Riciclaggio e autoriciclaggio da frode fiscale e reati tributari
13 Dicembre 2019
Abstract
Il progressivo allargamento della nozione di profitto illecito anche ai risparmi di imposta frutto di precedenti violazioni finanziarie comporta rilevanti conseguenze anche in tema di identificazione delle successive condotte di riciclaggio. Il parallelo allargamento della nozione di profitto riciclabile può determinare interpretazioni estensive sotto il profitto della individuazione delle condotte illecite oggi punibili anche a titolo di autoriciclaggio exart. 648-ter.1 c.p., soprattutto in relazione al reinvestimento dei risparmi fiscali illeciti in attività di impresa che possono destare perplessità.
Secondo un orientamento tradizionale per lungo tempo prevalente le attività punibili a titolo di riciclaggio devono essere poste in essere sul denaro, sui beni o su altre utilità di segno positivo conseguenti la consumazione del delitto presupposto; il fondamento di tale impostazione pare ricavabile dalla nozione di provento illecito contenuta nella Convenzione di Strasburgo del 2000 che nella definizione di tale elemento fa espresso riferimento a ogni vantaggio economico derivato da reati. Con tale definizione è evidente come l'oggetto materiale del riciclaggio e del reimpiego non può che essere costituito da un accrescimento del patrimonio dell'autore del delitto presupposto sul quale vengono poi operate le condotte di sostituzione od occultamento. Ed è solo la condotta che viene posta in essere su quel determinato accrescimento patrimoniale ad essere punibile purché abbia carattere dissimulatorio. Quindi, l'orientamento tradizionale vuole indubbiamente sottolineare lo stretto collegamento che deve sussistere tra profitto illecito del reato presupposto ed attività riciclatoria; la punibilità della condotta consegue necessariamente l'attività di sostituzione o trasformazione di quel profitto illecito poiché è solo attraverso detta condotta che si attua l'aggressione all'ordine pubblico economico che è il bene giuridico tutelato dalle norme di cui agli artt. 648-bis e 648-ter c.p. L'identificazione del risparmio da evasione di imposta come profitto illecito riciclabile nella normativa sovranazionale
Il tema più interessante relativo alla individuazione della tipologia dei reati produttivi di profitto illecito riciclabile riguarda certamente i casi in cui il delitto presupposto non sia produttivo di un attivo finanziario bensì integrato soltanto da un risparmio di spesa; in questi casi, infatti, sembra mancare quell'evento naturalistico costituito dalla realizzazione di un profitto illecito su cui interviene l'attività di sostituzione od occultamento punibile, poiché, per definizione, unacondotta che sia consistita in una omissione di pagamenti dovuti non è idonea a “creare” il profitto illecito riciclabile. Tale soluzione tradizionale appare però dimenticare che anche attraverso l'impiego del risparmio di spesa che si realizzi attraverso una condotta illecita possono compiersi condotte di alterazione dell'ordine pubblico economico. Proprio sulla base di tali fondamentali considerazioni, il panorama normativo sovranazionale è profondamente mutato; nel 2012, il Gruppo d'Azione Finanziario Internazionale (GAFI), ha emanato 40 nuove raccomandazioni, che rappresentano un vero e proprio “assalto” al riciclaggio ed al finanziamento del terrorismo ampliando notevolmente l'area delle condotte punibili. Queste nuove raccomandazioni sono la revisione delle prime presentate il 7 febbraio 1990, ed aggiornate nel 1996 e nel 2003 dall'Organismo Intergovernativo costituito presso l'ONU; al GAFI è infatti assegnato il compito di supervisione ed implementazione delle norme antiriciclaggio ed antiterrorismo degli Stati membri. Le raccomandazioni non hanno valore di vere e proprie norme giuridicamente vincolanti, ma hanno comunque rilievo sulla strategia complessiva dei controlli; la valenza del GAFI, infatti, non è solo quella di “moral suasion”, ma prevede che le eventuali valutazioni critiche sulle legislazioni antiriciclaggio dei paesi ispezionati vadano a costituire una sorta di rating negativo, producendo di fatto l'emarginazione del paese censurato dall'elenco degli Stati collaborativi. Orbene, tra le novità di maggiore rilievo contenute nel documento del 2012 vi è proprio l'espressa previsione alla terzaraccomandazione che siano previsti il maggior numero possibile di reati presupposto della fattispecie di riciclaggio. Con la successiva Direttiva 20 maggio 2015 del Parlamento Europeo tale raccomandazione ha trovato il suo riscontro