Associazioni di tipo mafioso: ratio e natura dell'aggravante di cui al comma 6 dell'art. 416-bis c.p.
04 Novembre 2019
Abstract
Il delitto di associazione mafiosa viene introdotto nel codice penale, all'art. 416-bis, dalla legge Rognoni-La Torre del 1982, allo scopo di rimediare alla inadeguatezza della tradizionale fattispecie dell'associazione per delinquere, di cui all'art. 416 c.p., per la repressione del fenomeno mafioso e costituisce ancora oggi un caposaldo della lotta alla criminalità organizzata. Oggetto specifico del contributo sarà il comma n. 6 dell'art. 416-bis, il quale prevede una circostanza aggravante per il caso in cui le attività economiche intraprese dagli associati siano finanziate con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Associazione di tipo mafioso: ratio e caratteristiche
L'atto di iniziativa legislativa da cui scaturisce la normativa che introduce il delitto di associazione mafiosa è costituito dalla proposta di legge n. 1581, presentata nel marzo del 1980 dai deputati Pio La Torre ed altri; dalla relazione di accompagnamento a tale proposta di legge si evince come l'art. 416-bis c.p. sia stato voluto dal legislatore alla luce della inadeguatezza mostrata dall'art. 416 c.p. in relazione alla esigenza di contrastare efficacemente la sempre più forte minaccia mafiosa (Atti preparatori della legge n. 646 del 1982, in Cons. sup. mag., 1982, p. 244). A ben vedere, un grosso dibattito in merito all'applicabilità dell'art. 416 c.p. al fenomeno mafioso aveva preceduto l'emanazione dell'art. 416-bis c.p. In particolare, una parte della dottrina (quella più remota) ha sempre avuto la tendenza a escludere che le aggregazioni mafiose potessero costituire di per sé associazioni punibili ai sensi dell'art. 416 c.p., perché, per potersi ravvisare tale delitto «occorre che tra le finalità dell'associazione vi sia quella di realizzare determinate fattispecie criminose”, laddove i sodalizi criminosi non avrebbero necessariamente tale finalità» (F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, parte speciale, vol. II, Milano, 1966, p. 630). Un'altra parte della dottrina, più recente, invece, supera tale tesi, tenendo conto delle classiche manifestazioni che contrassegnano il fenomeno mafioso. Da un lato, infatti, è vero che le organizzazioni mafiose si sono presentate storicamente come strutture economiche di potere che si alimentano attraverso il perpetuarsi delle rendite parassitarie e l'instaurazione di sistemi extraistituzionali di controllo sociale, con tendenza a sovrapporsi di fatto alle autorità costituite; dall'altro lato, tuttavia, esse hanno sempre assunto anche il carattere di associazioni di tipo gangsteristico, nella cui attività rientrano l'eliminazione fisica degli avversari, l'accumulazione originaria violenta della ricchezza, l'uso sistematico dell'intimidazione e comunque numerose condotte sanzionate penalmente. Secondo tale impostazione, ne consegue che le emergenze delittuose sono non eventuali ma pressoché necessitate, poste le incompatibilità esistenti fra l'ordinamento giuridico ufficiale e il parallelo ”ordinamento giuridico” mafioso e che, pertanto, qualsiasi associazione mafiosa presenta connotazioni criminologiche tali da poter sempre rientrare, in linea di principio, nello schema del sodalizio criminoso previsto dall'art. 416 c.p. È questa, peraltro, la posizione recepita da gran parte della giurisprudenza già in epoca remota (Cass., 31 marzo 1939, in Giust. pen., 1940, II, p. 90). Tuttavia, tale tesi si è scontrata ben presto con il problema centrale di ogni processo di mafia: la difficoltà di raccolta delle prove. Tale difficoltà ha indotto i magistrati a ricercare e sperimentare possibili scorciatoie ed ha portato spesso all'applicazione di tecniche giudiziarie che possono considerarsi, in qualche misura, improntate al modello del tipo d'autore. È così che negli anni ‘60 la giurisprudenza ha subito una certa evoluzione, tendendo ad aggirare, in talune pronunce, l'ostacolo costituito dalla necessità di provare l'adesione ad un programma criminoso da parte degli imputati riconosciuti come “mafiosi”: l'adesione partecipe a un programma criminoso da parte di costoro veniva, infatti, desunta automaticamente dal fatto