Il nuovo art. 2486, comma 3, c.c.: background, profili di continuità e di innovazione, impatto processuale

Luciano Castelli
14 Ottobre 2019

Il d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il “Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza”, ha introdotto un nuovo terzo comma dell'art. 2486 c.c., volto a regolare la quantificazione e la prova del danno derivante dalle condotte sanzionate dalla disposizione. Il presente contributo, dopo alcuni brevi cenni alle modifiche apportate alla disciplina civilistica in tema di impresa dal recente intervento legislativo, analizza i profili di continuità e di innovazione della novella e ne prospetta il possibile impatto sui giudizi pendenti al 16 marzo 2019, ossia dalla data di entrata in vigore, e successivamente instaurati.
Il Codice della Crisi e le modifiche alla disciplina civilistica in tema di impresa: il background del nuovo art. 2486, comma 3, c.c.

La disciplina civilistica in tema di impresa è stata recentemente riformata dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, recante il “Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 14 febbraio 2019 (di qui, in breve, anche il “Codice della Crisi”).

In particolare, la parte II del Codice della Crisi, intitolata “Modifiche al codice civile”, si compone di dieci articoli che trattano quasi esclusivamente della materia commerciale.

Stante il disposto dell'art. 389, tale parte del Codice si distingue in: (i) disposizioni di immediata attuazione, entrate in vigore il 16 marzo 2019, ossia il trentesimo giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Codice della Crisi (i.e.: art. 375, 377, 378 e 379); e (ii) altre disposizioni, che entreranno in vigore il 14 agosto 2020, ossia decorsi diciotto mesi dalla pubblicazione del Codice della Crisi in Gazzetta Ufficiale (i.e.: artt. 376, 380, 381, 382, 383, 384). (Per un primo commento della Parte II del Codice della Crisi, sia consentito il rinvio a Monti, Le modifiche alla disciplina del codice civile in tema di impresa, in Sanzo e Burroni (a cura di), Il nuovo Codice della crisi di impresa e dell'insolvenza, Bologna, 2019, 335, nonché a Monti, Il Codice della crisi e la disciplina civilistica in tema di impresa, in questo portale, 11 febbraio 2019).

L'art. 378, rubricato “Responsabilità degli amministratori”, si colloca proprio tra le disposizioni di immediata attuazione e, oltre a estendere espressamente la responsabilità degli amministratori nei confronti dei creditori delle società a responsabilità limitata tramite un nuovo comma dell'art. 2476 c.c., ha modificato l'art. 2486 c.c., introducendovi un terzo comma che disciplina la quantificazione e la prova del danno conseguente alla violazione del dovere di gestione conservativa in presenza di una causa di scioglimento della società.

Svolte tali necessarie premesse relative al contesto in cui si colloca il nuovo art. 2486, comma 3, c.c., si esaminano, anzitutto, i profili di continuità e di innovazione della norma e, poi, il possibile impatto della stessa sui giudizi già pendenti al momento dell'entrata in vigore (i.e.: 16 marzo 2019) o instaurati in un momento successivo.

Il nuovo art. 2486, comma 3, c.c. tra continuità e innovazione

Il nuovo art. 2486, comma 3, c.c. sancisce che “quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l'amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all'art. 2484, detratti i costi sostenuti o da sostenere, secondo il criterio di normalità, dopo il verificarsi di una causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione”. Inoltre, “se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell'irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura”.

Il legislatore, mediante l'introduzione di una relevatio ab onere probandi in tema di danno ex art. 2486 c.c., ha alleggerito di molto gli oneri probatori dell'attore sotto il profilo del quantum e – probabilmente – anche sotto il profilo dell'an del pregiudizio, positivizzando, peraltro, i criteri storicamente utilizzati dalla giurisprudenza per la liquidazione del ristoro dovuto.

Come noto, la determinazione del risarcimento ex art. 2486 c.c. – che, secondo i principi generali, dovrebbe essere parametrata alle conseguenze dannose causalmente collegate alle singole condotte negligenti realizzate dagli amministratori e opportunamente dimostrate dall'attore (v. Cass. 31 agosto 2016, n. 17441; Cass. 10 agosto 2016, n. 16952; Trib. Bologna 6 febbraio 2018, n. 375; Trib. Ancona 13 gennaio 2018, n. 52; Trib. Roma 8 maggio 2017, n. 8969; Trib. Prato 15 febbraio 2017, n. 152, in questo portale, con nota di Cerisoli, La responsabilità solidale della banca con gli amministratori della società fallita per ricorso abusivo al credito) – si è sempre rivelata molto difficile, se non addirittura impossibile, soprattutto a causa del dinamismo intrinseco alla gestione dell'impresa.

