La morte e il diritto di chi rimane

20 Novembre 2019

Il caso del risarcimento del danno patrimoniale al nucleo familiare della vittima e le forme di previdenza sociale e privata.
Inquadramento

La morte di una persona, cagionata da fatto illecito altrui, può essere causa di un danno patrimoniale per i terzi, ed in particolar per quello che qui interessa, per il proprio nucleo familiare.

All'interno della voce danno patrimoniale, è possibile distinguere il danno patrimoniale futuro (da intendersi come perdita di utilità che per legge, contratto o consuetudine il defunto erogava al danneggiato, oppure avrebbe erogato in futuro al danneggiato) dal danno patrimoniale emergente (da intendersi come spese sostenute per le esequie, gli onorari funebri ed il sepolcro, nonché le altre spese o perdite indirettamente connesse alle esequie).

Mentre per la seconda sottovoce (danno emergente) non si ravvisano particolari problematiche, nel senso che le spese funeratizie sono dimostrabili documentalmente, più complicata è la questione del danno patrimoniale da morte come perdita delle elargizioni erogate dal defunto al nucleo familiare.

La Suprema Corte, di recente, ha tuttavia avuto modo di dettare dei principi molto chiari sul punto (Cass. civ., sez. III, Rel. Rossetti, 7 marzo 2017 n. 5605).

La vicenda riguardava il giudizio promosso dai congiunti di una persona deceduta in conseguenza di un sinistro stradale.

In primo grado, la domanda relativa al danno patrimoniale da lucro cessante non veniva accolta.

In secondo grado, la Corte d'appello, accogliendo l'appello dei congiunti della vittima, accordò loro il risarcimento del danno patrimoniale da morte, ritenendo irrilevante a tal fine che la moglie, dopo la morte del marito, avesse assunto la sua carica (ed il suo reddito) di amministratore unico di una società commerciale.

L'assicurazione del responsabile civile ricorreva in cassazione lamentando come la Corte d'Appello avesse reputato irrilevante, ai fini della liquidazione del danno patrimoniale da morte del congiunto, che la vedova, in precedenza casalinga, avesse assunto gli incarichi e i redditi del marito: ciò sul presupposto che la c.d. compensatio lucri cum damno non operi, quando svantaggio e vantaggio abbiano cause diverse, ed il fatto illecito abbia costituito solo l'occasione del loro prodursi.

Nel caso di specie, a dire della ricorrente, non ricorreva affatto dunque un'ipotesi di compensatio lucri cum damno, ma piuttosto un'ipotesi di mancanza di prova del danno: ed infatti gli istanti non avevano affatto dimostrato che i propri redditi fossero diminuiti dopo la morte del rispettivo marito e padre.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso cassando la decisione di secondo grado sostenendo che presupposto dell'accertamento del danno patrimoniale da perdita delle elargizioni ricevute dal defunto è l'accertamento che:

- la vittima avesse un reddito da lavoro;

- la vittima destinasse il proprio reddito da lavoro a favore della famiglia;

- la morte della vittima abbia determinato la riduzione o la cessazione delle elargizioni.

Nella vicenda oggetto di disamina, la Corte d'appello aveva accertato in facto che lo stesso reddito goduto dal defunto, dopo la morte di questi, era stato attribuito alla di lui vedova.

Mancava dunque l'accertamento di uno degli elementi costitutivi del danno, ovvero la perdita patrimoniale.

Vanamente, pertanto, la Corte d'appello si era soffermata ad indagare i presupposti ed i limiti dell'istituto della compensatio lucri cum damno.

I soggetti legittimati

Sono legittimati iure proprio a domandare il risarcimento del danno patrimoniale subito per effetto della morte di una persona:

  • i creditori di una prestazione patrimoniale nei confronti del defunto;
  • i prossimi congiunti, ed in particolar modo quelli conviventi;
  • il convivente more uxorio o la persona «unita civilmente»;
  • il nascituro.

Ovviamente, nelle prime tre ipotesi per avere diritto al risarcimento non è sufficiente dimostrare la mera convivenza, né la mera percezione di donativi saltuari dal de cuius, ma l'esistenza d'una stabile relazione interpersonale, di natura affettiva e parafamiliare, e che si esplicava in una comunanza di vita e di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale.

