L'acquisizione di campioni biologici di confronto al di fuori dei casi previsti dagli artt. 224-bis e 359-bis c.p.p.
06 Dicembre 2019
Abstract
La legge n. 85 del 2009 ha introdotto una disciplina garantita per l'esecuzione di prelievi di materiale biologico dalla persona idonei ad incidere sulla libertà personale, in assenza del consenso dell'interessato. Ma è possibile ricorrere, in fase di indagine, a modalità alternative che consentano di acquisire ugualmente campioni biologici utili per l'espletamento di accertamenti genetici? E, in caso positivo, si possono validamente acquisire tali campioni senza dover rendere edotto l'indagato dell'esistenza di indagini a suo carico, ad esempio acquisendo le tracce di saliva lasciate sul boccaglio dell'alcoltest a cui il medesimo sia stato “opportunamente” sottoposto? Premessa
Nel 1996, a seguito di ordinanza di rimessione del Gip del Tribunale di Civitavecchia emessa nell'ambito del procedimento relativo al noto caso della “Madonna di Civitavecchia”, La Corte Costituzionale, con sentenza n. 238 del 27 giugno 1996, dichiarò l'illegittimità dell'art. 224, comma 2, c.p.p., nella parte in cui consentiva che il giudice, nell'ambito delle operazioni peritali, disponesse misure comunque incidenti sulla libertà personale dell'indagato o dell'imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei "casi" e nei "modi" dalla legge. In tal modo vennero posti fuori legge tutti i prelievi di campioni biologici eseguiti coattivamente sulla persona, ancorché compiuti in ambito peritale e disposti con ordinanza del giudice. In seguito alla pronuncia della Consulta non è stato più possibile dunque eseguire prelievi forzosi di materiale biologico da persona vivente per quasi dieci anni, fino almeno al 2005, quando il legislatore ha, per la prima volta, con la legge n. 155/2005, inserito nel codice delle norme che autorizzavano tali prelievi (ossia il comma 2-bis dell'art. 349 c.p.p. e il comma 3, ult. per., dell'art. 354 c.p.p.), sia pure solo nella fase delle indagini. Nel frattempo si è provato a rimediare al vuoto normativo con qualche accorgimento investigativo volto ad acquisire diversamente i campioni biologici di confronto, anche grazie all'avallo della Suprema Corte, che ha pacificamente ammesso l'utilizzabilità del materiale biologico staccato dal corpo umano, in assenza quindi di un intervento coattivo sulla persona. Soltanto con la legge 30 giugno 2009 n. 85 il legislatore ha colmato il vuoto segnato dalla sentenza della Consulta, prevedendo una disciplina organica e inserendo nel codice di procedura penale, tra le altre norme, gli artt. 224-bis e 359-bis c.p.p., al fine di regolare il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale, quali “il prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA o accertamenti medici”, in assenza di consenso della persona da sottoporre al prelievo. La disciplina introdotta con gli artt. 359-bis e 224-bisc.p.p. - come pure quella di cui all'art. 349, comma 2-bis - dettata per disciplinare il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale, non si applica nel caso in cui l'interessato presti il consenso all'effettuazione del prelievo. In tale evenienza non si pone questione di tutelare la libertà personale. Detti atti possono dunque essere realizzati anche in assenza del difensore, o per l'accertamento di contravvenzioni e delitti colposi - in relazione ai quali sarebbe vietata l'esecuzione coattiva - o, ancora, pure se risultino non indispensabili per la prova dei fatti, come invece richiesto dall'art. 224-bisc.p.p. Si capisce dunque che, in tema di prelievi di campioni biologici dalla persona, la prestazione del consenso da parte dell'interessato, ponendosi quale discrimine tra quelli legittimi e quelli illegittimi, assume un'importanza fondamentale ai fini della valutazione della validità e utilizzabilità dei risultati di prova raggiunti attraverso il prelievo. Si pone allora il problema di appurare le caratteristiche che il consenso deve avere per essere ritenuto valido ed efficace, e in assenza delle quali deve invece essere