stesso di far parte di un gruppo classificabile come mafioso. Questo approccio giudiziario partiva dal presupposto, criminologicamente corretto, della sovrapponibilità tra associazione mafiosa e associazione per delinquere, determinando conseguenze assai discutibili, però, sul piano della raccolta delle prove e su quello dell'indirizzo da dare all'indagine, nel senso che reputava preferibile impostare e portare a termine grandi processi di mafia per il solo reato di associazione per delinquere, ritenendo sufficiente accertare l'esistenza e la composizione di una consorteria mafiosa. Tuttavia, ciò non ha consentito di contrastare efficacemente il fenomeno, e si è rivelato una falsa scorciatoia: tale impostazione era, infatti, suscettibile di interpretazioni troppo soggettive ed arbitrarie. Da qui la necessità, avvertita dal legislatore, di elaborare una norma diretta a punire espressamente il fenomeno dell'associazione mafiosa, a prescindere dall'associazione per delinquere, e la formulazione dell'art. 416 bis c.p. in seno alla proposta di legge n. 1581 del 1982. Una volta chiarite le ragioni che hanno condotto all'adozione dell'art. 416 bis c.p., occorre ora concentrare la nostra attenzione brevemente sulle principali caratteristiche che connotano tale fattispecie criminosa. Il principale elemento che qualifica l'associazione contemplata dall'art. 416 bis c.p., e che la distingue da quella di cui all'art. 416 c.p., consiste nel c.d. metodo mafioso, mediante il quale vengono perseguiti gli scopi dell'associazione. Invero, malgrado in entrambe le fattispecie, il reato si configuri nel momento stesso in cui almeno tre soggetti si associano allo scopo di commettere una attività contra legem, creando un vincolo che nell'associazione mafiosa prende il nome di pactum sceleris, tanto la struttura interna, quanto la modalità operativa distinguono le due fattispecie associative. In particolare, per “metodo mafioso” si intende il modus operandi di cui si avvalgono gli associati per la realizzazione dell'attività delinquenziale; esso è caratterizzato dalla c.d. forza intimidatrice, che rappresenta lo strumento principale attraverso il quale l'associazione svolge la sua attività, creando una condizione di totale sottomissione ad essa del contesto sociale. È proprio attraverso di essa, infatti, che l'organizzazione criminale raggiunge il controllo del territorio e della relativa vita economica. Tale metodo non rappresenta solo lo strumento di gestione dei rapporti con l'esterno, ma si configura quale perno imprescindibile anche per l'organizzazione interna all'associazione. Infatti, la solidità e la stabilità del pactum sceleris è data proprio dalla consapevolezza dei consociati del pericolo nel quale il singolo incorrerebbe ed esporrebbe i propri familiari, laddove decidesse di contravvenire alle direttive dei capi dell'organizzazione o di staccarsi dall'associazione, magari collaborando con la giustizia onde facilitarne il perseguimento giudiziario. L'elaborazione giurisprudenziale (Cass., Sez. II, 15 marzo 1995, in CED n. 200990; Cass., Sez. I, 1° aprile 1992, in CED n. 190539) ha stabilito che il reato associativo si configura quando l'organizzazione sia preposta alla commissione di una pluralità di reati-fine riconducibili a molteplici fattispecie criminose, indipendentemente dalla concreta realizzazione delle stesse. Esso, difatti, costituisce una ipotesi di delitto a condotta multipla. Il bene giuridico minacciato dal reato è costituito non solo dall'ordine pubblico in senso stretto, ma anche dall'ordine pubblico economico. Ulteriore caratteristica del fenomeno mafioso, infatti, è la finalità di commettere delitti, ma anche, e soprattutto, quella di estendere la propria influenza, intesa come vera e propria gestione diretta del territorio, oltre che come generico ed indiretto controllo di tutti i settori che in esso garantiscono un potere economico, politico e decisionale. Il reato è di tipo permanente, il che implica che esso potrà ritenersi perpetrato fintanto che si abbia contezza della vita stessa del vincolo associativo. Con riguardo all'elemento dell'organizzazione interna quale peculiarità associativa, essa appare superflua ai fini dell'associazione semplice, mentre, in quella