla di «iniziative necessarie» per far fronte alla crisi, il comma 2, invertendo l'ordine delle parole e cambiando l'aggettivo, parla di «idonee iniziative» (lo rimarca P. Montalenti, Il Codice della Crisi d'impresa e dell'insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, relazione tenuta al XXXIII Convegno di studio su «Crisi d'impresa. Prevenzione e gestione dei rischi: nuovo Codice e nuova cultura», Courmayeur, 20-21 settembre 2019, pubblicata sul sito www.fondazionecourmayeur.it/homepage.asp?l=1, 9 del dattiloscritto). Sembra (e probabilmente è) una sottigliezza, ma (parafrasando il Documento Programmatico della Sicurezza dei dati) si potrebbe anche sostenere che mentre le iniziative necessarie vanno comunque e sempre adottate, quelle (più) idonee richiedono una ponderazione costi-benefici (con non trascurabili riflessi sul controverso tema dell'applicabilità della Business Judgment Rule alle scelte organizzative).

Le differenze non finiscono qui.

Entrambi i commi dell'art. 3 fanno riferimento soltanto alla rilevazione dello «stato di crisi» (definito nell'art. 2, lett. a, c.c.i.), mentre l'art. 2086 c.c. affianca a tale funzione anche il rilevamento della «perdita della continuità aziendale», la cui nozione dev'essere ricostruita sulla base delle norme tecniche (IAS 1, §§ 25, 26; principio ISA Italia n. 570 e art. 2423-bis, n. 1, c.c.) e della letteratura di settore e che, se non si commettono errori d'interpretazione, potrebbe essere sintomatica di uno stato di pre-crisi (arg. desunto dall'art. 13, comma 1, c.c.i. ai sensi del quale «costituiscono indicatori di crisi gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rapportate alle specifiche caratteristiche dell'impresa e dell'attività imprenditoriale svolta dal debitore, tenuto conto della data di costituzione e di inizio dell'attività, rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza (…) delle prospettive di continuità aziendale per l'esercizio in corso o, quando la durata dell'esercizio al momento della valutazione è inferiore a sei mesi, per i sei mesi successivi»). Se così è, anche questa distonia potrebbe ricondursi al maggiore “allarme sociale” che susciterebbe la decozione di un'impresa collettiva.

Non solo: da un'attenta analisi dei due commi dell'art. 3 traspare un diverso nesso funzional-finalistico giacché mentre le misure devono essere «idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi» (e null'altro, poiché la successiva congiunzione «e» sembra delineare quello di «assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte» come un obbligo autonomo), gli assetti devono essere adeguati ai fini, sia «della tempestiva rilevazione dello stato di crisi» che «dell'assunzione di idonee iniziative» (in tal caso la congiunzione «e» non sembra individuare la seconda finalità come autonomo dovere dell'imprenditore collettivo). Tuttavia, questa «imperfezione espressiva» può essere superata dal raffronto con il successivo art. 375 c.c.i. che separa nettamente le due finalità anche per l'imprenditore collettivo (così F. Lamanna, Il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (I), in Speciale Civilista, 2019, 85).

Ma c'è di più: l'obbligo di «rilevare» e « far … fronte » alla crisi (codificato dal primo alinea dell'art. 3 c.c.i.) non comprende, a rigore, quello di superarla (espressamente menzionato dal comma aggiunto all'art. 2086 c.c.).

Questa diversa graduazione delle regole, tuttavia, potrebbe avere una sua logica: «obbligare l'imprenditore individuale a risanare l'impresa sarebbe forse eccessivo», mentre limitare il dovere alle imprese societarie (e collettive) «può trovare ragion d'essere nelle loro maggiori dimensioni, e pertanto nel loro più ampio impatto sul mercato e sull'intero sistema economico» [così V. Di Cataldo e S. Rossi, Nuove regole generali per l'impresa nel nuovo Codice della crisi e dell'insolvenza, in RDS, 2018, 753, i quali, tuttavia, giustamente osservano che il nuovo art. 2086 c.c. «spinge al massimo la tutela dei creditori sociali, e pare andare anche oltre, esprimendo una sorta di favore per una prosecuzione (temporalmente illimitata?) dell'impresa in sé», trascurando il ruolo dei soci e la loro eventuale preferenza per una soluzione liquidatoria].

E ancora: mentre l'art. 3 c.c.i. lascia all'imprenditore (individuale e collettivo) la libertà di scegliere come uscire dalla crisi (ad esempio, tramite iniziative di carattere prettamente gestionale, volte alla riprogrammazione strategica ed alla ristrutturazione del modello di business agendo sui costi, sugli investimenti, sulle dimensioni dell'attività produttiva o sui mercati di sbocco), il dato testuale del comma aggiunto all'art. 2086 c.c. sembra circoscrivere la scelta all'attivazione di «uno degli strumenti previsti» (e quindi tipizzati) «dall'ordinamento» (id est, dalla legge fallimentare e, un domani, dal codice della crisi) «per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale» (il riferimento è quindi in primis all'attivazione dell'allerta, definita appunto uno «strumento» dal Capo I del Titolo II del d.lgs. n. 14/2019 ad essa dedicato). Ne consegue che, aderendo a un'interpretazione meramente testuale, dovrebbe ritenersi inadempiente l'imprenditore collettivo che provasse (e magari riuscisse) a superare la crisi adottando strategie diverse da quelle contemplate dal codice della crisi, il che sarebbe paradossale (cfr. V. Di Cataldo e S. Rossi, op. cit., 755) giacché il ricorso all'OCRI è una mera opportunità e dovrebbe valere il principio del raggiungimento dello scopo.