I giudici, allora, prima dell'entrata in vigore dell'art. 378 del Codice della Crisi, ai fini della non semplice stima dell'ammontare dell'obbligazione risarcitoria in tali ipotesi, avevano fatto principalmente ricorso a due criteri presuntivi:

- il c.d. “criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare”, che faceva coincidere il danno con la differenza tra l'attivo e il passivo accertati nell'ambito della procedura concorsuale;

- il c.d. “criterio della differenza dei netti patrimoniali”, che faceva coincidere il danno con la differenza tra il patrimonio netto della società al momento in cui si era verificata la causa di scioglimento e il patrimonio netto della società al momento dell'apertura della procedura concorsuale o, se precedente, della messa in liquidazione.

Fra i menzionati criteri, il c.d. “criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare”, seppur autorevolmente avallato dalla Cassazione nel 1977 (v. Cass. 4 aprile 1977, n. 1281), veniva considerato generalmente incompatibile con il nesso eziologico che dovrebbe sussistere tra condotta e pregiudizio (v., ex multis: Cass. 30 gennaio 2019, n. 2659; Cass. 15 febbraio 2005, n. 3032; Cass. 8 febbraio 2000, n. 1375; Cass. 22 ottobre 1998, n. 10488; Trib. Milano 23 settembre 2015, n. 10652; Trib. Padova 16 luglio 1999, in Fall., 2000, 89) e, perciò, veniva applicato solo quando le scritture contabili mancavano o erano del tutto inattendibili (v. Cass. 4 aprile 1998, n. 3483; Cass. 19 dicembre 1985, n. 6493; Trib. Treviso 29 ottobre 2009, in Ilcaso.it, Trib. Bologna 22 maggio 2007, in Ilcaso.it; Trib. Milano 15 luglio 1991, in Fall., 1991, p. 1286) ovvero quando il dissesto era stato cagionato direttamente da comportamenti degli amministratori (v. Cass. 17 settembre 1997, n. 9252; Cass. 23 giugno 1977, n. 2671; App. Bologna 12 gennaio 2004, in Fall., 2004, 453, Trib. Catania 5 novembre 1999, in Giur. comm., 2001, II, 510; Trib. Messina 12 novembre 1999, in Fall., 2000, 1279).

Sicuramente più frequente, invece, era il ricorso al c.d. “criterio della differenza dei netti patrimoniali” (v., ex multis: Cass. 20 aprile 2017, n. 9983, in questo portale con nota di Galletti, Abusiva concessione di credito e legittimazione della curatela; Trib. Milano 5 giugno 2018, n. 6324, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Bologna 21 dicembre 2017, n. 2846; Trib. Milano 9 novembre 2015, n. 12527, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Padova 24 giugno 2009, in Fall., 2010, 729; App. Torino 12 gennaio 2009, in Fall., 2010, 35), soprattutto dopo che Cass., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100 aveva escluso l'automaticità del ricorso al c.d. “criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare” nelle ipotesi in cui mancassero le scritture contabili della società. (In senso conforme a Cass., Sez. Un. 6 maggio 2015, n. 9100, a mero titolo esemplificativo, anche: Cass. 3 ottobre 2018, n. 24103; Cass. 1° febbraio 2018, n. 2500; Cass. 3 gennaio 2017, n. 38).