di stampo mafioso la distribuzione di specifici ruoli fra gli associati risulta essere una caratteristica indispensabile, anche allo scopo di distinguere i differenti livelli di responsabilità dei consociati, da cui il legislatore ha ritenuto di far discendere, tra l'altro, anche la maggiore o minore afflittività delle sanzioni previste. Si è, pertanto, nel tempo individuata una gerarchia, strutturale alle associazioni, in base alla quale tutti i soggetti che aderiscono ad un'organizzazione criminale assumono la generica qualifica di “associati”; ad essi è sempre riconducibile una precisa consapevolezza di partecipare alle attività delittuose cui la stessa è preposta. Altra categoria è rappresentata dai “promotori”, che sono coloro i quali si fanno fondatori del sodalizio, laddove, invece, “costitutori” sono coloro che con il proprio contributo pratico determinano o concorrono a determinare la nascita dell'organizzazione. Gli “organizzatori”, rappresentano i coordinatori dell'attività dei singoli soci, la quale è volta ad assicurare la vita, l'efficienza e lo sviluppo dell'associazione. In ultimo, vi sono i c.d. “capi”, che rappresentano i leader dell'organizzazione di cui regolano l'attività collettiva, con poteri di supremazia sugli altri. Tuttavia, sebbene, in teoria dette distinzioni appaiono facilmente individuabili, nella pratica, in verità, l'attribuzione di responsabilità in base ai ruoli ricoperti dai singoli rende difficile qualunque specificazione (I. GIBILARO – C. MARCUCCI, La criminalità organizzata di stampo mafioso. Evoluzione del fenomeno e degli strumenti di contrasto, Lido di Ostia, 2005, p. 17). Una volta chiarite le caratteristiche che connotano il reato di associazione mafiosa, passiamo ora all'analisi dell'aggravante di cui al comma 6 dell'art. 416-bis c.p., oggetto privilegiato del presente lavoro, il quale prevede la circostanza aggravante per il caso in cui le attività economiche intraprese dagli associati siano finanziate con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Il legislatore, attraverso tale previsione, ha inteso creare uno strumento normativo ulteriore in grado colpire più efficacemente, e per tale via scoraggiare al massimo, l'inserimento dei gruppi criminali mafiosi in settori di attività imprenditoriale lecita, in quanto questo aumenta enormemente la pericolosità del gruppo. Si tratta di una circostanza aggravante di cui si è molto discusso con riguardo alla sua natura; di recente la giurisprudenza è intervenuta sul punto. In particolare, con la sentenza della seconda sezione della Corte di Cassazione del 19 marzo 2019, che si allinea alla celebre sentenza delle Sezioni Unite Iavarazzo del 27 febbraio 2014, n. 25191, è stato chiarito che l'aggravante prevista dall'art. 416-bis, comma sesto, c.p. ha natura oggettiva e va riferita all'attività dell'associazione in quanto tale e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, sicché essa è valutabile a carico di tutti i componenti del sodalizio di tipo mafioso, sempre che essi siano stati a conoscenza dell'avvenuto reimpiego di profitti delittuosi, ovvero l'abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa. Tale impostazione differisce da quella sostenuta dai ricorrenti, che contestavano con il ricorso per cassazione la violazione dell'art. 606, lett. b) ed e), c.p.p., in ordine alla sussistenza della aggravante citata, effettuata, a parere della loro difesa, sulla base di una valutazione automatica, riferita indistintamente a tutti gli imputati, e fondata su una motivazione non adeguata. Con la sentenza del 2019 la Suprema Corte ha aderito alla posizione del giudice di appello, il quale, facendo applicazione del canone oggettivo della aggravante e tenuto conto delle attività notoriamente svolte dall'organizzazione mafiosa Cosa Nostra, riteneva la sussistenza del sesto comma dell'art. 416-bis c.p. nei riguardi di tutti gli imputati. Il giudice di secondo grado, nella specie, perveniva a tale affermazione sulla base di un sillogismo di tipo giuridico incontestabile: premesso che la circostanza ha natura oggettiva, secondo il citato principio delle Sezioni Unite del 2014, considerato che con plurimi interventi definitivi si è stabilito che l'associazione denominata