I criteri di liquidazione

Al fine di procedere alla liquidazione del danno patrimoniale derivante dalla morte di un congiunto, si deve, in primo luogo, accertare il reddito netto annuo della vittima, tenendo in considerazione non solo il reddito lavorativo ma anche il reddito di diversa natura, come il reddito da capitale, da rendita vitalizia, da pensione ed in genere da qualsiasi fonte extra-lavorativa.

Nella valutazione del danno da morte, infatti, a differenza della valutazione del danno da invalidità lavorativa non hanno diretta rilevanza solo la capacità lavorativa della vittima ed il reddito che essa ne traeva, bensì i benefici economici che la vittima avrebbe corrisposto ai congiunti se fosse rimasta in vita, benefici che i congiunti non potranno più percepire in conseguenza della morte del loro familiare.

Il reddito da prendere in considerazione ai fini della valutazione del danno subito dai congiunti, deve essere valutato al netto delle imposte, delle ritenute di legge e delle spese per la produzione dello stesso prudentemente stimabili (Cass. civ., 28 giugno 2012, n. 10853; Cass. civ., 14 luglio2003, n. 11007; Cass. civ., 16 maggio 2000, n. 6321; Cass. civ., 21 novembre 1995, n. 12020);

Nella liquidazione del danno futuro per la morte di un congiunto il giudice dovrà altresì tenere conto non solo del reddito della vittima al momento del sinistro, ma anche dei probabili incrementi di guadagno dovuti (Cass. civ., 6 ottobre 1994, n. 8177; Cass. civ., 4 febbraio 1993, n. 1384).

Gli incrementi patrimoniali del de cuius, purché al momento della morte fossero ragionevolmente prevedibili secondo l'id quod plerumque accidit, avrebbero infatti incrementato il patrimonio del percettore, se questi fosse rimasto in vita, e di conseguenza avrebbero consentito maggiori elargizioni ai familiari del defunto.

In secondo luogo, occorrerà detrarre dal reddito la quota sibi (ossia quella parte del reddito che verosimilmente il defunto destinava ai propri bisogni).

Al fine di determinare la quota sibi e contestualmente la quota che il defunto avrebbe devoluto a favore dei congiunti, si deve effettuare un calcolo del tutto ipotetico che varia in funzione:

- del grado di parentela che legava il de cuius ai superstiti;

- dell'età sia del defunto che dei familiari che il defunto avrebbe sovvenzionato;

- delle condizioni socio-economiche non solo della vittima ma anche dei superstiti;

- del numero dei familiari comunque a carico del defunto, di quelli che il defunto avrebbe potuto in concreto aiutare e di quelli che, con il defunto, sono tenuti a contribuire al mantenimento dei superstiti.

La prassi liquidativa, comunque, ha elaborato delle soluzioni per i casi più ricorrenti, stabilendo in pratica delle presunzioni.

La quota sibi viene identificata:

- nella misura variabile da un terzo ad un quinto, quando il defunto lascia il coniuge ed uno o più figli;

- nella misura variabile da un terzo alla metà, quando il defunto lascia soltanto il coniuge;

- nella misura di un quarto, quando il defunto lascia, uno o più figli ed il coniuge, percettore anch'egli di reddito

La quota di reddito così accertata, poi, dovrà essere capitalizzata in base ad un coefficiente per la costituzione delle rendite vitalizie.

La parte di reddito che la vittima avrebbe corrisposto ai congiunti se fosse rimasta in vita (reddito utile) rappresenta infatti il danno patrimoniale (lucro cessante) subito dai congiunti stessi.

Tale danno si protrae per tutto il periodo durante il quale i congiunti avrebbero beneficiato della quota di reddito, e cioè, a seconda dei casi, per tutta la loro vita, o per l'ulteriore vita (fisica o lavorativa) del loro familiare (se non fosse deceduto), o per un determinato diverso numero di anni.

Per liquidare questo danno si utilizza pertanto il criterio della capitalizzazione, con il quale si moltiplica il valore annuo della quota di reddito che la vittima avrebbe corrisposto ai congiunti se fosse rimasto in vita per il numero di anni durante i quali i congiunti avrebbero beneficiato del reddito del de cuius.