normativo; la Direttiva espressamente dedicata “alla prevenzione dell'uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio…”prevede espressamente che “È importante evidenziare esplicitamente che, in linea con le raccomandazioni riviste del GAFI, i «reati fiscali» connessi alle imposte dirette e indirette rientrano nell'ampia definizione di «attività criminosa» ai sensi della presente direttiva”. L'espressa previsione contenuta nella Direttiva non può pertanto che eliminare ogni dubbio perché a partire da detta previsione i reati fiscali possono costituire il reato presupposto delle condotte riciclatorie e poiché tra le suddette fattispecie prevalgono quelle di omesso versamento delle imposte appare evidente che anche un risparmio di spesa è divenuto profitto illecito. Parallelamente all'evoluzione normativa anche la giurisprudenza ha mutato orientamento quanto alla identificazione e individuazione del profitto riciclabile in caso di illecito risparmio di spesa. Con un primo intervento della Corte di legittimità sul tema si è affermato che soltanto le contravvenzioni ed i delitti colposi non possono costituire il presupposto di quello di riciclaggio; ne consegue che tutti i delitti dolosi, e quindi anche quello di frode fiscale, sono idonei a fungere da reato presupposto del riciclaggio (Cass. pen., n. 6061/2012). In questa occasione la Corte Suprema ha precisato che il riferimento dell'art. 648-bisc.p. alle altre utilità ben può ricomprendere il risparmio di spesa che l'agente ottiene evitando di pagare le imposte dovute, poiché esso produce un mancato decremento del patrimonio che si concretizza in una utilità di natura economica. In motivazione si precisa che la tesi negativa secondo cui il reato di frode fiscale non può rientrare fra i reati presupposto perché la frode fiscale non determinerebbe alcun accrescimento del patrimonio dell'agente (nel senso che dalla consumazione del reato non deriverebbero denaro, beni o altra utilità oggetto del successivo riciclaggio) ma solo un non impoverimento del patrimonio, limitandosi ad impedire la perdita, ancorché giusta, di un bene (rectius: denaro) legittimamente posseduto, viene smentita dalla già analizzata evoluzione storica della norma in esame che mette in evidenza come il legislatore, con le riforme della fattispecie dell'art. 648-bis c.p., abbia ampliato non solo il numero dei reati presupposto, ma anche la condotta incriminabile e lo stesso oggetto del reato, passando dalla semplice sostituzione di "denaro o valori" alla sostituzione o trasferimento di denaro, beni o altre utilità. Si è così affermato che con tale amplissima ed ellittica formula, è del tutto evidente che il legislatore ha inteso colpire, con il delitto di riciclaggio, ogni vantaggio derivante dal compimento del reato presupposto, tant'è che ha adoperato la locuzione altre utilità come una sorta di clausola di chiusura rispetto al denaro e beni, proprio per evitare che potessero sfuggire dalle maglie della repressione penale utilità (qualunque esse fossero) derivanti dal reato presupposto e delle quali l'agente, grazie all'attività di riciclaggio posto in essere da un terzo, potesse usufruirne. In altri termini, la locuzione altre utilità è talmente ampia che in esse devono farsi rientrare tutte quelle utilità che abbiano, per l'agente che abbia commesso il reato presupposto, un valore economicamente apprezzabile. Così interpretata la locuzione altre utilità, è chiaro che in esse devono farsi rientrare non solo quegli elementi che incrementano il patrimonio dell'agente ma anche tutto ciò che costituisca il frutto di quelle attività fraudolente a seguito delle quali si impedisce che il patrimonio s'impoverisca: il che è quanto accade quando viene perpetrato un reato di frode fiscale a seguito del quale l'agente, evitando di pagare le imposte dovute, consegue un risparmio di spesa che si traduce, in pratica, in un mancato decremento del patrimonio e, quindi, in una evidentissima e solare utilità di natura economica. Posto infatti che secondo la costante giurisprudenza dellaCorte di cassazione costituisce profitto dei reati tributari la somma corrispondente all'imposta evasa, sicché, ai sensi della L. finanziaria n. 244 del 2007, art. 1, comma 143, se ne ammette il sequestro preventivo finalizzato alla successiva confisca, il profitto che l'agente ricava dai reati tributari non può che essere una concreta utilità economica suscettibile di essere riciclata al fine di ostacolarne la provenienza delittuosa e sottrarla alla pretesa impositiva dello Stato. In conclusione, si afferma che