Assegno divorzile, preminenza della funzione perequativa-compensativa e limitata rilevanza delle ragioni della decisione
15 Ottobre 2019
Massima
Il criterio delle ragioni della decisione di cui all'art. 5 l.898/1970 trova spazio essenzialmente nelle ipotesi di divorzio non preceduto da separazione; nelle diverse ipotesi, normative previste dall'art. 3, comma 2, lett.b) (divorzio indiretto) il Giudice non deve tenere conto delle condotte tenute da uno dei coniugi successivamente all'insorgere dell'intollerabilità della convivenza e deve considerare quelle antecedenti ad essa, purché siano state alla base della pronunzia di addebito della separazione e ostino, in attualità, alla ricostituzione della comunione tra i coniugi ex art. 1 l. 898/1970. Il caso
Tizia, all'epoca quarantenne e Caio, all'epoca cinquantenne, entrambi provenientI da precedenti esperienze matrimoniali, hanno contratto matrimonio nel 1984, in regime di separazione dei beni; dall'unione non sono nati figli. Il Tribunale di Napoli, con sentenza non definitiva del 2010, ha pronunziato la separazione e, con successiva decisione del 2017, poi passata in giudicato, ha respinto le domande di addebito e fissato un assegno ex art. 156 c.c. a favore della moglie nella misura di € 1.200,00 mensili. Radicato, nelle more il giudizio di divorzio, il Tribunale di Napoli ha pronunziato sentenza non definitiva sullo status in data 15 maggio 2014 e in via definitiva, con sentenza del 6 febbraio 2018, con la quale è stato posto a carico di Caio un assegno divorzile di € 1.300,00 mensili, in applicazione (temperata) dei principi espressi da Cass. n. 11504/2017 (c.d. sentenza Grilli). Contro la decisione ha proposto appello Caio, assumendo l'autosufficienza economica di Tizia (pensionata e titolare di patrimonio mobiliare) e dunque l'erroneità della decisione impugnata alla luce dei principi interpretativi dell'art. 5 l. 898/70 allora vigenti. Tizia ha resistito al ricorso. Nelle more del giudizio è intervenuta Cass. SS.UU. n. 18287/18, ai cui principi la decisione in commento si è richiamata. La questione
La sentenza in commento, dopo una puntuale disamina dei punti salienti dell'arresto giurisprudenziale del luglio 2018 -richiamate le prime applicazioni che di detti punti ha fatto la giurisprudenza di merito- si interroga sul ragionamento che il Giudice deve compiere ai fini dell'accertamento della debenza dell'assegno divorzile, soffermandosi, in particolare, sulla valenza degli eventuali contributi percepiti dal richiedente (e sulla loro valenza perequativa) e sul criterio delle ragioni della decisioni. Le soluzioni giuridiche
Nella prima parte della decisione, la Corte, riassume e rielabora i principi espressi dalla sentenza della Sezioni Unite che così sintetizza: - recupero e prevalenza della funzione perequativa- compensativa dell'assegno, assente nella giurisprudenza precedente, sia in quella che utilizzava come parametro del giudizio di inadeguatezza il tenore di vita, sia in quella, del 2017/2018 (peraltro all'epoca criticata dalla stessa Corte, cfr. App. Napoli, 22 febbraio 2018) che utilizzava il criterio dell'autosufficienza economica; - equiordinazione di tutti i criteri previsti dall'art. 5, comma 5, l. div. pur precisandosi che «il giudice ben potrebbe riconoscere prevalenza a uno o ad alcuni di essi rispetto agli altri, appunto tenendo conto delle peculiarità della vicenda sottoposta alla sua cognizione; la richiamata prevalenza della funzione perequativa-compensativa, del resto, si risolve nella prevalenza della c.d. causa concreta» (cfr.p.5) - la particolare rilevanza del fattore tempo «inteso come durata della vita matrimoniale, ma anche come tempo che gli ex coniugi hanno davanti a sé, una volta finito il matrimonio». Conseguentemente, afferma la Corte ben precisando alcuni snodi della decisione delle Sezioni Unite da cui prende le mosse, «fermo il carattere unitario del giudizio, l'esame del Giudice deve pur sempre prendere le mosse dall'esistenza della disparità reddituale tra i redditi e i patrimoni degli ex coniugi e proseguire nella direzione della compensazione e della perequazione» , poi valutare se il richiedente abbia fornito la prova del «nesso di causalità tra scelte endofamiliari e situazione dell'avente diritto al momento dello scioglimento del vincolo coniugale» in funzione «di una prognosi futura che tenga conto delle condizioni del richiedente l'assegno e della durata del matrimonio», fattore, quest'ultimo di «rilevanza decisiva». Passando all'approfondimento di alcuni passaggi attuativi dei principi generali espressi dall'arresto delle Sezioni Unite, la Corte precisa altresì che: - il semplice, divario tra le posizioni economiche delle parti, non ha valore dirimente nell'ottica della sola funzione perequativa- compensativa (ma ferma restando la possibilità, su cui la decisione esprime forti riserve, della preminenza della sola funzione assistenziale) essendo