Non sempre il calcolo tabellare va eseguito con riferimento alla durata probabile della vita della vittima: difatti, «se il congiunto superstite è più anziano del defunto, la liquidazione del danno va rapportata alla presunta durata della vita del primo» (Cass. civ., n. 3475/1971).

Quindi, se la vittima era più anziana del congiunto superstite, il calcolo tabellare va eseguito con riferimento alla vita probabile del defunto; se invece è più anziano il congiunto superstite, bisogna far riferimento alla vita probabile di quest'ultimo.

Il metodo di calcolo classico utilizzato per la c.d. «capitalizzazione» era il seguente:

Reddito x % invalidità specifica x Coefficiente di capitalizzione (usualmente tab. «Tariffe per la costituzione delle rendite vitalizie immediate» contenuta nel r.d. 1403 del 1922 ma vedi «infra») – «Scarto vita fisica/lavorativa (10-20%).

Nonostante la vetustà degli elementi contenuti nel r.d.n. 1403/1922, il criterio ed i valori in esso contenuti sono stati considerati validi per molto tempo (cfr. fra le altre Cass. civ. n. 8985/2012) essendo gli unici trasposti in un provvedimento legislativo.

La Suprema Corte aveva previsto che il giudicante dovesse «adeguare il risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate, e cioè tenere conto dell'aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale» (Cass. civ., sez. III, n. 8985/2012).

Uno dei metodi era quello di evitare di sottrarre lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa.

Tuttavia, ci si è resi conto che i coefficienti dettati dal R.D n. 1403/1922 non erano più attendibili e razionali e dovevano pertanto ritenersi superati, a causa, in particolare, dell'accrescimento della vita media del popolo italiano, dell'abbassamento dei saggi d'interesse e del fatto che i coefficienti non fossero più aderenti alla realtà.

Nel procedere alla liquidazione del danno patrimoniale futuro, pertanto: «il giudice di merito, ove adotti il criterio della capitalizzazione, (…), non può impiegare i coefficienti allegati al R.d. 9 ottobre 1922, n. 1403, i quali, essendo fondati su dati risalenti al 1911, forniscono criteri di valutazione non più attendibili e razionali, quantunque il giudice abbia escluso la detrazione della percentuale di abbattimento della rendita per lo scarto fra la vita fisica e vita lavorativa. Si ricorda che la valutazione equitativa dei danni che non possano essere quantificati nel loro preciso ammontare non deve essere una liquidazione arbitraria, cioè del tutto sganciata dall'effettiva entità del pregiudizio economico risentito dal danneggiato e manifestamente inadeguata allo scopo, e che ad essa occorre procedere con riferimento a parametri di valutazione il più possibile attendibili e razionali. Tali non sono, ad oggi, i dati espressi dalle tabelle di capitalizzazione delle rendite vitalizie, risalenti al 1922» (Cass. civ., sez. III, sent. 30 luglio 2015 n. 16197).

Ed ancora: “il danno permanente da incapacità di guadagno non può essere liquidato in base ai coefficienti di capitalizzazione approvati con r.d. n. 1403 del 1922, i quali, a causa dell'innalzamento della durata media della vita e dell'abbassamento dei saggi di interesse, non garantiscono l'integrale ristoro del danno, e con esso il rispetto della regola di cui all'art. 1223 c.c. Per ovviare agli inconvenienti sopra descritti, ovviamente il giudice di merito resta libero di adottare i coefficienti di capitalizzazione che ritiene preferibili, purché aggiornati e scientificamente corretti. Potranno a tal fine essere adottati i coefficienti di capitalizzazione approvati con provvedimenti normativi vigenti per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali, come pure i coefficienti elaborati dalla dottrina per la specifica materia del risarcimento del danno aquiliano: a mero titolo indicativo, quelli diffusi dal Consiglio Superiore della Magistratura ed allegati agli Atti dell'Incontro di studio per i magistrati, svoltosi a Trevi il 30 giugno - 1 luglio 1989 (in Nuovi orientamenti e nuovi criteri per la determinazione del danno, Quaderni del CSM, 1990, n. 41, pp. 127 e ss.)» (Cass. civ, sez. III. 14 ottobre 2015, n. 20615).