la locuzione altre utilità di cui all'art. 648 bis c.p. dev'essere intesa come tutte quelle utilità che abbiano, per l'agente che abbia commesso il reato presupposto, un valore economicamente apprezzabile. In esse devono farsi rientrare non solo quegli elementi che incrementano il patrimonio dell'agente ma anche quelle attività fraudolente a seguito delle quali l'agente impedisce che il proprio patrimonio s'impoverisca. Di conseguenza, rientra fra i reati presupposto anche il reato di frode fiscale a seguito del quale l'agente, evitando di pagare le imposte, consegue un risparmio di spesa che si traduce in un mancato decremento del patrimonio e, quindi, in una evidente utilità di natura economica. Il reato di frode fiscale e gli altri reati tributari che determinano un risparmio di spesa
Stabilito quindi che anche i reati fiscali possono creare profitto riciclabile, il tema decisivo diviene quello della individuazione dei profitti illeciti di tali particolari previsioni delittuose alle quali spesso non consegue un “attivo” illecito bensì un risparmio di spesa. Brevemente e senza alcun carattere esaustivo, va ricordato come ai sensi dell'art. 1 lett. f) del d.lgs.74/2000per imposta evasa si intende la differenza tra l'imposta effettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione, ovvero l'intera imposta dovuta nel caso di omessa dichiarazione, al netto delle somme versate dal contribuente o da terzi a titolo di acconto, di ritenuta o comunque in pagamento di detta imposta prima della presentazione della dichiarazione o della scadenza del relativo termine. L'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 74/2000 puniscechiunque, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto elementi passivi fittizi. L'art. 8d.lgs. n. 74/2000, che si ricollega alla fattispecie del predetto art. 2 sanziona con la reclusioneil comportamento di chi emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Con la realizzazione delle ipotesi sopradescritte, il contribuente, quindi, incrementa gli elementi negativi di reddito rilevanti anche ai fini IVA e procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio, ossia quello di abbattere il carico fiscale ed evadere le imposte, con danno altrui, ovvero, in tal caso, con danno nei confronti dello Stato. Tale ingiusto vantaggio costituito dall'abbattimento del carico fiscale diviene profitto illecito sul quale operare attività riciclatorie. Il successivo art. 4 d.lgs. n. 74/2000 intitolato Dichiarazione infedele prevede espressamenteche sia punito con la reclusione chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente: a)l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centocinquantamila; b)l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro tre milioni. Ancora, integra il reato di cui all'art. 5 d.lgs. n. 74/2000(Omessa dichiarazione),chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila. Al proposito, occorre ricordare come sia stato affermato che (Cass. pen., n. 17535/2019) in tema di reati tributari, il profitto di delitti consistenti nell'evasione dell'imposta per mezzo di omessa, infedele o fraudolenta dichiarazione o di omesso versamento, che può essere oggetto di sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, è costituito dal risparmio economico derivante dalla sottrazione degli importi evasi alla loro destinazione fiscale e non comprende anche le sanzioni dovute a seguito dell'accertamento del debito, che rappresentano, invece, il costo del reato stesso, derivante dalla sua commissione. È escluso quindi che l'importo risparmiato in conseguenza del mancato pagamento di interessi e sanzioni possa costituire profitto riciclabile. Orbene, sul tema dell'individuazione dell'imposta evasa che costituisce come in precedenza riferito profitto illecito suscettibile di riciclaggio è stato anche precisato come (Cass. pen., n. 37335/2014 e Cass. pen., n. 50157/2018) in materia di reati tributari, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di determinare l'ammontare dell'imposta evasa, da intendersi come l'intera imposta dovuta e non versata, suscettibile dapprima di sequestro e, poi, di confisca, in base a una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dal giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria. Tale essendo lo stato dell'interpretazione giurisprudenziale, l'applicazione dei principi affermati dalla già indicata giurisprudenza in tema di riciclaggio da frode fiscale al nuovo reato di autoriciclaggio può dirsi scontata; posto infattiche l'autore del delitto presupposto di natura fiscale crea un