Cosa Nostra è dedita stabilmente ad attività di reimpiego dei capitali illeciti, accertata la partecipazione degli imputati proprio alla predetta organizzazione criminale Cosa Nostra, ne discende la riconoscibilità dell'aggravante in capo agli stessi, in virtù del canone di cui all'art. 59 c.p. (secondo cui le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa), senza, per questo, incorrere in alcuna illegittimità. Tale argomento, però, secondo la Suprema Corte, va approfondito, essendo stato oggetto di difformi conclusioni, in relazione al caso sottoposto alla sua attenzione, da parte del Procuratore Generale di udienza, che sosteneva l'assenza di una adeguata dimostrazione concreta nel caso in esame della suddetta circostanza. Conclusione, peraltro, reiterata dai difensori dei ricorrenti con ulteriori considerazioni che lamentavano come si fosse pervenuti al riconoscimento della aggravante sulla base di un ragionamento presuntivo, sganciato dalle emergenze probatorie del giudizio interessato.
Giunti a questo punto occorre soffermarsi sulla sentenza delle Sezioni Unite Iavarazzo che prende posizione in relazione alla natura e alla ratio dell'aggravante di cui si discute, a cui la decisione della Seconda Sezione di cassazione in esame, come anticipato, si rifà. Le citate Sezioni Unite del 2014, sul punto, affermano che l'aggravante di cui al comma 6 "ricorre quando gli associati cercano di penetrare in un determinato settore della vita economica e si pongono nelle condizioni di influire sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza, finanziando, in tutto o in parte, le attività con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. L'aggravante in esame stabilisce una precisa correlazione logico-causale tra le diverse finalità indicate nel terzo comma dell'art. 416 bis c.p., colte nella loro proiezione dinamico-strutturale, essendo delineato un chiaro nesso funzionale tra la consumazione di delitti, la gestione di attività imprenditoriali, la realizzazione di vantaggi ingiusti, intesi o quale derivazione da attività economiche sanzionate come contravvenzione o quali aspetti complementari al controllo delle attività economiche. L'apporto di capitale deve corrispondere ad un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose. Il riferimento all'attività economiche è da intendere come intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano beni e servizi”. Inoltre, proseguono le Sezioni Unite, “la ratio di tale previsione è da ravvisare nella necessità di introdurre uno strumento normativo in grado di colpire più efficacemente l'inserimento delle associazioni mafiose nei circuiti dell'economia legale grazie alla maggiore liquidità derivante da delitti, costituenti una sostanziale progressione criminosa rispetto al reato-base, così concretizzando una più articolata e incisiva offesa degli interessi protetti. Come si desume dal chiaro tenore letterale dell'art. 416 bis, sesto comma, c.p., ai fini della configurabilità dell'aggravante non è necessario che l'attività imprenditoriale mafiosa venga finanziata interamente con fondi provenienti da delitto: la norma stabilisce espressamente, infatti, che deve ritenersi configurata l'aggravante anche se il finanziamento è di tipo misto, ossia è alimentato, in parte, dagli utili della gestione formalmente lecita e, in parte, dai proventi delittuosi”. Si aggiunge, ancora, che tale aggravante “é configurabile nei confronti dell'associato che abbia commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto di successivo reimpiego”. Tale conclusione si fonda “sull'interpretazione letterale dell'art. 416 bis, sesto comma, c.p., in cui sono assenti forme di esclusione o limitazione della responsabilità per tale ipotesi, e sulla ratio giustificatrice della disposizione. (…) Essa rappresenta una sorta di "progressione criminosa" rispetto al reato-base e denota la maggiore pericolosità di un'organizzazione che, mediante il conseguimento degli obiettivi prefissati, produce una più intensa lesione degli interessi protetti, influendo sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza mediante la penetrazione in settori di attività imprenditoriale lecita" (così, Sez. Un., 27 febbraio 2014, n. 25191, in CED n. 259589).