Da ultimo: «È principio di questa Corte che in tema di liquidazione dei danni patrimoniali da invalidità permanente in favore del soggetto leso o da morte in favore dei superstiti, ove il giudice di merito utilizzi il criterio della capitalizzazione del danno patrimoniale futuro, adottando i coefficienti di capitalizzazione della rendita fissati nelle tabelle di cui al Regio Decreto 9 ottobre 1922, n. 1403, egli deve adeguare detto risultato ai mutati valori reali dei due fattori posti a base delle tabelle adottate, e cioè deve tenere conto dell'aumento della vita media e della diminuzione del tasso di interesse legale e, onde evitare una divergenza tra il risultato del calcolo tabellare ed una corretta e realistica capitalizzazione della rendita, prima ancora di "personalizzare" il criterio adottato al caso concreto, deve "attualizzare" lo stesso, o aggiornando il coefficiente di capitalizzazione tabellare o non riducendo più il coefficiente a causa dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa» (Cass. civ., sez. III. 29 maggio 2017, n. 11209).

Il danno patrimoniale da morte: casi particolari. Morte del figlio minore

Nel caso in cui l'atto illecito del terzo causi la morte di un minore, i genitori del defunto possono risentire un danno patrimoniale futuro, consistente nelle minori erogazioni che il figlio avrebbe loro erogato una volta divenuto economicamente indipendente, e sempre che i genitori avessero avuto bisogno del suo aiuto (Cass. civ., sez. III, sent. 14 febbraio 2007, n. 3260)

Ai fini della liquidazione del danno patrimoniale futuro, patito dai genitori per la morte del figlio in conseguenza del fatto illecito altrui, è necessaria la prova, sulla base di circostanze attuali e secondo criteri non ipotetici ma ragionevolmente probabilistici, che essi avrebbero avuto bisogno della prestazione alimentare del figlio, nonché del verosimile contributo che il figlio avrebbe versato per le necessità della famiglia (Cass. civ., sent. 16 gennaio 2014, n. 759; in senso conforme: Cass. civ., sent. 23 febbraio 2016, n. 3504).

Per quanto attiene alla liquidazione del danno patrimoniale per la morte del figlio minore, deve tenersi conto che il relativo lucro cessante sarebbe entrato nel patrimonio dei genitori non al momento dell'evento dannoso, ma quando il minore avrebbe, verosimilmente, iniziato a lavorare.

Pertanto una volta determinata equitativamente la quota di reddito che il minore avrebbe destinato ai genitori, e capitalizzato tale quota di reddito in base ad un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie corrispondente all'età dei genitori al momento presunto di inizio dell'erogazione, occorre moltiplicare il risultato per un coefficiente di capitalizzazione anticipata, al fine di tenere conto del fatto che il danno si sarebbe verificato soltanto tra tot anni.

Morte della casalinga

I familiari della persona defunta in conseguenza dell'altrui atto illecito possono risentire un danno patrimoniale anche se la vittima non era produttrice di reddito, ma era dedita ai lavori domestici (Cass. civ., sent. 10 gennaio 2017, n. 238).

Anche il lavoro domestico è suscettibile di valutazione economica, e quindi la perdita del lavoro domestico disimpegnato da uno dei componenti la famiglia costituisce danno patrimoniale risarcibile.

Tale danno, peraltro, non deve mai considerarsi in re ipsa.

Come per qualsiasi altro tipo di danno, il danneggiato ha l'onere di allegare e dimostrare l'effettiva perdita di tali utilità, e quindi che il familiare scomparso fosse effettivamente dedito ai lavori domestici.

Tale danno può essere liquidato facendo riferimento al criterio del triplo della pensione sociale (Cass. civ., 12 settembre 2005, n. 18092; Cass. civ., 10 settembre 1998, n. 8970), oppure assumendo a base del calcolo di capitalizzazione la retribuzione media annua di una collaboratrice domestica, con gli opportuni adattamenti per la maggiore ampiezza dei compiti svolti dalla casalinga (Cass. civ., 12 settembre 2005, n. 18092; Cass. civ., 22 novembre 1991, n. 12546).

