La sospensione cautelare da parte del magistrato di sorveglianza degli arresti domiciliari disposti ai sensi dell'art. 656, comma 10 c.p.p.
29 Novembre 2019
Massima
Il termine perentorio di trenta giorni stabilito dall'art. 51-ter ord. penit. opera soltanto in caso in cui il magistrato di sorveglianza abbia disposto sospensione cautelare di una misura alternativa alla quale il condannato sia stato ordinariamente ammesso dal Tribunale di Sorveglianza competente e non anche nel caso di sospensione cautelare degli arresti domiciliari esecutivi ex art. 656, comma 10 c.p.p. Il caso
Il giorno del passaggio in giudicato della sentenza di condanna il ricorrente si trovava sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari (per lo stesso reato oggetto del procedimento ormai definito). Il Pubblico Ministero accertata la sussistenza delle condizioni richieste dall'art. 656, comma 10 c.p.p. aveva sospeso l'efficacia esecutiva dell'ordine di carcerazione e disposto la trasmissione degli atti al Tribunale di Sorveglianza per la decisione in merito all'applicazione di una misura alternativa alla detenzione; fino alla decisione del collegio, in forza di quanto dispone espressamente il citato comma 10, il condannato continua ad essere sottoposto al regime restrittivo vigente al momento della irrevocabilità della sentenza. Il condannato veniva denunciato per il delitto di evasione ed il magistrato di sorveglianza competente per territorio disponeva la sospensione degli arresti domiciliari; per effetto di tale provvedimento il condannato veniva tradotto in carcere. Trascorsi trenta giorni dall'ingresso in istituto senza che fosse intervenuta la decisione da parte del Tribunale di Sorveglianza, il condannato chiedeva al magistrato di sorveglianza di accertare l'inefficacia del provvedimento di sospensione a causa della scadenza del predetto termine e di disporre la riammissione al regime restrittivo di cui all'art. 656, comma 10 c.p.p. Il giudice rigettava l'istanza ed il condannato impugnava tale la decisione con ricorso per cassazione definito con la sentenza in commento con la quale la Corte ha escluso l'operatività del termine di cui all'art 51-ter ord. penit. con riguardo alla posizione del condannato sottoposto al regime degli arresti domiciliari di cui all'art 656, comma 10 c.p.p. La questione
Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha affrontato due diverse questioni. In primo luogo si tratta di stabilire se in caso di sottoposizione del condannato agli arresti domiciliari ex art. 656, comma 10, c.p.p. in presenza di condotte trasgressive delle prescrizioni inerenti tale misura il magistrato di sorveglianza sia legittimato a disporre la sospensione degli arresti domiciliari e ad ordinare l'accompagnamento in carcere del reo. In secondo luogo occorre stabilire se in tale ipotesi debba trovare applicazione l'art. 51-ter ord. penit. che prevede la perdita di efficacia del provvedimento di sospensione decorsi trenta dalla trasmissione degli atti al Tribunale di Sorveglianza nel caso in cui il collegio non abbia provveduto; in caso di risposta positiva il condannato deve essere scarcerato per essere nuovamente sottoposto al regime degli arresti domiciliari in attesa della decisione del Tribunale sull'eventuale concessione di una misura alternativa.