Non solo: sul piano teleologico, stante l'uso dell'avverbio «anche» (che figura solo nell'art. 2086 c.c.) gli assetti non dovrebbero servire solo ad intercettare i sintomi della crisi e la perdita della continuità aziendale, laddove le misure poste a carico dell'imprenditore individuale sono strumentali (solo) a «rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte».

La diversa ampiezza della ratio dei summenzionati doveri potrebbe però essere una mera conseguenza della diversa collocazione delle norme all'interno, rispettivamente, del codice civile (a riprova che la crisi e la perdita del going concern sono eventi che, fisiologicamente, possono presentarsi nella vita dell'impresa, ma che occorre cercare di prevenire tramite l'organizzazione) e del codice della crisi (che si occupa precipuamente della fase patologica). E la sedes materiae è importante giacché ai sensi dell'art. 12, comma 1, c.c.i. costituiscono «strumenti di allerta», oltre agli obblighi di segnalazione (interna ed esterna) gravanti, rispettivamente, sugli organi di controllo societari e sui creditori pubblici qualificati, «gli obblighi organizzativi posti a carico dell'imprenditore dal codice civile» (il riferimento sembrerebbe dunque limitato all'art. 2086, comma 2, c.c., mentre non si menziona il codice della crisi che, all'art. 3, si occupa degli imprenditori individuali).

Infine, mentre il capoverso dell'art. 3 c.c.i. parla di «imprenditore collettivo», l'art. 375 c.c.i. usa l'espressione «imprenditore che opera in forma societaria o collettiva» (contrapposizione ripresa, ad es., nell'art. 259 c.c.i.), che verosimilmente deve ritenersi ricomprendere ogni forma giuridica diversa dall'impresa individuale (sul tema v. per tutti A. Cetra, L'impresa collettiva non societaria, Torino, 2003).

Parimenti incomprensibile è l'asimmetria linguistica e semantica tra, da un lato, l'art. 3, comma 2, c.c.i. che (al pari dell'art. 14, comma 1, c.c.i.) menziona solo l'«assetto organizzativo» e, dall'altro, l'art. 2086, comma 2, c.c. che si riferisce anche agli assetti amministrativi e contabili (proprio su questi ultimi, al limite, si potrebbe pretendere una valutazione anche del revisore), se non argomentando che il primo sia assorbente rispetto agli altri due. Il legislatore fallimentare sembrerebbe così aver scardinato quell'armonia di linguaggio che emergeva dal combinato disposto degli artt. 2381 e 2403 c.c. nella cui formulazione la riforma societaria del 2003 aveva prestato particolare attenzione nella scelta dei verbi (rispettivamente, curare, valutare e vigilare), mantenendo sempre lo stesso oggetto (c.d. assetti Or.Am.Co.).

Last but not least (essendo anzi questa la spiegazione della minore preoccupazione prestata in sede teorica e pratica al tema oggetto di queste riflessioni) non può sfuggire il disallineamento (ricavabile dall'art. 389 c.c.i.) tra l'entrata in vigore anticipata (a metà marzo 2019) dell'art. 375 c.c.i. (che modifica l'art. 2086 c.c.) e quella differita (a ferragosto 2020) dell'art. 3 c.c.i. (che al comma 2 richiama la suddetta norma codicistica). Anche facendo prevalere la norma derogatoria dell'art. 375 c.c.i. e ritenendo che il 15 agosto 2020 entrerà in vigore solo il 1° comma dell'art. 3 c.c.i., non è agevole comprendere la ragione di uno sfasamento cronologico tra il dovere dell'imprenditore individuale di adottare «misure idonee» a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte e il dovere dell'imprenditore collettivo di adottare assetti organizzativi adeguati al medesimo scopo. E la difficoltà aumenta considerando che l'imprenditore individuale avrebbe solo il dovere di adottare «misure idonee», mentre la società, quand'anche unipersonale e priva di complessità strutturale, dovrebbe istituire assetti adeguati. Sembra un controsenso, ma in realtà una spiegazione potrebbe risiedere nel diverso regime della responsabilità patrimoniale, illimitata per il primo (art. 2740 c.c.) e limitata per la s.p.a. e s.r.l. con unico socio (arg. desunto dal capoverso degli artt. 2325 e 2462 c.c.).