Compensatio lucri cum damno nel danno patrimoniale da morte (assicuratori sociali – INAIL ed INPS - e privati)?

La morte di un familiare può invero determinare anche la cessazione di un costo oppure la corresponsione di un emolumento patrimoniale al congiunto (INAIL/INPS/Assicurazioni private).

È spesso controverso se di tali circostanze si debba tenere conto nella liquidazione.

Secondo una datata decisione del Supremo Collegio, la liquidazione del danno patrimoniale patito dai genitori per la perdita di un figlio convivente deve tenere conto dei minori oneri di mantenimento, istruzione ed educazione che i genitori sosterranno in conseguenza della morte del figlio (Cass. civ. n. 4242/1996).

L'applicabilità della regole della compensatio al danno patrimoniale patito dai genitori della vittima tuttavia suscita numerose perplessità; al riguardo si sottolinea come, oltre alle non irrilevanti considerazioni di ordine morale, chi lamenta il danno senza dubbio non compie quelle erogazioni che sarebbero state necessarie per mantenere ed educare il minore; tuttavia, viene privato di una importantissima utilità economica: la crescita materiale e spirituale di un uomo, il suo addestramento, in vista di attività produttive, e dunque economicamente rilevanti che si sarebbero svolte a favore anche dei suoi genitori.

Passando invece alle erogazioni degli assicuratori, si osserva innanzitutto che nel caso di morte di un lavoratore, la legge prevede provvidenze in favore dei familiari della vittima, per alleviare od eliminare lo stato di bisogno – presunto iuris et de iure – in cui possono essere venuti a trovarsi.

Tali provvidenze vengono erogate attraverso il sistema dell'assicurazione sociale (INPS e INAIL).

Nel caso d'infortunio mortale sul lavoro, in particolare, l'INAIL attribuisce ai familiari conviventi della vittima una rendita, il cui importo è pari a circa il 64% della retribuzione del defunto (Art. 85 del Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, d.P.R. n. 1124/1965).

Questa rendita ha ovviamente lo scopo di sollevare i familiari della vittima dallo stato di bisogno in cui la legge presume che siano venuti a trovarsi dopo la morte del lavoratore, ed ha quindi il fine di indennizzare un danno patrimoniale.

I familiari superstiti, in caso di morte dell'assicurato o pensionato iscritto presso una delle gestioni dell'INPS poi, hanno diritto alla pensione nel caso in cui ricorrano determinate condizioni (vedi l. 12 giugno 1984 n. 222):

1) La prima condizione si verifica nel caso in cui il dante causa sia titolare di pensione diretta ovvero avendone diritto, ne abbia in corso la liquidazione. I superstiti in questo caso avranno diritto alla pensione di reversibilità.

2) L'altra situazione si verifica quando il lavoratore deceduto abbia maturato 15 anni di assicurazione e di contribuzione (oppure 780 contributi settimanali) ovvero cinque anni di assicurazione e contribuzione (oppure 260 contributi settimanali), di cui almeno tre anni (oppure 156 contributi settimanali) nel quinquennio precedente la data del decesso. I superstiti avranno quindi diritto alla pensione indiretta.

Ma la domanda che la dottrina e la giurisprudenza si sono poste è se tali elargizioni dovute dall'assicuratore sociale per il caso di morte potessero o meno cumularsi con il risarcimento dovuto dal responsabile.

Secondo l'orientamento tradizionale (e prevalente sino a poco tempo fa), delle prestazioni erogate dall'assicuratore sociale ai superstiti non si deve tenere conto nella liquidazione del danno patrimoniale derivato dalla morte del familiare.

In questi casi, infatti, non opera il principio della compensatio lucri cum damno, in quanto la perdita e l'incremento patrimoniale traggono origine da fatti diversi (un fatto illecito e una norma di legge).

(Cass. civ. n. 12124/2003; Cass. civ. n. 8828/2003; Cass. civ. n. 4205/2002; Cass. civ. n. 10291/2001).