considerato tamquam non esset, ossia come non dato o inesistente, con conseguente inutilizzabilità del risultato di prova ottenuto mediante l'operazione compiuta in presenza di un consenso di fatto non dato. Da ciò consegue che esso, per essere valido, non solo deve provenire da persona capace di intendere e di volere (v., sul punto, art. 72-bis disp. att. c.p.p.), ma dev'essere anche - prendendo in prestito le categorie elaborate dalla Cassazione civile in tema di responsabilità medica (ex multis: Cass. pen., n. 23676, del 15 settembre 2008, e Cass. pen. n. 21748 del 16 ottobre 2007) - “libero” e “informato”. Tralasciando il caso del consenso (non libero) estorto con violenza fisica o morale, ricorrendo la quale l'accertamento sarebbe all'evidenza eseguito coattivamente (e dovrebbe quindi essere assoggettato alla disciplina introdotta dalla legge n. 85/2009), non sarebbe valido, in quanto non effettivo, il consenso acquisito attraverso la rappresentazione di dati e circostanze non vere e, dunque, sostanzialmente carpito con l'inganno. In tal caso il consenso eventualmente prestato sarebbe all'evidenza non effettivo, viziato, e il prelievo sarebbe eseguito mediante una “coazione morale”, che riporterebbe l'atto sotto il fuoco delle norme che disciplinano i prelievi e gli accertamenti forzosi, con la conseguenza dell'inutilizzabilità dei risultati dell'operazione cionondimeno eseguita, in violazione al disposto degli artt. 224-biso 359-bisc.p.p.. Similmente non sarebbe un consenso valido quello ottenuto serbando un malizioso silenzio su circostanze decisive, inducendo in tal modo l'interessato in errore in relazione alle operazioni che si andranno a compiere. Ecco allora che esso deve essere, oltre che libero, anche “informato” e “consapevole”, ossia preceduto da informazioni corrette in ordine alla facoltà dell'interessato di negare il consenso nonché alla vera natura delle operazioni che si intendono effettuare ed alle loro modalità esecutive. Occorre però chiarire un equivoco in cui di solito si rischia di cadere. Il consenso, per essere validamente prestato, deve essere sì informato, ma l'informazione deve avere ad oggetto l'accertamento stesso e le sue modalità di esecuzione, non anche le sue specifiche finalità (fatta salva la generica indicazione della sua utilità per le indagini). Un esempio per chiarire: se dobbiamo effettuare un prelievo di sangue ed abbiamo bisogno del consenso dell'interessato, non possiamo limitarci a dire a quest'ultimo che inseriremo un ago nel suo braccio, ma dovremo specificare che tale operazione comporterà il prelievo di un certo quantitativo del suo sangue. Per quanto il sacrificio accettato dalla persona sia pressoché identico nell'un caso e nell'altro (considerata la minima quantità di sangue che viene di norma prelevata per le finalità di indagine), nel primo caso nessun consenso sarebbe prestato alla sottrazione della sostanza ematica. In tale ipotesi il prelievo sarebbe viziato fin dall'originee non avremmo dubbi ad ipotizzare l'inutilizzabilità degli accertamenti compiuti avvalendosi di quel campione di sangue. Tuttavia consenso “informato”, nello specifico ambito di cui ci occupiamo, non significa anche che all'interessato debbano essere fornite dettagliate informazioni in ordine alle finalità dell'accertamento medico o prelievo e in merito a tutte le implicazioni connesse e derivate. Tornando all'esempio del prelievo ematico, e ipotizzando che lo stesso debba essere eseguito per indagini tossicologiche, ciò che dev'essere assentita è solamente la sottrazione di una parte del proprio sangue per motivi di indagine, non anche l'indagine in sé, che vive di vita propria e che prosegue il suo corso anche in caso di mancata collaborazione dell'indagato (art. 64, comma 3, lett. b), c.p.p.), e tanto meno i dati e le informazioni che possono essere raccolti attraverso l'accertamento tossicologico. Secondo la Suprema Corte del resto “L'acquisizione di materiale biologico ai fini delle indagini che non comporti modalità coattive deve ritenersi pienamente legittima anche se avvenuta