Peraltro, il c.d. “criterio della differenza dei netti patrimoniali” era applicato con alcuni “correttivi” (c.d. “criterio dei netti patrimoniali rettificato”), ossia: (i) il dies a quo veniva individuato, tenendo conto dei normali tempi di reazione degli amministratori per accertare l'esistenza di una causa di scioglimento e per adottare le necessarie misure (v., ex plurimis: Trib. Milano 7 gennaio 2019, n. 42; Trib. Milano 19 aprile 2018, n. 4462, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Firenze 12 gennaio 2018; Trib. Bologna 21 dicembre 2017, n. 2846; Trib. Messina 30 dicembre 2016, n. 3478); (ii) il patrimonio netto iniziale veniva stimato mediante i criteri di liquidazione (e non già mediante i criteri di continuità ex art. 2423 bis, comma 1, n. 1, c.c.), così da essere reso “omogeneo” rispetto al patrimonio netto finale (v., ad esempio: Trib. Milano 7 gennaio 2019, n. 42; Trib. Milano 27 marzo 2018, n. 3554; Trib. Roma 5 febbraio 2018, n. 2602; Trib. Ancona 13 gennaio 2018, n. 52; Trib. Prato 15 febbraio 2017, in Ilcaso.it.); (iii) i costi che la società, anche in caso di tempestiva messa in liquidazione, avrebbe dovuto sostenere venivano detratti dalla differenza dei patrimoni netti (v., ex plurimis: Trib. Torino 4 luglio 2018, n. 3431, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano 9 aprile 2018, n. 3996, in giurisprudenzadelleimprese.it; Trib. Milano 27 ottobre 2015, n. 12000, in giurisprudenzadelleimprese; Trib. Milano 1° aprile 2011, n. 4480, in Le Società, 2012, 288).

Nel delineato quadro di riferimento, il nuovo terzo comma dell'art. 2486 c.c., pur caratterizzato da una formulazione letterale perfettibile de jure condendo ad opera dei decreti correttivi di prossima emanazione (v. Bartalena, Le azioni di responsabilità del codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in Fall., 2019, 304), sembrerebbe doversi interpretare quale norma di recepimento del diritto vivente in tema quantificazione del danno, con la conseguenza che, per quanto concerne l'applicazione dei criteri elaborati dalla giurisprudenza, molto poco pare destinato a cambiare rispetto al periodo antecedente l'entrata in vigore delle modifiche apportate dal Codice della Crisi.

Del resto, infondati risultano i timori che la lettera della novella legittimi, in sede applicativa, la liquidazione di risarcimenti punitivi e, quindi, maggiori rispetto al danno cagionato dagli amministratori (v., per la manifestazione di tali timori, Pototschnig, Responsabilità degli amministratori e questioni ricorrenti alle prime luci del Codice della crisi d'impresa, in Le Società, 2019, 765, ove si legge: “[…] è stata introdotta una previsione sulla quantificazione del danno che segna una sorta di discutibile marcia in dietro rispetto all'evoluzione della giurisprudenza, che riconosceva la necessità di porre al centro dell'indagine le specifiche conseguenze immediate e dirette delle singole condotte illecite”. Nello stesso senso, anche Bartalena, Le azioni di responsabilità, cit., 307).

Al riguardo, è bene ricordare che il c.d. “principio di integrale riparazione del danno” – che implica che il pregiudizio vada ristorato nella sua integralità e non oltre – è qualificabile come di ordine pubblico e, pur essendo privo di rilevanza costituzionale, costituisce, grazie al combinato disposto degli artt. 1223 e 2046 c.c., il fulcro del nostro sistema risarcitorio (v., ex multis: Villa, La quantificazione del danno contrattuale, in Danno e resp., 2010, 37; Ponzanelli, La irrilevanza costituzionale del principio di integrale riparazione del danno, in Bussani (a cura di), La responsabilità civile nella giurisprudenza costituzionale, Napoli, 2006, 67), con la conseguenza che il “connotato latu sensu sanzionatorio <del> risarcimento, […] non […] si può ammettere al di fuori dei casi in cui una qualche norma di legge lo preveda […]” (Così, Cass., Sez. Un., 6 maggio 2015, n. 9100, cit. Conforme anche Cass., Sez. Un. 5 luglio 2017, n. 16601. In dottrina, peraltro, si erano espressi nel senso dell'ammissibilità di risarcimenti punitivi soltanto quando espressamente previsti da una norma di legge, fra gli altri: Busnelli, Deterrenza, responsabilità civile, fatto illecito, danni punitivi, in Eur. dir. priv., 2009, 909; Ponzanelli, I danni puntivi, in Nuova giur. civ. comm., 2008, 26).