Le soluzioni giuridiche
In ordine alla prima questione la risposta della Corte è di segno positivo. L'art. 656, comma 10, c.p.p. prevede che il condannato che al momento della irrevocabilità della sentenza si trova sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, ove debba espiare una pena inferiore ai limiti previsti dal comma 5 della norma purché non imputabile ad uno dei delitti indicati nel comma 9, lett. a), benefici della sospensione dell'ordine di carcerazione fino alla decisione del Tribunale di Sorveglianza competente per territorio al quale il Pubblico Ministero deve trasmettere gli atti. La norma da ultimo citata esclude dall'ambito di operatività della sospensione, oltre che i reati elencati nell'art. 4-bis ord.penit., anche alcune ipotesi delittuose singolarmente indicate tra cui quelle concernenti il furto pluriaggravato, il furto in abitazione e furto comma strappo (quest'ultime previste dall'art. 624-bis c.p.). Sul punto mette conto rammentare che per effetto della sentenza della Corte costituzionale n.125 del 2016 il divieto di sospensione non è più operante per il furto con strappo, mentre resta fermo per il delitto di furto in abitazione come confermato di recente dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 216 del 2019. Con questa decisione la Corte, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Agrigento in funzione di giudice dell'esecuzione, ha infatti puntualmente osservato che nel caso relativo al delitto di furto in abitazione il divieto di sospensione dell'ordine di carcerazione trova la propria ratio “nella discrezionale e non irragionevole presunzione del legislatore relativa alla particolare gravità del fatto di chi, per commettere un furto, entri in una abitazione altrui, ovvero in un altro luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze, e della speciale pericolosità soggettiva manifestata dall'autore di un simile reato”; pertanto - continua la Corte - la pericolosità individuale evidenziata dalla violazione dell'altrui domicilio costituisce “una ragione sufficiente per negare in via generale ai condannati per il delitto in esame il beneficio della sospensione dell'ordine di carcerazione in attesa della valutazione caso per caso, da parte del Tribunale di sorveglianza, della possibilità di concedere al singolo condannato i benefici compatibili con il titolo del reati e durata della sua condanna”. Viceversa nel caso del furto con strappo la Corte costituzionale aveva ritenuto irragionevole la disciplina che prevedeva il divieto di sospensione per tale reato ma non anche per il più grave reato di rapina (propria ed impropria) nel quale, a causa della possibile reazione della vittima, il furto con strappo può trasmodare (sentenza n. 125 del 2016). Il furto in abitazione può, invece ed in caso di reazione della persona offesa, trasmodare nel reato di rapina aggravata ai sensi dell'art. 628, comma 3-bisc.p. in quanto il fatto è commesso nei medesimi luoghi indicati dall'art. 624-bis c.p. e tale reato è compreso nell'elenco dei delitti di cui al comma 1-ter dell'art. 4-bis ord.penit. per i quali opera parimenti il divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione. Tornando alla disciplina dettata dall'art. 656, comma 10 c.p.p. va rammentato che fino alla decisione del Tribunale il condannato permane nello stato detentivo nel quale si trova (vale a dire: continua ad essere sottoposto agli arresti domiciliari, o se si preferisce, continua ad espiare la pena in regime di arresti domiciliari). Il Tribunale di Sorveglianza al quale il Pubblico Ministero ha trasmesso gli atti, all'esito del procedimento in contraddittorio, deve decidere se ammettere o meno il condannato a una misura alternativa; in caso di decisione sfavorevole, secondo le regole generali, il Pubblico Ministero che cura l'esecuzione, previa revoca del decreto di sospensione, emetterà a carico del condannato l'ordine di carcerazione. La Corte non dubita che il magistrato di sorveglianza competente per territorio possa disporre la sospensione degli arresti domiciliari (comunemente definiti nella pratica “esecutivi”) nel caso in cui il condannato abbia violato le prescrizioni inerenti a questo regime restrittivo (es. allontanamento arbitrario dal luogo di custodia), fermo restando l'obbligo di trasmettere gli atti al Tribunale al quale spetta la decisione definitiva in merito alla concessione di una misura alternativa (viene così confermato l'orientamento espresso da Cass. pen., Sez. I, 6 giugno 2012, n.40256, Nuvoletta, in C.E.D. Cass., n. 253402).