all'insaputa dell'imputato, e il principio va ribadito a maggior ragione quando il prelievo (nella specie, di saliva) sia avvenuto col consenso dell'imputato, restando processualmente privo di rilievo che non gliene sia stata comunicata dagli inquirenti la specifica finalità” (Cass. pen. n. 43002 del 23 ottobre 2008). Ciò non toglie tuttavia che si possano comunque indicare all'interessato le specifiche finalità del prelievo o accertamento medico, sia perché di norma non vi è alcun motivo per non farlo, sia perché, in caso di mancanza di consenso, la conseguente esecuzione coattiva dovrà comunque essere accompagnata dall'indicazione di tali informazioni. A mente degli artt. 224-bis, co. 2, lett. e), e 359-bis, co. 3, c.p.p., infatti, l'ordinanza del giudice - o il decreto urgente del p.m. - deve contenere, a pena di nullità, le ragioni che rendono tali operazioni assolutamente indispensabili per la prova (e dunque anche le finalità del prelievo o accertamento medico). Inoltre poiché il giudice potrebbe trarre argomenti di prova dal rifiuto ingiustificato dell'indagato a sottoporsi al prelievo (in tal senso, ex ceteris: Cass. n. 37108 del 20 settembre 2002, Peddio; n. 42339 del 2 ottobre 2009; e n. 44624 del 8 luglio 2004), la comunicazione delle finalità degli accertamenti appare quanto mai opportuna: il rifiuto ingiustificato opposto dall'indagato potrà in tal caso essere meglio apprezzato dal giudice, in quanto il diniego risulterà correlato anche agli scopi dell'investigazione e non esclusivamente all'invasività dell'operazione. La polizia giudiziaria può sempre validamente acquisire le tracce biologiche provenienti dall'organismo umano ritenute utili per l'accertamento dei fatti e l'individuazione dell'autore, ove rinvenute sulla scena del delitto o su cose pertinenti al reato (art. 354 c.p.p.). Tali tracce possono essere liberamente repertate proprio perché, essendo state “abbandonate” dall'interessato, non richiedono per la loro repertazione che si oltrepassi la barriera fisica dell'individuo. La Corte di Cassazione ha precisato in proposito che la limitazione introdotta dalla Corte Costituzionale, nella citata sentenza n. 238 del 1996, in quanto correlata con la tutela della libertà personale, “non riguarda in alcun modo l'impiego di materiali che, in precedenza legittimamente prelevati, non fanno più fisicamente parte della ‘persona' e non richiedono alcun intervento manipolatorio su di essa o comunque limitativo della sfera di libertà del soggetto” (ex multis:Cass. pen., n. 10958 del 22 giugno 1999, Fata; Conf.: Cass. pen., n. 3037 del 24 maggio 2000, Santoni; e n. 51086 del 7 ottobre 2016, Franchin). Si è quindi riconosciuto che il prelievo del DNA della persona indagata attraverso il sequestro di oggetti contenenti residui organici alla stessa attribuibili (es. spazzolino da denti, indumenti usati, pettine, ecc.) non é qualificabile quale atto invasivo o costrittivo, ed essendo prodromico all'effettuazione di accertamenti tecnici non richiede l'osservanza delle garanzie difensive (Cass. pen., n. 2087 del 10 gennaio 2012, Bardhaj; conf. Cass. pen., n. 8393 del 2 febbraio 2005, Candela); In applicazione di tali principi, sembra doversi affermare la legittimità del repertamento delle tracce biologiche, anche allorché le stesse siano state abbandonate in un contesto favorito o addirittura creato ad arte dagli investigatori (si pensi al repertamento della tazzina di caffè o del bicchier d'acqua “gentilmente” offerti all'indagato negli uffici di polizia giudiziaria). La giurisprudenza di legittimità ha ritenuto del resto legittimo il sequestro di tracce di saliva lasciate su un bicchiere dalla persona sottoposta ad indagini, senza peraltro che potesse rilevare la circostanza che, al fine di acquisire reperti biologici, fosse stata la polizia giudiziaria ad offrire la bevanda, “in quanto nessuna disposizione di legge subordina lo svolgimento delle indagini al consenso dell'indagato, quando non si risolva in violazioni della libertà personale o di altri diritti costituzionalmente garantiti” (Cass. pen., n. 28979 del 11 