invece necessario «il rigoroso accertamento del nesso causale tra il divario economico tra le parti, accertato o allegato, e le scelte operate dalla famiglia e il sacrificio delle aspettative professionali o reddituali, tenuto conto della durata dal matrimonio»; - «l'assegno divorzile va determinato…anche alla stregua di un giudizio prognostico controfattuale, come se il matrimonio non ci fosse stato» (cfr.Trib. Pavia, 23 luglio 2018); il Giudice del divorzio deve dunque considerare quale sarebbe stato il destino, lavorativo e dunque economico, del coniuge richiedente l'assegno se costui non avesse mai contratto matrimonio e non il destino che avrebbe avuto se non si fosse divorziato; - occorre considerare anche l'incidenza delle «contribuzioni effettuate, nel corso della vita matrimoniale, dal coniuge cui poi è chiesto l'assegno» che potrebbero anche avere esaurito la funzione perequativo-compensativa (cfr. sul punto anche App. Catania, 20 settembre 2018, che però ha riconosciuto l'assegno in funzione meramente assistenziale; parzialmente difforme invece Trib. Milano, 4 ottobre 2018); - il criterio delle ragioni della decisione di per sé «vago, raramente applicato dalla giurisprudenza che comunque ne ha dato letture ambigue, quanto contrastanti», specialmente dopo l'intervento delle Sezioni Unite può trovare spazio «essenzialmente con riferimento alle fattispecie.. di divorzio diretto» assumendo un ruolo sicuramente meno significativo per le ipotesi di divorzio preceduto da un periodo di separazione legale, giacché in questi casi «non può tenersi conto delle vicende successive alla separazione» ma solo di quelle precedenti, che possono integrare il richiamato criterio nella misura in cui siano state poste a fondamento «di una pronunzia di addebito» e «siano anche le cause che ostano alla ricostruzione della comunione tra i coniugi». Ciò premesso la Corte ha accolto il gravame e revocato l'assegno divorzile, considerato che: a) al netto delle allegazioni delle parti, entrambe contestabili, poteva ritenersi provata la sussistenza di un amplissimo divario tra le posizioni economiche degli ex coniugi, anche senza dar corso agli accertamenti istruttori richiesti. Caio – le cui dichiarazioni dei redditi erano palesemente inattendibili- era uno dei professionisti più illustri del Foro di Napoli e aveva accumulato un patrimonio (ancorché parte di esso intestato ai figli del primo matrimonio) milionario; Tizia aveva un reddito minimo da pensione ( tre i 900,00 e i 1.100,00 euro mensili) ma un tenore di vita tale da far presumere l'esistenza di introiti ulteriori rispetto a quanto dichiarato ed era altresì proprietaria di investimenti ingenti che le garantivano una rendita finanziaria di tutto rispetto («l'appellata, del tutto verosimilmente dispone di c/c ulteriori rispetto a quanto dichiarato ma comunque, solo nel 2014, ha incassato evidentemente a titolo di interessi su investimenti finanziari, oltre € 20.000,00 e, nel 2015, oltre € 19.000,00»); b) il divario tra le posizioni economiche tra le parti non era però «conseguenza del contributo fornito dal richiedente alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei due, con sacrificio delle proprie aspettative professionali e reddituali»; infatti il matrimonio «è stato contratto quando entrambi erano già avanti negli anni: il marito cinquantenne, la moglie quasi quarantenne. Entrambi venivano da precedenti relazioni matrimoniali” e “già avevano maturato le proprie scelte professionali, e la loro posizione patrimoniale si era già formata e consolidata; il marito era già un affermato avvocato e la moglie era, e rimase sino al pensionamento, un'insegnante… il matrimonio non ha peggiorato, in alcun modo, le prospettive lavorative e reddituali dell'appellata»; c) le doglianze dell'appellata, circa i comportamenti limitativi della sua libertà personale e lesivi della sua dignità, non potevano rilevare nel giudizio di divorzio, sotto il profilo delle ragioni della decisione, sia perché la domanda di addebito era stata rigettata in sede di separazione, con sentenza passata in giudicato, sia perché «l'assegno non potrebbe essere comunque riconosciuto solo in ragione delle offese rivolte dal marito alla moglie, in quanto, in tale caso assumerebbe una funzione -che non trova riscontro nella pronuncia delle SSUU e soprattutto nel tenore della legge- solo sanzionatoria-risarcitoria»; d) «L'assegno non potrebbe neppure essere riconosciuto neppure in funzione solo assistenziale….. (secondo un discutibile orientamento giurisprudenziale e dottrinale)” giacché “l'appellata…dispone di sicura autosufficienza economica, per quanto deteriore sia la sua posizione rispetto a quella del marito». Osservazioni
La sentenza in commento, inappuntabile nel suo dipanarsi motivazionale, offre lo spunto per interrogarsi su due questioni lasciate in ombra dalla nota sentenza delle Sezioni Unite sull'assegno divorzile.