Alla luce della posizione delle Sezioni Unite appena illustrata, in relazione al caso sottoposto alla sua attenzione, il collegio della seconda sezione penale della Corte di Cassazione ritiene che, partendo dal presupposto indicato dalle stesse Sezioni Unite come elemento costitutivo dell'aggravante, individuato nel reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose, l'analisi dei motivi di gravame deve concludersi affermando la sussistenza della aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis c.p., secondo il sillogismo generale utilizzato dal giudice di secondo grado, nonché sulla base di un particolare accertamento di fatto relativo alle modalità operative delle organizzazioni mafiose coinvolte nel giudizio interessato. Invero, secondo i giudici di legittimità, può affermarsi essere emerso con certezza nel procedimento interessato che la costante prassi operativa delle famiglie di Cosa Nostra coinvolte prevede due tipologie di fatti estorsivi tipici, esteriorizzanti il controllo del territorio, che richiamano, la prima, l'ipotesi generale di cui al terzo comma dell'art. 416-bis c.p. e, la seconda, l'ipotesi aggravata di cui al successivo sesto comma della stessa norma. Si ritiene accertato, infatti, che in una serie di casi concreti, analizzati nella sentenza in relazione alla posizione dei singoli, le estorsioni siano state portate a termine imponendo alle imprese operative nel territorio il pagamento di somme alle famiglie criminali di quella stessa area, e ciò secondo la consueta ripartizione che impone il versamento di somme al gruppo criminale operativo nel luogo di esercizio dell'attività imprenditoriale, per cui ad ogni iniziativa economica corrisponde l'obbligo di versamento a favore della famiglia mafiosa della zona. È questo il fenomeno del c.d. "pizzo", che viene imposto quale somma dovuta alle imprese per lo svolgimento delle attività commerciali, manifatturiere o industriali, a secondo della zona di esecuzione dei lavori alla locale famiglia mafiosa. Tale diffusa fattispecie delittuosa appare riconducibile all'ipotesi richiamata dal terzo comma dell'art. 416-bis c.p., costituita dal controllo delle attività economiche, poiché attraverso tali imposizioni estorsive Cosa Nostra esercita una generale intimidazione delle attività di impresa, che taglieggia attraverso l'imposizione del pagamento di somme non dovute ed imposte in relazione alla area territoriale di operatività, in forza del controllo di quella stessa zona da parte del crimine organizzato. La consumazione di queste ipotesi estorsive viene ritenuta indicativa sia della consumazione del delitto-fine, che significativa della partecipazione del suo autore alla organizzazione mafiosa, poiché è in nome del supposto controllo di quel territorio che i versamenti non dovuti vengono imposti e pretesi a volte anche con violenza ed aggressione alla persona o ai beni della impresa-vittima. Nella vicenda interessata dalla sentenza, peraltro, sono emersi una serie di casi in cui l'estorsione mafiosa non si è limitata ad imporre il versamento di somme o la chiusura delle attività non "autorizzate"; in alcuni casi, infatti, all'esercente un'attività commerciale è stato imposta, con violenza o minaccia, la cessione dell'azienda a prestanome mafiosi e, in altri episodi, l'imposizione mafiosa si è spinta ad imporre l'esecuzione di lavori dati in appalto o forniture ad una impresa collegata agli esponenti mafiosi. In questi casi, il profitto dell'estorsione compiuta è il corrispettivo percepito dall'appaltatore delle opere a seguito delle esecuzione dei lavori ovvero il profitto derivante dall'esercizio dell'attività commerciale sottratta dagli esponenti mafiosi all'impresa regolare; ed in questo modo, l'impresa mafiosa, perché collegata agli esponenti di Cosa Nostra o addirittura diretta espressione degli stessi attraverso stretti legami