marzo 2003, Esposito). Né un preteso carattere “subdolo” o “fraudolento” del prelievo di saliva potrebbe far ritenere invasivo il prelievo stesso: invero - osserva la Corte, in un caso in cui erano stati sequestrati un bicchiere e alcuni mozziconi di sigaretta presso gli uffici di polizia dove l'imputato aveva bevuto e fumato – l'art. 189 c.p.p., nel prevedere proprio le prove non disciplinate espressamente dalla legge, riconosce valide e legittime anche “le attività di pedinamento, osservazione e controllo svolte dalla polizia giudiziaria o la acquisizione di videocassette registrate contenenti comportamenti dell'imputato ritratti a sua insaputa, che pure, sotto un certo profilo, potrebbero essere qualificate ‘subdole', ma che comunque non limitano né la libertà personale né quella morale dell'imputato. D'altra parte nel caso in esame non si è trattato neppure di attività atipica poiché, come correttamente rilevato dalla Corte di merito, la acquisizione di oggetti provenienti dall'indagato e da terzi (siano scritti autografi o meno o registrazione di espressioni verbali ovvero anche parti del corpo umano ormai staccate dallo stesso, come capelli lasciati su un pettine o unghie tagliate o indumenti recanti tracce organiche o non della persona che li ha indossati), a fini probatori, costituisce una prova tipica per la quale l'ordinamento ha predisposto lo strumento del sequestro probatorio” (Cass. pen., n. 32925 del 23 giugno 2005, Petriccione, in motivazione). Sono stati poi ritenuti utilizzabili a fini di prova, nei confronti dell'imputato, i campioni di sangue acquisiti nell'ambito degli ordinari accertamenti sanitari effettuati ai sensi dell'ordinamento penitenziario (Cass. n. 24586 del 28 aprile 2005, Pugliese), o i risultati del prelievo ematico effettuato secondo i normali protocolli medici di pronto soccorso, durante il ricovero presso una struttura ospedaliera pubblica a seguito dell'incidente stradale subito in occasione della commissione del reato di guida in stato di ebbrezza alcoolica, trattandosi di elementi di prova acquisiti attraverso la documentazione medica e restando irrilevante, a questi fini, la mancanza del consenso (ex ceteris Cass. pen., n. 37442 del 12 giugno 2003, Carloni; conf. Cass. pen., n. 10286 del 4 novembre 2008, Esposito; nonché, con riferimento all'accertamento del reato di guida in stato di alterazione per l'assunzione di stupefacenti, Cass. pen., n. 26783 del 8 giugno 2006, Usai). Tali arresti hanno trovato conferma anche nella giurisprudenza della Suprema Corte formatasi successivamente all'entrata in vigore della legge n. 85 del 2009: in particolare si è ribadito come “non [sia] necessario ricorrere alla procedura prevista dall'art. 224-bis cod. proc. pen. se il campione biologico sia stato acquisito in altro modo, con le necessarie garanzie sulla provenienza dello stesso e senza alcun intervento coattivo sulla persona” (Cass. pen., n. 48907 del 20 novembre 2013, Costantino). La Corte in questo caso aveva annullato senza rinvio l'ordinanza del Tribunale della Libertà di Chieti che, in accoglimento del ricorso dell'indagato, aveva dichiarato la nullità del sequestro, disposto dal P.M. di Chieti in data 18 aprile 2013, di un mozzicone di sigaretta abbandonato dall'indagato nel posacenere posto nell'ufficio del Comandante della Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Vasto. A fronte della ritenuta violazione delle garanzie difensive poste dall'art. 224-bis cpp, affermata dal Tribunale del Riesame in relazione al prelievo di materiale biologico dal mozzicone (il sequestro era stato disposto a seguito dell'ammissione da parte del GIP di incidente probatorio volto ad estrapolare eventuali profili genetici dai reperti in sequestro), la Corte ha ribadito invece che “non si vede […] in che modo l'assicurare al processo tracce biologiche appartenenti all'indagato avrebbe potuto interferire con le operazioni che doveva disporre il GIP, dovendosi considerare che la procedura prevista dall'art. 224-bis c.p.p., introdotta con la legge 85/2009, deve essere attivata solo quando non vi sia il consenso della persona nei cui confronti deve essere effettuato il prelievo, e quindi non vi è alcuna necessità di ricorrere a detta procedura se sia stato già acquisito in altro modo il campione biologico”. La perquisizione domiciliare volta al repertamento di materiale biologico