La seconda questione viene risolta negativamente: secondo la sentenza in commento l'art. 51-ter ord.penit. regola il solo procedimento di revoca della misura alternativa alla quale il condannato sia stato ammesso in via ordinaria dal Tribunale di Sorveglianza e pertanto non può trovare applicazione, neppure in via analogica, al di fuori di questa ipotesi. Il termine perentorio di 30 giorni stabilito dalla predetta norma pertanto non opera in caso sospensione degli arresti domiciliari c.d. esecutivi. L'instaurazione del procedimento di revoca di una misura alternativa alla detenzione trova il suo fondamento sostanziale nella realizzazione da parte del condannato di condotte contrarie alla legge o alle prescrizioni imposte tali da risultare incompatibili con la prosecuzione della misura. La revoca della misura comporta il ripristino dell'esecuzione della pena in regime carcerario: essa presenta pertanto una evidente connotazione sanzionatoria (correlata alla realizzazione di condotte contrarie alla legge o alle prescrizioni imposte al condannato), aspetto che viene accentuato dall'operatività della preclusione di cui all'art. 58-quater ord.penit., preclusione avente ad oggetto il divieto triennale di concessione di benefici penitenziari collegata alla revoca di una misura alternativa. La competenza a decidere in merito alla revoca è riservata al Tribunale che, per effetto della riforma attuata col d.lgs. 2 ottobre 2018, n.123, può eventualmente decidere di disporre in luogo della revoca, la sostituzione della misura alternativa già concessa (es. affidamento in prova) con una maggiormente contenitiva (es. semilibertà). L'instaurazione del procedimento di revoca avviene su impulso del magistrato di sorveglianza che sovraintende all'esecuzione della misura alternativa nel presupposto che sia stata acquisita la notizia che il condannato ha posto in essere comportamenti suscettibili di determinare la revoca della misura che gli era stata concessa. L'atto di impulso del procedimento di revoca può essere o meno qualificato dalla emissione di un provvedimento coercitivo con il quale il magistrato ordina l'accompagnamento in carcere del condannato: in questo secondo caso la norma prevede che il magistrato di sorveglianza disponga con decreto motivato la “provvisoria sospensione” della misura. Tale provvedimento, continua l'art. 51-ter ord.penit., perde efficacia se la decisione del Tribunale non interviene entro trenta giorni dalla ricezione degli atti: ne consegue che, decorso tale termine, il condannato dovrà essere scarcerato con conseguente ripristino dell'esecuzione della pena in regime di misura alternativa fino alla decisione del Tribunale che potrà comunque disporre la revoca.
Le ragioni addotte dalla sentenza in commento per escludere l'applicabilità del termine perentorio di 30 giorni alla sospensione degli arresti domiciliari esecutivi ex art. 656, comma 10 c.p.p. sono due. In primo luogo la Corte richiama la natura cautelare del provvedimento di sospensione degli arresti domiciliari esecutivi, in secondo luogo evidenzia la differenza che intercorre, sotto il profilo dell'oggetto, tra il procedimento di revoca ed il procedimento prefigurato dall'art. 656, comma 10, c.p.p. In ordine al primo punto la Corte (richiamandosi ai principi enunciati da Cass. Sez. I,14 settembre 2018, n.57540, D'Antonio, in C.E.D. Cass. n. 276599) afferma che la sospensione degli arresti domiciliari esecutivi adottata dal magistrato di sorveglianza costituisce espressione del potere cautelare illo tempore esercitato dal giudice della cognizione con l'adozione del provvedimento applicativo degli arresti domiciliari. In questa prospettiva la Corte afferma che “caratteristica coessenziale all'esercizio di ogni attribuzione cautelare è la doverosità del suo costante adattamento alle necessità imposte dalla modificazione delle situazioni nel tempo. Il potere cautelare si giustifica, anche