Il criterio delle ragioni della decisione. Sino all'intervento delle Sezioni Unite, il criterio delle ragioni della decisione, al pari degli altri indicati nell'art. 5 l. Div., era stato scarsamente considerato, sia perché non aveva un rilievo autonomo ma operava solo nella fase di determinazione del quantum dell'assegno (ex plurimis Cass. Civ. 9 giugno 2015, n. 11870; Cass. 17 settembre 2014, n. 19529; Trib. Milano, 14 ottobre 2011; App. Roma, 8 luglio 2009; App. Napoli 14 marzo 2007) sia perché il Giudice non era obbligato a dare conto del fatto di averlo o meno considerato analiticamente nella quantificazione dell'assegno (Cass. 16 maggio 2005, n. 10210). La pronunzia del luglio 2018 ha però mutato lo scenario, nella misura in cui si è ritenuto che il giudizio (non più bifasico) sull'assegno divorzile dovesse necessariamente “passare” per la valutazione di tutti i criteri, tra cui quello delle ragioni della decisione, in maniera equiordinata. Se, da un lato l'equiordinazione -come afferma la decisione in commento- non impedisce al Giudice di dare «prevalenza a uno o ad alcuni di essi rispetto agli altri, appunto tenendo conto delle peculiarità della vicenda sottoposta alla sua cognizione»,dall'altro, però, a differenza di quanto accadeva in base ai due orientamenti precedenti (quello del tenore vita e quello dell'autosufficienza economica), il Giudice, se sollecitato sul punto, non potrà non scrutinare la debenza dell'assegno anche in funzione delle ragioni della decisione. Non è sfuggito, però, che la sentenza delle Sezioni Unite richiama, nel suo tessuto argomentativo, anche letteralmente tutti i criteri indicati dall'art. 5 l. div. ma non anche quello delle “ragioni della decisione”: scelta voluta o mera dimenticanza? A favore della prima tesi milita la ricchezza argomentativa della decisione che mal si concilierebbe con una mancanza di non poco conto; a questa tesi però occorre contrapporre il rilievo che, se così fosse (ovvero assumendo in tesi la qualificazione recessiva del criterio in commento) la sentenza sarebbe affetta da un'insanabile contraddizione consistente nella rivitalizzazione di tutti gli indicatori indicati nella norma, tranne uno, la cui eliminazione, peraltro non sarebbe neppure stata esplicitata. Preferibile dunque assumere che si sia trattato di una scelta non voluta e di una mera dimenticanza “tipografica”. Ciò premesso, occorre interrogarsi sul significato di ragioni della decisione. Secondo la Corte d'appello di Napoli, nel giudizio sull'assegno, non deve tenersi conto «delle vicende successive alla separazione» ma solo di quelle precedenti che abbiano fondato una sentenza di addebito. In precedenza altre decisioni si erano poste sulla stessa scia assumendo che «le condotte tenute prima della separazione sono superate dal fatto che il marito abbia acconsentito a sottoscrivere un verbale di separazione consensuale….; le condotte successive alla separazione… non rilevano…. Posto che il nostro ordinamento non conosce l'istituto del divorzio con addebito, né subordina l'erogazione dell'assegno divorzile ad una valutazione di non indegnità del coniuge» (Trib. Milano, 3 ottobre 2018). L'opzione interpretativa sopra richiamata, però, sembra porsi in contrasto con l'orientamento della Suprema Corte che, invece, in più di un'occasione aveva stabilito che «il criterio delle ragioni della decisione se, per un verso postula una indagine sulla responsabilità del fallimento del matrimonio in una prospettiva comprendente l'intero periodo della vita coniugale, e quindi in una valutazione che attenga non soltanto alle cause determinative della separazione, ma anche al successivo comportamento dei coniugi che abbia concretamente costituito un impedimento al ripristino della comunione spirituale e materiale ed alla ricostituzione del consorzio familiare, per altro verso deve essere inteso nel senso che il comportamento dei coniugi anteriore alla separazione resta pur sempre separato ed assorbito dalla valutazione effettuata al riguardo dal giudice della separazione» (Cass. civ., 17 dicembre 2012, n. 23202; Cass. civ., 27 dicembre 2012, n. 