parentali, riesce a percepire l'utilità procurata dall'azione delittuosa, che viene poi reinvestita nelle attività della stessa. L'impresa-mafiosa, grazie a questa prassi intimidatoria, acquista una posizione di preminenza all'interno del territorio, perché è grazie alle violenze e minacce esplicite portate a termine dagli esponenti criminali che riesce ad acquisire le attività commerciali degli altri, o ad acquisire commesse ed appalti in precedenza assegnati ad altre imprese e così a realizzare in concreto quel reinvestimento del profitto dell'illecito che la indicata sentenza delle Sezioni Unite individua quale parametro centrale della suddetta aggravante. Pertanto, tali illecite attività estorsive, integrano proprio la sussistenza della aggravante del sesto comma dell'art. 416-bis c.p., perché è proprio il profitto dei delitti estorsivi che viene reimpiegato in quelle imprese che poi assumono una posizione semi-monopolistica all'interno di determinate aree territoriali controllate dall'organizzazione mafiosa. Attraverso l'imposizione estorsiva delle ditte colluse si finanzia e si accresce la capacità imprenditoriale delle stesse assumendo il controllo delle attività economiche e, così, realizzando una infiltrazione del sistema economico produttivo che è proprio il bene giuridico tutelato dalla citata aggravante. Questo è avvenuto in relazione alla vicenda analizzata dalla seconda sezione della Corte di Cassazione. Nel caso di specie, poi, la circostanza aggravante risulta provata da un elemento ulteriore rispetto alla figura ordinaria del reato; invero, il terzo comma dell'art. 416-bis c.p. prevede che l'associazione è mafiosa quando attraverso il vincolo intimidatorio si impone il controllo di attività economiche ed è tale la condotta di controllare lo svolgimento delle attività economiche ancora riferibili a terzi estranei all'organizzazione attraverso l'imposizione del c.d. "pizzo". Ma quando il prezzo del delitto di estorsione mafiosa o il profitto dello stesso delitto è integrato con la commissione in appalto di lavori a ditte colluse che assumono il controllo delle attività economiche in un determinato territorio, si configura proprio l'ipotesi aggravata, poiché in questo caso la consumazione dei delitti fine è prodromica proprio ad assumere una posizione di prevalenza nel tessuto economico attraverso imprese riconducibili a Cosa Nostra. E infatti il reinvestimento del profitto illecito si realizza anche quando al soggetto passivo viene imposto con violenza o minaccia mafiosa di commettere lavori in appalto o far rilevare attività commerciali da una impresa mafiosa; in questo caso il profitto ingiusto del delitto estorsivo è dato dalla remunerazione dei lavori o dei servizi svolti ed il reinvestimento è attuato attraverso l'impiego del profitto illecitamente ottenuto nella stessa attività dell'impresa mafiosa. In conclusione, se Cosa Nostra in un ambito territoriale controlla l'esercizio delle attività economiche si configura l'ipotesi semplice del terzo comma; quando, invece, si estorce alle attività economiche private esistenti nel territorio un profitto illecito costituito dalla commissione in appalto di opere o lavori a imprese colluse, si configura l'ipotesi aggravata del sesto comma, poiché, in questo caso, si attua non solo il controllo delle attività, ma anche il rifinanziamento, attraverso il reato, delle imprese-mafiose, così ancor più arrecando danno all'ordine pubblico economico, alla libera concorrenza e alla libera iniziativa imprenditoriale, che sono i beni protetti dalla norma. Per richiamare la struttura operativa concreta della contestata aggravante può, pertanto, ritenersi che il reimpiego di cui al sesto comma dell'art. 416 bis c.p. può assumere differenti aspetti: l'ipotesi ordinaria è quella del reinvestimento di profitti di delitti-fine produttivi di effetti finanziari