in materia penale, in relazione all'esigenza di preservare la fruttuosità dell'emananda pronuncia, sia essa ampliativa o restrittiva dell'ambito della libertà personale. Esso è inoltre strettamente calibrato sui profili inerenti la pericolosità sociale della persona e il suo grado”. Pertanto se nel corso degli arresti domiciliari c.d. esecutivi sopravvengono fatti che “contraddicono la prognosi favorevole già posta alla base del provvedimento cautelare adottato nel processo di cognizione sorge altresì il pericolo che il suo mantenimento metta in pericolo la sicurezza sociale, al giudice competente per la fase di esecuzione della condanna, nel frattempo divenuta irrevocabile, non può essere sottratta la possibilità di adottare provvedimento cautelari di rigore, fino alla revoca del regime di arresti domiciliari” fatta salva, in ogni caso, la decisione definitiva di competenza del collegio al quale è riservata la decisione in merito all'applicazione di una misura alternativa. D'altra parte è pacifico che dopo l'irrevocabilità della sentenza in presenza di violazione delle prescrizioni inerenti gli arresti domiciliari esecutivi venga meno la competenza funzionale del giudice della cognizione ad adottare i provvedimenti di cui all'art. 276 c.p.p., pertanto escludere che il magistrato di sorveglianza abbia il potere di intervenire nell'arco di tempo intercorrente tra il passaggio in giudicato della sentenza e la decisione del Tribunale ordinando la sospensione degli arresti domiciliati esecutivi significa creare uno spazio temporale, più o meno ampio, nel corso del quale non sarebbe possibile reagire tempestivamente alle trasgressioni poste in essere dal condannato posto che dovrebbe comunque attendersi la decisione del collegio. Riconoscendo al magistrato di sorveglianza il potere di disporre la sospensione degli arresti domiciliari esecutivi e di ordinare l'accompagnamento in carcere del trasgressore condannato la Corte sembra equiparare la posizione del condannato sottoposto al regime di cui all'art. 656, comma 10, c.p.p. a quello del condannato a beneficio del quale il magistrato di sorveglianza competente ha disposto l'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare. L'art. 47-ter comma 1 quater prevede che il giudice di sorveglianza può disporre all'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare trasmettendo gli atti al Tribunale per la decisione definitiva. Come statuito da Cass. pen., Sez. I, 14 settembre 2018, n.57450, D'Antonio, citata nella motivazione della sentenza in commento, se dopo l'ammissione provvisoria al beneficio il condannato viola le prescrizioni imposte il giudice è legittimato a disporre la sospensione del beneficio ordinandone l'accompagnamento in carcere (ed anche in questo caso la Corte ha escluso l'applicabilità del termine di cui all'art. 51-ter ord.penit. affermando che il procedimento prefigurato dalla norma si applica al solo procedimento di revoca di una misura alternativa alla quale il condannato sia già stato ammesso in via ordinaria dal Tribunale di sorveglianza). Tanto il condannato sottoposto agli arresti domiciliari esecutivi ex art. 656, comma 10 c.p.p. quanto il detenuto che ha beneficiato dell'applicazione provvisoria della detenzione domiciliare si trovano in una “posizione esecutiva” strettamente provvisoria, in caso ope legis, nell'altro in forza di un provvedimento del giudice di sorveglianza, che sarà definita soltanto dalla decisione del Tribunale. Ed è proprio la provvisorietà di tale “posizione esecutiva” che legittima il potere del magistrato di sorveglianza competente per territorio di disporre la sospensione della misura ed ordinare l'accompagnamento in istituto del condannato che ha trasgredito le prescrizioni (anche se, a questo punto, sarebbe forse preferibile definire il provvedimento emesso dal giudice monocratico come vera e propria revoca degli arresti domiciliari esecutivi).