Ebbene, nella fattispecie concreta, il nuovo art. 2486, comma 3, c.c. non sembrerebbe poter costituire l'“appiglio” normativo richiesto per la liquidazione di risarcimenti ultracompensativi: l'art. 14, lett. e), della legge delega e la relazione illustrativa del Codice della Crisi – da cui l'esegesi della norma fondata sul c.d. “criterio logico” ex art. 12 delle Preleggi, proprio perché ispirata all'“intenzione del legislatore”, dovrebbe imprescindibilmente prendere le mosse – non hanno prospettato l'introduzione di ipotetici aggravamenti di responsabilità degli amministratori per violazione dell'art. 2486 c.c. né, tanto meno, di rimedi sanzionatori in funzione di deterrenza.

Ciò precisato, è evidente che la vera innovazione della riforma consiste nell'introduzione, sotto il profilo processuale, di una relevatio ab onere probandi, che, come si è detto, incide, senza dubbio, sul profilo del quantum e, con alta probabilità, anche su quello dell'an del danno risarcibile.

Invero, pare potersi ritenere che, stante la presunzione relativa introdotta dall'art. 2486 c.c., l'attore, ben lungi dal dover provare – secondo le regole generali – l'an e il quantum del pregiudizio patito, debba soltanto allegare – e potrà facilmente provvedervi mediante una consulenza tecnica – l'esistenza di una causa di scioglimento della società e l'aggravamento del dissesto. Sarà poi il convenuto a dover dimostrare che, dalle condotte contestate, non è derivato alcun nocumento oppure è derivato un nocumento che, nel quantum, non coincide con quello determinato in applicazione dei criteri suggeriti dal dettato normativo.

L'impatto della novella sui giudizi dal 16 marzo 2019

Una volta individuati i profili di continuità e di innovazione dell'art. 2486, comma 3, c.c. (v., supra), non resta che considerare l'ipotetico impatto della disposizione sui giudizi già pendenti alla data della sua entrata in vigore (i.e.: 16 marzo 2019) o instaurati in un momento successivo.

In assenza di una disciplina transitoria e dinanzi a una norma che incide, ad un tempo, su profili di carattere sostanziale e processuale, due parrebbero gli approcci interpretativi in astratto ipotizzabili per affrontare la questione:

- un approccio “processualista” che renderebbe l'art. 2486, comma 3, c.c. indistintamente applicabile a tutti i giudizi instaurati a decorrere dal 16 marzo 2019, a prescindere dal tempo delle presunte violazioni ivi dedotte;

- un approccio “sostanzialista” che limiterebbe l'operatività dell'art. 2486, comma 3, c.c. ai soli giudizi che, oltre a essere instaurati a partire dal 16 marzo 2019, riguardino presunte violazioni verificatesi in un momento successivo.

Tuttavia, considerato che l'approccio “sostanzialista” procrastinerebbe per un consistente periodo l'applicazione della novella, quello “processualista” sembrerebbe l'unico coerente con l'intenzione del legislatore che, come ricordato, ha previsto per il nuovo art. 2486, comma 3, c.c., addirittura un'entrata in vigore anticipata rispetto a quella delle altre disposizioni del Codice della Crisi.

Ne consegue che l'operatività del nuovo art. 2486, comma 3, c.c., con riferimento a tutti i giudizi instaurati a decorrere dal 16 marzo 2019 parrebbe pacifica, indipendentemente dal tempo delle violazioni contestate.

Ciò precisato, mantenendo ferma l'opzione per l'approccio interpretativo “processualista”, ci si deve necessariamente interrogare sulla possibile incidenza della riforma sui giudizi già pendenti al 16 marzo 2019.

A tal fine, esigenze di bilanciamento tra l'irretroattività della legge civile (sancita dall'art. 11 delle Preleggi) e i valori costituzionali del diritto alla difesa e del diritto ad un giusto processo (sanciti rispettivamente dall'art. 24 e dall'art. 111 Cost.) impongono il riferimento a due principi, ossia quello del c.d. “tempus regit actum” e quello del c.d. “tempus regit processum”.

Il principio del c.d. “tempus regit actum”, secondo la classica formulazione del Sandulli (v. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1964, 31), comporta che ciascun atto del processo debba essere sottoposto alla legge del tempo in cui è stato compiutosia per quanto attiene al regime della sua essenza, della sua struttura e dei suoi requisiti sia per quanto attiene al regime delle sue conseguenze.