Un diverso e più recente orientamento invece era arrivato a negare la cumulabilità del risarcimento del danno da perdita delle erogazioni elargite ai congiunti dal defunto con le prestazioni degli assicuratori sociali (rendite/pensioni) in base al seguente sillogismo: dal momento che le prestazioni degli assicuratori sociali costituiscono una forma di ristoro del danno patrimoniale subito dai familiari del lavoratore, di conseguenza esse elidono in parte qua il danno subito dai familiari della vittima.

Pertanto, non tanto di compensatio lucri cum damno si dovrebbe parlare, quanto di inesistenza stessa del danno patrimoniale, per la parte elisa dalle prestazioni degli assicuratori sociali, in applicazione del c.d. principio di indifferenza o di integralità della riparazione.

In particolare, la Suprema Corte aveva sostenuto che dall'ammontare del risarcimento del danno patrimoniale da morte dovesse essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto, attesa la funzione indennitaria assolta da tale trattamento, che era inteso a sollevare i familiari dallo stato di bisogno derivante dalla scomparsa del congiunto, con conseguente esclusione, nei limiti del relativo valore, di un danno risarcibile (Cass. civ., sez. III, n. 13537/2014).

La questione, vista anche la presenza di orientamenti contrastanti in Cassazione, è stata dunque portata all'attenzione delle Sezioni Unite con Cass. civ., ord. 22 giugno 2017 n. 15536 (rel. dott. Moscarini).

Alla base della vicenda vi era il ricorso degli eredi della vedova di una vittima di un incidente stradale avverso la sentenza di secondo grado che aveva escluso l'esistenza di un danno patrimoniale da perdita dell'aiuto economico ricevuto dal defunto, avendo la vedova beneficiato, dopo la morte del marito, di una pensione di reversibilità pari al 60% circa della pensione percepita dallo scomparso. Per tale motivo, sia il Tribunale sia la Corte d'appello, avevano ritenuto che tale erogazione da parte dell'ente di previdenza elidesse l'esistenza di un danno patrimoniale.

Secondo la Corte di Cassazione: «Il risarcimento spettante alla vittima dell'illecito andrà dunque ridotto in tutti i casi in cui, senza l'illecito, la percezione del vantaggio patrimoniale sarebbe stata impossibile. Tale condizione ricorre quando il vantaggio dovuto alla vittima è previsto da una norma giuridica che fa dell'illecito, ovvero del danno che ne è derivato, uno dei presupposti di legge per l'erogazione del beneficio.

Tale requisito sussisterà dunque certamente: […]

(e) rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da perdita delle elargizioni ricevute da un parente deceduto, quando il superstite abbia percepito dall'INAIL la rendita di cui al d.P.R. 30 giugno 1965, n. 124, art. 66, comma 1, n. 4» (Cass. civ., ord. 22 giugno 2017 n. 15536).

Analogamente: «non v‘è ragione per escludere che il valore capitalizzato della pensione di reversibilità debba sottrarsi dal risarcimento del danno patrimoniale derivato dall'uccisione d'un congiunto, e consistito nella perdita degli emolumenti da questi erogati al superstite.

La c.d. "pensione di reversibilità" (rectius, assicurazione pubblica a beneficio dei congiunti superstiti, contro il rischio di morte del lavoratore o del pensionato) ha la finalità di preservare i congiunti del de cujus dalle conseguenze patrimoniali sfavorevoli cui essi sono esposti nel momento in cui viene a mancare la principale fonte di reddito del nucleo familiare. Tanto si desume dal fatto che:

(a) la pensione di reversibilità R.d.l. 14 aprile 1939, n. 636,ex art. 13, è attribuita all'avente diritto jure proprio, ed è causalmente collegata al decesso;

(b) essa in tanto viene corrisposta, in quanto si presume che il beneficiario subisce una perdita patrimoniale in conseguenza della morte del congiunto;

[…]

(i) la pensione di reversibilità è ridotta in misura crescente, in proporzione del reddito del beneficiario (l. 8 agosto 1995, n. 335, art. 1, comma 41)» (Cass. civ., ord. 22 giugno 2017n. 15536).