In ordine al secondo punto la Corte evidenzia che mentre il procedimento di revoca è finalizzato a verificare se la violazione (della legge o delle prescrizioni imposte) commessa dal condannato sia compatibile o meno con il mantenimento della misura alternativa già concessa, nel caso previsto dall'art. 656, comma 10 c.p.p. il Tribunale è chiamato a decidere se avuto riguardo alla personalità del reo, alla sua pericolosità e alle prospettive di reinserimento sociale, sussistono o meno le condizioni per l'applicazione di una misura alternativa. È dunque evidente che il procedimento di revoca è connotato da una valenza eminentemente sanzionatoria che, viceversa, non è non rintracciabile nel procedimento che si instaura ai sensi dell'art. 656, comma 10, c.p.p. dopo che il Tribunale ha ricevuto gli atti dal Pubblico Ministero che cura l'esecuzione. Ed è proprio la natura non sanzionatoria di quest'ultimo procedimento che esclude che possa farsi luogo, anche in via analogica all'applicazione dell'art 51-ter ord. penit.. Osservazioni
Il magistrato di sorveglianza è dunque legittimato a disporre la sospensione degli arresti domiciliari esecutivi (e delle misure alternative, affidamento in prova ordinario, affidamento in prova in casi particolari ex art. 94D.P.R. 309/1990 e s.m.i. e detenzione domiciliare eventualmente applicate in via provvisoria al condannato ristretto in carcere) e ad ordinare l'accompagnamento in carcere del trasgressore. Resta ferma la competenza del Tribunale di sorveglianza a decidere in merito all'applicazione di una delle misure alternative previste dall'art. 656, comma 10 c.p.p. (ovvero in merito alla concessione in via definitiva di una misura alternativa applicata in via provvisoria del magistrato di sorveglianza). Il Tribunale non è vincolato al rispetto del termine di cui all'art. 51-ter ord.penit. che riguarda soltanto il procedimento di revoca in senso proprio con la conseguenza che il presidente non è tenuto né a fissare l'udienza camerale nel termine di 30 giorni, né ad anticipare l'udienza eventualmente già fissata in modo da assicurare il rispetto di detto termine. Occorre tuttavia rammentare che in caso di decisione negativa da parte del Tribunale (vale a dire se il collegio ritenga di non ammettere il condannato a nessuna misura alternativa) non potrà trovare applicazione il divieto triennale di concessione di benefici penitenziari di cui all'art 58-quater ord.penit.. Tale preclusione è infatti correlata alla revoca di una misura alternativa già concessa, mentre come detto nel procedimento di cui all'art. 656, comma 10 c.p.p. il Tribunale è chiamato a decidere se applicare o meno una misura alternativa (Cass. Sez. I,6.06.2012, n.40256, Nuvoletta, cit.). Sarebbe dunque giuridicamente errata la decisione con il quale il Tribunale nel definire il procedimento di cui all'art. 656, comma 10 c.p.p. si pronunciasse nel senso della revoca degli arresti domiciliari (d'altra parte sarebbe illogico sostenere che il Tribunale possa revocare un beneficio penitenziario non ancora applicato).
In ordine agli effetti della revoca di una misura alternativa va segnalato che per effetto della sentenza della Corte costituzionalen. 187 del 18 luglio 2019 il divieto triennale di concessione di benefici penitenziari di cui all'art. 58-quater ord.penit. non si applica alla detenzione domiciliare speciale di cui all'art 47-quinquies ord.penit. ed alla detenzione domiciliare di cui all'art 47-ter comma 1, lett.a) e b) ord.penit. La Corte costituzionale, richiamando la propria precedente giurisprudenza (e segnatamente le decisioni n.239 del 2014 e n. 76 del 2017) ha ritenuto che l'automatismo che connota l'operatività della preclusione di cui all'art. 58-quater appare in contrasto con l'interesse del figlio minore a mantenere un rapporto continuativo con i genitori dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione, interesse tutelato dall'art. 31 cost. e dalle norme delle varie convenzioni internazionali alle quali l'Italia ha aderito. Resta ferma, come puntualizzato anche dalla stessa Corte costituzionale, che i benefici de quibus potranno essere negati nel caso in cui sussista un concreto pericolo di commissione di ulteriori reati, “pericolo nel cui accertamento non potrà non tenersi conto della tipologia e della concreta gravità della condotta che ha determinato la revoca della precedente misura. Laddove il Tribunale giunga alla conclusione che un tale pericolo sussista, l'interesse del minore dovrà essere necessariamente salvaguardato con strumenti alternativi rispetto al ristabilimento della convivenza con il genitore, quale, ad esempio, l'affidamento ad un altro nucleo familiare idoneo”. |