Chiarito dunque che l'acquisizione di materiale biologico appartenente all'indagato o a terzi può avvenire liberamente sol che lo stesso si trovi già separato dal corpo umano, si pone ora il problema di verificare se, in applicazione di analogo principio, possa legittimamente eseguirsi una perquisizione, personale o locale, finalizzata a reperire tracce biologiche utili per le necessarie comparazioni. Scrupolosa dottrina ha avanzato in proposito non poche perplessità, ritenendo l'acquisizione occulta di materiale biologico abbandonato dalla persona lesiva della libertà morale (FELICIONI) o della riservatezza (GALGANI) e giungendo persino a ipotizzare l'inutilizzabilità delle tracce biologiche acquisite mediante perquisizione per violazione dei divieti probatori ricavabili dalle norme che presiedono all'esecuzione dei prelievi coattivi, ossia gli artt. 359-bis e 224-bisc.p.p. (CONTI). Si potrebbe anche osservare poi che l'esecuzione di una perquisizione di regola provoca all'interessato sacrifici ben maggiori di quelli derivanti dall'esecuzione di un prelievo coattivo di saliva o capelli: è verosimile infatti che l'indagato preferirebbe vedersi prelevare qualche capello o un po' di saliva, piuttosto che assistere inerme alla perquisizione della propria casa per cercarvi del materiale biologico da sottoporre a sequestro. Riteniamo tuttavia che la polizia giudiziaria - laddove delegata con decreto del pubblico ministero - sia legittimata a procedere alla ricerca di reperti biologici di confronto anche attraverso atti di perquisizione personale e locale. Si tratta del resto di atti che si pongono all'interno degli argini tracciati dall'art. 247 c.p.p. (Casi e forme delle perquisizioni), secondo il quale la perquisizione deve mirare ad acquisire il corpo del reato o cose pertinenti al reato. Essa infatti, pur perseguendo obiettivi analoghi a quelli raggiungibili attraverso il prelievo di un campione biologico dalla persona, è comunque volta, attraverso il compimento di atti non invasivi, ad acquisire “cose pertinenti al reato”, dovendosi qualificare tali tutte quelle cose che servono anche indirettamente ad accertare il reato o il suo autore (ex aliis Cass. n. 12929 del 13 marzo 2007, Minnella). Né attraverso di essa potrebbero verificarsi ulteriori e non previste limitazioni della libertà personale dovute alla realizzazione di atti intrusivi (quali appunto i prelievi di materiale biologico da vivente), perché la perquisizione sarebbe chiaramente finalizzata a sequestrare oggetti recanti tracce biologiche già staccate dal corpo umano - quali pettini, spazzolini da denti, rasoi, indumenti usati - e, dunque, acquisibili in ipotesi anche in assenza dell'indagato cui essi appartengano. La Suprema Corte del resto ha sempre ammesso tale possibilità, ritenendo “legittima la raccolta di qualsiasi elemento probatorio posta in essere tramite il corretto uso del potere-dovere di perquisizione e sequestro, anche se sia finalizzato alla raccolta delle cosiddette tracce biologiche (capelli, sangue, cute, saliva e sperma)” (Cass. n. 25918 del 12 febbraio 2009, Di Paola). Lo stesso legislatore ha poi espressamente previsto la possibilità che la persona possa subire una perquisizione, anche presso la propria abitazione, ove sia necessario acquisire scritture di comparazione, da consegnare al perito o al consulente tecnico per l'esecuzione di un'indagine grafica (vds. in tal senso l'art. 75 disp. att. c.p.p.). Ora, se è ammissibile che sia disposta una perquisizione per la ricerca di scritture di comparazione, verosimilmente utili per l'accertamento dei reati di falsità in atti (espressamente richiamati dalla norma in parola), non sorprende che, a maggior ragione, possa essere consentito un eguale sacrificio per la persona - quale derivante dalla sottoposizione