favorevoli come il traffico di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, il gioco clandestino, in attività economiche. Ma si ha reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose anche quando al soggetto passivo viene imposto con violenza o minaccia di commettere lavori in appalto ad imprese mafiose o imposto di cedere attività commerciali a favore di prestanome mafiosi. In questo caso, il profitto ingiusto del delitto estorsivo è costituito dalla remunerazione dei lavori e dei servizi svolti dall'impresa mafiosa che si giova della imposizione criminale e l'ipotesi del reimpiego si attua attraverso l'investimento di tale profitto nelle attività della medesima impresa. L'effetto di inquinamento delle attività economiche è del tutto identico, in quanto, nel primo caso, il flusso finanziario di origine illecita alimenta l'impresa mafiosa che può esercitare l'attività a condizioni più vantaggiose rispetto a chi deve finanziarsi attraverso il ricorso al mercato od alle banche. Nel secondo caso, invece, una identica posizione di preminenza viene ottenuta in forza della imposizione mafiosa a privati o altri soggetti giuridici di imprese mafiose che ottengono appalti di opere, servizi o esercitano attività commerciali, sfuggendo alle regole della libera concorrenza nel mercato. Sulla base di tali considerazioni, pertanto, i motivi di ricorso con i quali veniva contestata la sussistenza della suddetta aggravante devono, secondo la Suprema Corte, ritenersi non fondati. In conclusione
In conclusione è possibile affermare che il fenomeno dell'associazione mafiosa ha le sue peculiarità, tanto nelle modalità di azione, che nella struttura organizzativa, tali da aver condotto all'adozione di una norma specifica per il suo contrasto. Tale norma, l'art. 416-bis c.p., nel tempo è stata modificata, soprattutto attraverso aumenti di pena per le diverse ipotesi in essa contemplate, proprio al fine di rafforzarne l'efficacia. Con riguardo alle aggravanti con cui può essere commesso il reato e, per ciò che a noi interessa, con riferimento al comma 6, la giurisprudenza, anche a Sezioni Unite, si è ormai attestata nel senso che tale aggravante ha natura oggettiva e va riferita all'attività dell'associazione in quanto tale. Si configura quando si estorce alle attività economiche private esistenti nel territorio un profitto illecito costituito dalla commissione in appalto di opere o lavori a imprese colluse, poiché, in questo caso, si attua non solo il controllo delle attività, come nel caso di cui al comma 3 della disposizione, ma anche il rifinanziamento, attraverso il reato, delle imprese-mafiose, così ancor più arrecando danno all'ordine pubblico economico, alla libera concorrenza e alla libera iniziativa imprenditoriale, che sono i beni protetti dalla norma. Ciò coerentemente con la sua ratio, che si rinviene nella necessità di introdurre uno strumento normativo in grado di colpire in modo più efficace l'inserimento delle associazioni mafiose nei circuiti dell'economia legale grazie alla maggiore liquidità derivante da delitti, costituenti una progressione criminosa rispetto al reato-base. Atti preparatori della legge n. 646 del 1982, in Cons. sup. mag., 1982, n. 3; G. Colombo - L. Magistro, La legislatura antimafia, Milano, 1994; I. Gibilaro – C. Marcucci, La criminalità organizzata di stampo mafioso. Evoluzione del fenomeno e degli strumenti di contrasto, Lido di Ostia, 2005; G. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, 2008; V. Militello, Voce Associazione di stampo mafioso, in Dizionario di Diritto Pubblico, in S. Cassese (a cura di), vol. I, Milano, 2006; M. Barillaro, Il reato di associazione mafiosa, Milano, 2011; M. Ronco, L'art. 416 bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, in B. Romano - G. Tinebra (a cura di), Il diritto penale della criminalità organizzata, Milano, 2013. |