Sulla base di queste considerazioni alle Sezioni Unite è stato quindi chiesto: «(A) Se, in tema di risarcimento del danno, ai fini della liquidazione dei danni civili il giudice deve limitarsi a sottrarre dalla consistenza del patrimonio della vittima anteriore al sinistro quella del suo patrimonio residuato al sinistro stesso, senza far ricorso prima alla liquidazione e poi alla cd. compensatio lucri cum damno (istituto o principio non individuabile nell'ordinamento giuridico); se, di conseguenza, quando l'evento causato dall'illecito costituisce il presupposto per l'attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall'illecito, di questi il giudice debba tenere conto nella stima del danno, escludendone l'esistenza per la parte ristorata dall'intervento del terzo; (B) Se il risarcimento del danno patrimoniale patito dal coniuge di persona deceduta, e consistito nella perdita dell'aiuto economico offertole dal defunto, va liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della pensione di reversibilità attribuita al superstite dall'ente previdenziale» (Cass. civ., ord. 22 giugno 2017n. 15536).

La Sezioni Unite hanno risposto a queste domande con la sentenza del 22 maggio 2018 n. 12564, ritenendo non applicabile la c.d. compensatio lucri cum damno, ed escludendo dunque che la pensione di reversibilità debba essere decurtata dal risarcimento del danno patrimoniale.

Quanto alla “funzione” dell'emolumento, la Corte precisa infatti che l'erogazione della pensione di reversibilità «non è geneticamente connotata dalla finalità di rimuovere le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato per effetto dell'illecito”, ma costituisce, piuttosto, l'adempimento di una promessa», e cioè quella che, «a far tempo dal momento in cui il lavoratore, prima o dopo il pensionamento, avrà cessato di vivere, quale che sia la causa o l'origine dell'evento protetto, vi è la garanzia, per i suoi congiunti, di un trattamento diretto a tutelare la continuità del sostentamento e a prevenire o ad alleviare lo stato di bisogno» (Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018 n. 12564).

La pensione di reversibilità costituisce, cioè, una specifica tutela previdenziale che protegge i superstiti dall'insorgenza di uno stato di bisogno a seguito della morte del familiare.

L'incremento patrimoniale conseguito dal superstite, oltretutto, si ricollega ad un sacrificio economico del lavoratore (che - nel corso della propria vita lavorativa – contribuisce all'assicurazione obbligatoria anche a tal fine) e quindi non costituirebbe un vero e proprio lucro; mentre nel giudizio di responsabilità civile, precisa la Corte, si potrebbe avere una riduzione del danno risarcibile solo nei limiti in cui il danneggiato abbia conseguito un “gratuito vantaggio economico”.

In altri termini, il fatto illecito costituisce semplicemente «l'occasione per il sorgere di un'attribuzione patrimoniale che trova la propria giustificazione in un corrispondente e precedente sacrificio».

In definitiva, la «causa più autentica di tale beneficio» - sempre per utilizzare le parole della Corte – «deve essere individuata nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente e assorbente rispetto alla circostanza (occasionale e giuridicamente irrilevante) che determina la morte» (Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018 n. 12564).

Da ultimo, la Corte rileva giustamente come il legislatore non abbia comunque previsto alcun meccanismo di surroga/rivalsa che consenta all'assicuratore sociale di ottenere dal responsabile il pagamento dell'importo capitalizzato della reversibilità: ed infatti, nessuna delle norme richiamate da Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014 n. 13537 (art. 1916, comma 4 c.c.; art. 14 l. n. 222/1984; artt. 41 e 42 l. n. 183/2010) «lascia chiaramente intendere la sussistenza di un subentro dell'Inps nei diritti del familiare superstite, percettore del trattamento pensionistico di reversibilità, verso i terzi responsabili del fatto illecito che ha determinato la morte del congiunto» (Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018 n. 12564).

Il che destituisce di qualsivoglia fondamento l'argomento - tanto suggestivo quanto capzioso - propugnato da Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2014. n. 13537, secondo cui l'ammissione del cumulo di risarcimento e reversibilità precluderebbe ad INPS di agire nei confronti del responsabile, consentendo al contempo al danneggiato di arricchirsi a danno della collettività; è infatti evidente che INPS non può ottenere in via surrogatoria quanto pagato a titolo di reversibilità proprio perché nessuna norma gli attribuisce tale facoltà.