ad una perquisizione domiciliare - per acquisire elementi di comparazione utili per l'accertamento di delitti anche molto più gravi, quali omicidi, violenze sessuali o rapine. Tanto più che l'esigenza di compiere una perquisizione - quale modalità alternativa di apprensione di campioni biologici di confronto - potrebbe derivare dalla sopravvenuta irreperibilità dell'indagato, il quale abbia comunque lasciato propri effetti personali (in ipotesi recanti tracce biologiche) presso l'ultimo suo luogo di dimora: si comprende bene come in simili casi una ricerca mirata in tali luoghi possa rivelarsi l'unica strada percorribile per l'apprensione di oggetti appartenuti all'indagato e recanti le sue tracce biologiche. Merita considerazione a parte il caso in cui ilp relievo sia eseguito ricorrendo ad uno strumento probatorio avente finalità diversa dall'acquisizione di un campione biologico di confronto: ci si riferisce in particolare al caso in cui si sottoponga l'interessato (che sia stato colto alla guida di un veicolo) ad esame alcolimetrico, allo scopo non già di accertare il tasso alcolico dell'aria alveolare dal medesimo espirata, bensì di acquisire tracce di saliva lasciate sul boccaglio dell'apparecchiatura utilizzata e così estrapolare il relativo profilo genetico. Circostanza che si è verificata ad esempio per l'acquisizione di campione biologico di Massimo Giuseppe Bossetti, durante le indagini preliminari per l'omicidio di Yara Gambirasio (sull'argomento vds. sentenza n. 2/17 Corte d'Assise d'appello di Brescia del 17 luglio 2017, dep. 13 ottobre 2017, da p. 161; e sentenza Corte di Cassazione n. 52872, 12 ottobre 2018, dep. 23 novembre 2018, § 5 della motivazione). Si pone in tal caso il problema di comprendere se l'uso strumentale dell'alcoltest, al punto da distorcerne le finalità tipiche, possa comunque garantire l'utilizzabilità delle tracce biologiche in tal modo acquisite. Si potrebbe obiettare che la polizia giudiziaria, piegando lo strumento dell'alcoltest a finalità ad esso estranee, avrebbe agito in modo “subdolo”; l'obiezione tuttavia, per quanto giusta, non sembra insuperabile, non solo perché, come già evidenziato, la modalità “fraudolenta” di esecuzione dell'indagine non è di per sé motivo di illegittimità della stessa, ma soprattutto perché – secondo quanto previsto dalla normativa vigente – la decisione di sottoporre il conducente ad alcoltest è rimessa alla discrezionale valutazione della polizia giudiziaria, non ancorata ad alcun presupposto legittimante: l'art. 186, comma 3, cod. strada prevede infatti che gli operatori di polizia stradale possano sottoporre il conducente ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili, non già in presenza di elementi che suggeriscano lo stato di ebbrezza del conducente o di altri presupposti normativamente indicati (che come tali possano limitare la discrezionalità della polizia giudiziaria operante), bensì “al fine di acquisire elementi utili per motivare l'obbligo di sottoposizione agli accertamenti di cui al comma 4”(ossia gli accertamenti eseguiti mediante gli strumenti – i.e. etilometro – e le procedure determinate dal regolamento del codice della strada - art. 379 d.P.R. n. 495/1992). Stando dunque all'attuale formulazione della normativa in tema di accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza, non pare esservi dubbio in merito alla legittimità della sottoposizione del sospettato ad alcoltest, ancorché lo stesso sia stato artatamente utilizzato – anzitutto – per accertare non già lo stato di ebbrezza del conducente bensì per individuarne il profilo genetico. Il vero problema, secondo noi, investe piuttosto le condizioni di validità del consenso al prelievo. E' chiaro che se, come ritenuto da parte della dottrina, le finalità del prelievo devono essere comunicate all'interessato per garantire la validità del consenso, allora l'omessa esplicitazione delle reali ragioni della somministrazione dell'alcoltest, rendendo inefficace il consenso prestato, renderebbe nulla l'acquisizione del campione biologico in tal modo effettuata, perché