28892; Cass. civ., 9 settembre 2002, n. 13060). Pare dunque preferibile discostarsi, seppure di poco, dall'orientamento oggi di fatto dominante tramite un'opera di riconciliazione del “nuovo assegno di divorzio” con i precedenti giurisprudenziali e dunque, concludere che: a) l'eventuale addebito pronunziato in sede di separazione incide sull'assegno divorzile sia in senso riduttivo (qualora sia pronunziato contro il richiedente l'assegno) sia in senso espansivo (qualora sia pronunziato contro l'obbligato) cosicché, in casi estremi e in funzione della valutazione equiordinata dei criteri di cui all'art. 5 l.div., potrebbero esservi situazioni in cui i fatti posti a fondamento dell'addebito eliminino in radice ogni possibilità di riconoscimento del contributo mensile; b) in mancanza di pronunzia di addebito, il Giudice, se sollecitato dalle parti, dovrà comunque valutare tutti quei comportamenti successivi alla separazione che costituiscano «un impedimento al ripristino della comunione spirituale e materiale ed alla ricostituzione del consorzio familiare» (Cass. civ., 22 novembre 2000, n. 15055).
La funzione solo assistenziale dell'assegno. Come correttamente sottolineato dai Giudici campani, anche dopo l'intervento delle Sezioni Unite, la dottrina, in maniera pressoché unanime e buona parte della giurisprudenza, si sono orientate nel senso di riconoscere, in talune fattispecie, rilievo assorbente all'eventuale funzione solo assistenziale dell'assegno, in ciò muovendo, peraltro, da alcuni passaggi non chiari della decisione 18287/18 che parrebbero deporre in tale senso (p.e. il riferimento alla funzione assistenziale che si compone di un connotato perequativo-compensativo, cosicché la natura assistenziale avrebbe rilievo preponderante rispetto alle altre due, pur riconosciute). Non sono mancati, come anticipato, alcuni precedenti illustri. Il Tribunale di Torino, ad esempio, ha riconosciuto un assegno divorzile a una donna, ancorché fosse provata l'assenza di qualsivoglia sacrificio o contributo alla formazione del patrimonio del marito che, invero, proveniva dalla famiglia di origine (Trib. Torino, 9 novembre 2018); la Corte d'appello di Catania ha riconosciuto l'assegno divorzile alla moglie, nonostante la stessa avesse ricevuto, in sede di separazione e in virtù del pregresso regime di comunione dei beni, la metà del patrimonio comune; e ciò in ragione della lunga durata del matrimonio e della differenza reddituale intercorrente tra lei (titolare di modestissimo assegno sociale) e il marito (percipiente una congrua pensione INPS). Anche il Tribunale di Milano (Trib. Milano, 15 ottobre 2018) ha avuto di pronunziarsi sul punto, revocando un assegno divorzile non più dovuto in base al criterio perequativo- compensativo ma dopo aver scrutinato la domanda solo sotto il profilo del criterio assistenziale “puro”. La sentenza in commento sembra aprire una breccia nell'orientamento dottrinale e giurisprudenziale dominante, laddove lo definisce comunque “discutibile” (p. 19) e lo applica ma per escludere, anche in tale ipotesi, la debenza dell'assegno divorzile. Si tratta di un passaggio invero importante che potrebbe anche portare a una diversa lettura dei principi espressi dalla Suprema Corte, così da escludersi la possibilità di riconoscimento di un assegno a favore di chi, pur non possedendo mezzi, non abbia comunque contribuito in alcun modo alla formazione del patrimonio comune e di quello dell'altro, non abbia sacrificato alcuna aspettativa professionale o reddituale e non abbia svolto quel “ruolo endofamiliare trainante” che, per la Cassazione costituisce il punto di partenza del giudizio sull'assegno. Diversamente ragionando, infatti, si corre il rischio (che si è concretizzato ad esempio con la decisione del Tribunale di Torino che ha concesso l'assegno alla moglie, titolare di un patrimonio di un milione di euro) di mortificare il nucleo centrale della sentenza delle Sezioni Unite e di far rientrare dalla finestra quanto (la mera sperequazione economica tra le parti) era stato fatto uscire dalla porta.
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