Invece, il principio del c.d. “tempus regit processum”, elaborato dalla dottrina agli inizi del ventunesimo secolo, richiede che il processo sia interamente regolato, per quanto concerne i profili di rito, dalla disciplina vigente al momento della proposizione della domanda (v. Caponi, L'efficacia della legge processuale nel tempo in Italia, in Estudos de direito processual civil, Homenagem ao Professor Egas Dirceu Moniz de Aragao, Sao Paulo, 2005, 67-77; Id., Tempus regit processum. Un appunto sull'efficacia delle leggi processuali nel tempo, in Riv. dir. proc., 2006, 449; Id., Tempus regit processum ovvero autonomia e certezza del diritto processuale civile, in Giur. it., 2007, 689; Id., Certezza e prevedibilità della disciplina del processo: il principio tempus regit processum fa ingresso nella giurisprudenza costituzionale, in Giur. cost., 2018, 188. Peraltro, per alcune obiezioni rispetto alla configurazione del c.d. principio del “tempus regit processum”, v. Capponi, La legge e il tempo del processo civile, in Otto studi sul processo civile, Milano, 2017, 45).

A una prima impressione, si potrebbe pensare che l'applicazione dell'uno piuttosto che dell'altro principio conduca ad esiti diversi rispetto all'impatto della novella sui giudizi pendenti.

Mentre l'applicazione del principio del c.d. “tempus regit processum”, infatti, escluderebbe de plano qualsivoglia incidenza della riforma sui giudizi pendenti al 16 marzo 2019, l'applicazione del c.d. principio del “tempus regit actum” non consentirebbe di giungere alla conclusione opposta in termini così netti: l'impossibilità di individuare in modo chiaro l'“actum” regolato dalla novella potrebbe portare alternativamente a negarne l'operatività rispetto ai giudizi già pendenti al 16 marzo 2019 (laddove si faccia coincidere l'“actum” con l'atto introduttivo della lite) oppure a prospettarne un'incidenza differenziata a seconda della fase in cui tali giudizi si trovavano al 16 marzo 2019 (laddove si faccia coincidere l'“actum” con le memorie istruttorie).

Tale impressione, però, appare erronea.

E, invero, la Corte di Cassazione, pur negando l'esistenza nel nostro ordinamento del principio del c.d. “tempus regit processum” per assenza di fondamenti nel diritto positivo (v., ex multis: Cass. 15 dicembre 2015, n. 25216; Cass. 2 dicembre 2015, n. 24485; Cass. 26 agosto 2014, n. 18261; Cass. 15 febbraio 2011, n. 3688), ha precisato che il principio del c.d. “tempus regit actum”, interpretato in modo tale da dare adeguato rilievo all'affidamento legislativo sotteso all'art. 11 delle Preleggi, “impone di tenere conto della giusta aspettativa di chi, avendo scelto di promuovere un giudizio in riferimento alle prescrizioni di rito vigenti al tempo in cui ha proposto la domanda, si veda alterare in peius, in basealle nuove regole, la possibilità di essere vincitore; o, per converso, di resistere con successo all'altrui pretesa” (così, Cass. 7 ottobre 2010, n. 20811. Analogamente anche Cass. 15 dicembre 2015, n. 25216, cit.).

Di qui, sarebbe particolarmente difficile sostenere che il principio del c.d. “tempus regit actum” consenta al nuovo art. 2486, comma 3, c.c. di esplicare effetti rispetto ai giudizi già instaurati al momento della sua entrata in vigore: la relevatio ab onere probandi introdotta dalla menzionata disposizione, rendendo più difficile per il convenuto resistere alla pretesa attorea ed imponendogli un gravoso onere probatorio, inciderebbe sensibilmente sulla sua posizione processuale e sulla sua legittima aspettativa di essere parte di un giudizio caratterizzato da determinate regole.

Pertanto, a prescindere dall'adesione al principio del c.d. “tempus regit actum” ovvero al principio del c.d. “tempus regit processum”, il risultato sembra essere il medesimo: l'irrilevanza della riforma rispetto ai giudizi già pendenti al 16 marzo 2019, indipendentemente dalla loro fase e grado.

Alla luce di tutto quanto esposto, sembra, quindi, che, nel silenzio del legislatore, il nuovo art. 2486, comma 3, c.c. sia applicabile soltanto ai giudizi instaurati successivamente al 16 marzo 2019, a prescindere dal momento in cui si sono verificate le violazioni contestate.

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