eseguita in violazione delle norme che disciplinano i prelievi e gli accertamenti medici idonei ad incidere sulla libertà personale (artt. 224-bise 359-bisc.p.p.). Aggiungiamo poi che a nostro avviso qui il consenso appare viziato non tanto perché non risultano esplicitate le reali finalità del prelievo (condizione che, lo ripetiamo, non ci sembra essenziale per l'espressione di un valido consenso), quanto piuttosto perché il consenso deve necessariamente investire l'oggetto del prelievo: l'interessato in altri termini deve essere reso edotto del fatto che tramite il boccaglio dell'etilometro verrà acquisito un suo campione salivare per estrapolarne il profilo genetico. La sottoposizione dell'indagato ad alcoltest compiuta per tale finalità, infatti, benché apparentemente diretta a verificare la previa assunzione di sostanze alcoliche da parte del conducente, realizza di fatto una modalità peculiare di effettuazione del prelievo di campione salivare. Ora, se riteniamo che tale forma di prelievo sia anche incidente sulla libertà personale, e sia dunque assoggettata alla disciplina di cuiall'art. 359-bisc.p.p., è giocoforza ammettere che l'indagato debba anche essere espressamente informato dell'operazione realmente eseguita, pena l'assenza di un valido consenso e la conseguente necessaria applicabilità delle garanzie previste dall'art. 359-bisc.p.p. (e dall'art. 224-bis, comma 2, c.p.p., in quanto espressamente richiamato) per l'esecuzione di prelievi invasivi in mancanza di consenso dell'interessato. La Suprema Corte, peraltro, chiamata ad esaminare la questione, l'ha superata evidenziando sostanzialmente come la sottoposizione ad alcoltest del conducente e il prelievo delle sue tracce biologiche siano operazioni che avvengono in due momenti distinti, di talché, intervenendo il prelievo su un oggetto (il boccaglio dell'etilometro) ormai abbandonato dal soggetto, non è più necessario acquisirne il consenso per l'effettuazione del prelievo, perché non vi è più questione di incidenza dell'atto sulla libertà personale (v. in tal senso Cass. 52872/2018, Bossetti, cit., che osserva: “in effetti, il boccaglio dell'etilometro è di per sè destinato alla dispersione dopo l'uso, allo scopo di evitare la possibile contaminazione batteriologica di altri individui da sottoporre al medesimo esame, sicchè può essere legittimamente appreso da chicchessia se colui che lo ha utilizzato lo abbandona, così allontanando il campione biologico dalla propria disponibilità, come è avvenuto nel caso di specie”). Al che si aggiunga che, nel caso di specie, era stato successivamente prelevato dalla polizia giudiziaria un nuovo campione biologico dal medesimo soggetto, con le modalità prescritte, ossia previa acquisizione del consenso, di modo che l'eventuale illegittimità del primo prelievo (eseguito somministrando il boccaglio dell'alcoltest al conducente) non avrebbe comunque prodotto effetti. Né, come correttamente osservato dalla Suprema Corte, l'eventuale nullità del primo prelievo avrebbe potuto investire, per invalidità derivata, anche il successivo, essendo il secondo sprovvisto di collegamento con il primo (“non potendosi certo ipotizzare, come invece fa il ricorso, una nullità derivata tra due atti che risultano privi di collegamento sia logico che probatorio”). Resta sul tappeto una ulteriore questione: è necessario che, per l'utilizzabilità di siffatto prelievo, la polizia giudiziaria operante avvisi l'indagato della facoltà, riconosciutagli dal combinato disposto degli artt. 356 c.p.p. e 114 disp. att. c.p.p., di farsi assistere dal difensore che prontamente intervenga sul luogo in cui si effettuano gli accertamenti urgenti? In effetti non vi è dubbio che il rilievo del tasso alcolemico dell'aria alveolare espirata dal conducente costituisca accertamento urgente ex art. 354 c.p.p., trattandosi di accertamento che deve essere eseguito senza ritardo ai fini della prova del reato di cui all'art. 186 C.d.S.. Tuttavia, come ben osservato dalla Corte d'Assise d'appello di Brescia nel processo per l'omicidio di Yara Gambirasio, il prelievo