Giova in proposito rilevare che tanto l'art. 3 quanto l'art. 375 c.c.i. sono norme imperfette, prive di sanzione e se per le società di capitali la stessa può essere ricavata indirettamente dalla responsabilità per danni (che però vanno dimostrati) degli amministratori per violazione del dovere di predisporre assetti adeguati, lo stesso non potrebbe dirsi nelle società personali e per l'impresa individuale, riguardo alle quali si potrebbe utilizzare l'incentivo delle misure premiali (art. 25 c.c.i.), rimarcare i vantaggi di una rilevazione precoce della crisi ed argomentare la perdita del beneficio dell'esdebitazione.

Spunti di riflessione

Dalle schematiche considerazioni che precedono dovrebbe emergere che tra gli artt. 3 e 375 c.c.i. vi sono delle differenze lessicali e sostanziali.

L'esclusione dell'imprenditore individuale dal dovere di dotarsi di assetti adeguati, ossia proporzionati (cfr. R. Sacchi, Sul così detto diritto societario della crisi: una categoria concettuale inutile o dannosa?, in NLCC, 2018, 1287 e in La nuova disciplina delle procedure concorsuali. In ricordo di M. Sandulli, Torino, 2019, 583, a cui avviso «non sarebbe male introdurre questa specificazione») alla «natura e dimensioni dell'impresa» (da notare l'assonanza linguistica tra l'art. 2214, comma 2; l'art. 2381, comma 5, e il capoverso dell'art. 2086 c.c.) è frutto di una scelta di politica legislativa (probabilmente dettata dalla preoccupazione, espressa da più parti, di non gravare l'imprenditore individuale di costi eccessivi) della quale occorre prendere atto, anche se forse il duplice parametro qualitativo e quantitativo avrebbe già consentito di circoscrivere il menzionato dovere a forme basilari di «organizzazione» (requisito imprescindibile per fare impresa, menzionato sia dalla definizione generale di imprenditore che di azienda).

In questo modo sarebbe stata anche più coerente la scelta di collocare tale precetto nel comma 2 dell'art. 2086 c.c., ossia tra le disposizioni dedicate all'impresa in generale, sedes materiae che invece oggi risulta «doppiamente sbagliata» in quanto il comma 1 appartiene al diritto del lavoro, mentre il comma 2 non riguarda le imprese individuali [così M.S. Spolidoro, Note critiche sulla «gestione dell'impresa» nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. soc., 2019, 273] e meno fuorviante la rubrica dell'art. 375 c.c.i. («Assetti organizzativi dell'impresa») mentre il contenuto è incentrato sugli assetti organizzativi societari.

È difficile pensare che, sul punto, il legislatore ritorni al testo della Commissione Rordorf, ma è importante impegnarsi per appianare, in sede interpretativa, le differenze di regime tra imprenditore individuale e collettivo.

Per riuscirci occorrerà anche riflettere sul disallineamento venutosi a creare, a seguito dell'innesto del suddetto nuovo comma, tra gli artt. 2086 e 2214 c.c. che hanno un diverso ambito di applicazione giacché il dovere di tenere le scritture contabili è sancito solo a carico dell'imprenditore (sia esso una persona fisica o giuridica) commerciale non piccolo (limitazione ormai anacronistica), mentre quello di predisporre misure/assetti contabili grava su qualunque imprenditore (a prescindere dalla natura, dall'oggetto e dalle dimensioni dell'attività). Ma questo è un altro tema, rilevato anche da S. Pizzutelli e M.P. Nucera, Il Codice della crisi d'impresa e gli assetti organizzativi delle imprese, in IlFallimentarista.it (i quali si domandano: come farà una s.n.c. in contabilità semplificata a parametrare l'adeguatezza dei mezzi propri rispetto a quelli dei terzi o a misurare la sostenibilità degli oneri finanziari in relazione a flussi di cassa). Per approfondimenti sia consentito rinviare al volume sugli artt. 2214-2220 c.c. del Commentario Scialoja-Branca, di prossima pubblicazione, ove si è cercato di argomentare che per tutti gli imprenditori (individuali e collettivi) sarà obbligatoria quantomeno la predisposizione di flussi di cassa prospettici e il coinvolgimento dell'institore (già obbligato a tenere le scritture contabili: art. 2205 c.c.) nel processo di emersione tempestiva della crisi.

Gli artt. 3 e 375 c.c.i., posto che contribuiranno a rendere ancor più netta la posizione di garanzia (ex art. 40, comma 2, c.p.) dell'amministratore (e dell'imprenditore), potranno poi essere sfruttati come viatico per rendere doverosa anche l'adozione dei modelli di prevenzione dei reati (delineati dal d.lgs. n. 231/2001) ed estenderli all'imprenditore individuale.

Giova infine rammentare che ai sensi dell'art. 3, comma 2, lett. c), della delibera AGCM del 15 maggio 2018, n. 27165, fra i requisiti che consentono d'incrementare il punteggio del rating di legalità vi è «l'adozione di una funzione o struttura organizzativa, anche in outsourcing, che espleti il controllo di conformità delle attività aziendali a disposizioni normative applicabili all'impresa» (tra cui oggi vanno annoverati gli art. 3 c.c.i. e 2086 c.c.) «o di un modello organizzativo ai sensi del d.lgs. n. 231/2001».