Da ultimo, segnaliamo che sempre la Suprema Corte è intervenuta invece in un caso in cui era stata l'Inail ad intervenire a favore degli eredi di un lavoratore, affermando che: «nel caso di infortunio mortale occorso ad un lavoratore, il valore capitale della rendita costituita dall'INAIL ln favore dei congiunti, ai sensi del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 85, non può essere defalcata dal risarcimento del danno non patrimoniale spettante ai medesimi soggetti» (Cass. civ., ord. 18 ottobre 2019 n. 26647).

Nell'accogliere il ricorso promosso dagli eredi di un lavoratore ai quali era stata in secondo grado compensato il pregiudizio non patrimoniale da loro sofferto con la rendita ricevuta dall'Inail, il Supremo Collegio ha infatti giustamente osservato che: «Nel caso di uccisione di un lavoratore, l'Inail corrisponde ai congiunti che posseggano i requisiti di legge una rendita (d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 66, n. 4, e art. 85). Tale rendita è parametrata al reddito del de cuius, non può superare il 100% della retribuzione del defunto, quale che sia il numero degli aventi diritto; cessa se il coniuge superstite contrae nuove nozze; cessa quando il figlio che ne fosse beneficiario raggiunga il ventunesimo anno di età, ovvero il ventiseiesimo se studente universitario (d.P.R. cit., art. 85).

Tali caratteristiche palesano che la rendita di cui si discorre ha lo scopo solidaristico di sollevare i congiunti del defunto dallo stato di bisogno in cui la legge presume "juris et de jure”) che essi verrebbero a trovarsi in conseguenza della perdita del contributo economico che il lavoratore deceduto apportava alla propria famiglia. La rendita, quindi, ha lo scopo di indennizzare un pregiudizio patrimoniale, e non certo un danno non patrimoniale. Ne consegue che le somme erogate dall'Inail per il suddetto titolo non possono essere defalcate dal credito risarcitorio spettante ai congiunti del lavoratore deceduto a titolo di ristoro del danno non patrimoniale patito - sotto qualsiasi forma – in conseguenza dell'infortunio.

La c.d. compensatio lucri cum damno (la quale non costituisce un istituto a sé, ma una regola empirica di corretta aestimatio del danno), infatti, non opera quando il vantaggio conseguito dalla vittima dopo il fatto illecito sia destinato a ristorare pregiudizi ulteriori e diversi da quello di cui ha chiesto il risarcimento, così come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. civ., Sez. Un., sent.22 maggio 2018n. 12566)» (Cass. civ.,ord. 18 ottobre 2019 n. 26647).

Anche per quanto concerne, infine, l'ipotesi in cui ai congiunti fosse stato corrisposto un emolumento sulla base di Assicurazioni private (polizze «vita» o contro gli infortuni mortali: artt. 1919-1927 c.c.), non potrà comunque operare alcuna forma di “compensatio” stante quanto affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte: «nel caso di assicurazione sulla vita, l'indennità si cumula con il risarcimento, perché si è di fronte ad una forma di risparmio posta in essere dall'assicurato sopportando l'onere dei premi, e l'indennità, vera e propria contropartita di quei premi, svolge una funzione diversa da quella risarcitoria ed è corrisposta per un interesse che non è quello di beneficiare il danneggiante» (Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018 n. 12564; Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018 n. 12565; Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018 n. 12566 e Cass. civ., Sez. Un., 22 maggio 2018 n. 12567, nonchè Cass. civ., Sez. Un., 10 aprile 2002 n. 5119)

In conclusione

Il tema del danno patrimoniale da morte, in definitiva, risulta essere sempre in evoluzione, in particolar modo per quanto concerne i criteri di liquidazione da adottare.

Un punto fermo, invece, appare essere stato raggiunto dalla giurisprudenza della Suprema Corte circa la non applicabilità del principio della c.d. compensatio lucri cum damno in ipotesi di erogazioni in favore dei congiunti della vittima da parte degli assicuratori sociali (Inail ed Inps) e di quelli privati.

Giustamente, a nostro sommesso avviso, stante la funzione previdenziale, di risparmio e comunque solidaristica che hanno queste erogazioni in favore di persone che hanno perso il contributo economico di un loro congiunto al menage familiare in conseguenza di un fatto illecito commesso da terzi.

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