di tracce biologiche dall'indagato (ancorché eseguito con le particolari modalità ora descritte) non costituisce affatto accertamento urgente, potendo lo stesso essere sempre ripetuto in un secondo momento, senza pericolo di alterazione o modifica dei dati raccolti, di talché all'indagato non spettano le garanzie difensive invece riconosciute per l'espletamento degli accertamenti urgenti su cose soggette ad alterazione o modificazione. In conseguenza possiamo concludere che, nel caso all'indagato non sia dato l'avviso della facoltà di farsi assistere dal difensore, sarà senz'altro nullo l'accertamento del tasso alcoolemico in tal modo eseguito (nullità che, essendo a regime intermedio, dovrà comunque essere eccepita, ex art. 180 c.p.p., prima della deliberazione della sentenza di primo grado, giusta Cass. pen., SU, n. 5396 del 29 gennaio 2015, Bianchi), ma non sarà per questo nullo – e quindi inutilizzabile – anche il prelievo delle tracce biologiche. In conclusione
Il panorama normativo e giurisprudenziale sin qui brevemente esaminato ha messo in luce come gli organi inquirenti possano legittimamente ricorrere a modalità di acquisizione di campioni biologici alternative a quelle dettate dagli artt. 359-bis e 224-bis c.p.p., purché gli stessi siano acquisiti con il consenso dell'interessato, oppure, in mancanza di consenso, purché abbiano ad oggetto materiale già staccato dal corpo della persona. Possono pertanto acquisirsi validamente materiale e tracce utili per gli accertamenti sul DNA, prelevati non solo sulla scena del delitto o dal corpo del reato, ma anche da oggetti abbandonati dall'interessato, poco importa se tali oggetti (tazzina, bicchiere, sigaretta, etc.) siano stati strumentalmente offerti o somministrati all'indagato senza renderlo edotto delle reali finalità dell'atto, o se siano stati acquisiti nel corso dell'esecuzione di una perquisizione disposta proprio per tale scopo. Riteniamo peraltro che debba farsi eccezione a tale regola generale, nel caso di prelievo eseguito mediante somministrazione di alcoltest ad indagato sorpreso alla guida di un veicolo e successiva apprensione del boccaglio impiegato per l'accertamento (rectius: delle tracce di saliva ad esso rimaste adese), in quanto, a dispetto di quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità nel caso Bossetti, il prelievo appare in tale ipotesi viziato per mancanza di valido consenso dell'interessato e, per l'effetto, nullo ex art. 359-bis, comma 3,c.p.p., non essendo state adottate le garanzie previste dalla norma in parola per l'effettuazione di prelievi invasivi in assenza di consenso. Ilaria Boiano, L'obbligo di informazione sulle finalità del prelievo di campioni organici, in Cass. pen., 11/2009, p. 4349; Alberto Camon, La prova genetica tra prassi investigative e regole processuali, in Proc. Pen. Giust., 6/2015, p. 165; Carlotta Conti, I diritti fondamentali della persona tra divieti e ‘sanzioni processuali': il punto sulla perizia coattiva, in Dir. Pen. Proc., 8/2010, p. 993; Chiara Fanuele, L'acquisizione occulta di materiale biologico, in A. Scalfati (a cura di), Le indagini atipiche, Giappichelli, 2014, p. 311; Paola Felicioni, Accertamenti sulla persona e processo penale. Il prelievo di materiale biologico, Ipsoa, 2007; Paola Felicioni, Questioni aperte in materia di acquisizione e utilizzazione probatoria dei profili genetici, in C. Conti (a cura di), Scienza e processo penale, Giuffrè, 2011, p. 143; Guglielmo Leo, Il prelievo di materiale biologico nel processo penale e l'istituzione della banca dati nazionale del DNA, in Riv. It. Med. Leg., 4-5/2011, p. 931; Benedetta Galgani, Libertà personale e ‘raccolta' di campioni biologici: eccessi di zelo difensivo o formalismi della Suprema Corte?, in Riv. It. Dir. Proc. pen., 2008, p. 1819; Silvia Salardi, DNA ad uso forense: paladino di giustizia o reo di ingiustizie?, in Riv. it. Med. Leg. 6/2011, p. 1359; Paolo Tonini, Informazioni genetiche e processo penale ad un anno dalla legge, in Dir. Pen. Proc. n. 7/2010, p. 883.
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