risparmio di spesa individuabile quale altra utilità rientrante nella nozione di profitto illecito, ed accertato che anche il delitto di cui all'art. 648-ter.1 c.p. richiama la nozione decisiva di altra utilità per farvi rientrare anche i profitti dei reati finanziari, in astratto non può esservi dubbio della punibilità anche a tale titolo. Ciò significa che, quanto meno in astratto, sia gli autori dei delitti di frode fiscale, che di omessa dichiarazione, che didichiarazione infedele divengono punibili a titolo di art. 648-ter.1 c.p. ove alle condotte suddette siano seguite ulteriori impieghi in attività economiche finanziarie o speculative, idonei in concreto ad ostacolare l'identificazione dell'attività delittuosa del profitto da evasione reimpiegato. Evidente appare la differenziazione della suddetta progressione criminosa rispetto a quella del riciclaggio da reato tributario; in quest'ultimo caso, infatti, è sempre un terzo che interviene ad effettuare l'operazione di occultamento o sostituzione del profitto illecito da evasione così che, proprio questa differenziazione soggettiva, comportando un trasferimento rende la condotta illecita autonoma rispetto alla consumazione del reato presupposto e di più facile individuazione. Nel caso invece dell'autoriciclaggio posto in essere sull'imposta evasa a seguito di consumazione di un reato tributario tale differenziazione soggettiva non vi è; autore del reato finanziario e riciclatore coincidono con la conseguenza delle evidenti difficoltà connesse all'individuazione del tempo della condotta illecita punibile ex art. 648-ter.1 c.p. ed alla individuazione dell'oggetto materiale del reato. Difatti la generalizzata applicazione del principio della riciclabilità del risparmio di spesa da evasione fiscale penalmente rilevante ovvero da frode fiscale all'autore dello stesso reato tributario, appare criticabile nella misura in cui mancando un'operazione su un profitto illecito attivo la punibilità potrebbe essere estesa sino a colpire ogni attività compiuta post delitto finanziario su una qualsiasi parte del patrimonio dell'autore del delitto presupposto. Accertata la consumazione del reato tributario ogni successivo investimento operato dall'autore di tale delitto potrebbe risultare perseguibile a titolo di autoriciclaggio poiché avente ad oggetto il profitto illecito costituito dall'illecito risparmio di spesa. Talepossibilità invero non è totalmente estranea allo stato dell'attuale interpretazione sul concetto di profitto illecito;si ricordi, infatti, che intervenute sul punto le Sezioni Unite hanno dato aderito alla più ampia concezione del profitto da reato quando lo stesso sia costituito da forme monetarie. Si è difatti assunto (Cass. pen., Sez.Unite. n. 31617/2015) che il profitto del reato si identifica con il vantaggio economico derivante in via diretta ed immediata dalla commissione dell'illecito con la conseguenza di ritenere che qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Cass. Sez.U. cit.). La natura fungibile del bene, che, come sottolineato dalle Sezioni Unite Lucci, si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell'autore del fatto, è tale da perdere - per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo - qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica, rende superfluo accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell'illecito sia stata spesa, occultata o investita; "ciò che rileva", proseguono le Sezioni Unite, è che "le disponibilitàmonetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell'interesse del reo". In sostanza, la natura fungibile del denaro, determinando la confusione del profitto illecito nel patrimonio, comporta la possibilità di ritenere che detto profitto è destinato a confondersi con le altre disponibilità economiche del reo, con la possibilità pure riconosciuta di procedere a confisca diretta senza necessità della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato (Cass. pen., n.23393/2017). Pare evidente come l'applicazione generalizzata di una siffatta soluzione finirebbe per collegare automaticamente la contestazione di autoriciclaggio alla consumazione del delitto presupposto di natura tributaria da parte di ogni persona fisica come tale ovvero quale legale rappresentante di enti; compiuto il reato tributario, ne deriva un illecito risparmio di imposta qualificabile come profitto illecito, ed ogni successiva attività che costituisca impiego economico, finanziario o speculativo su una qualsiasi parte del patrimonio monetario del soggetto diviene punibile ex 648-ter.1 c.p. L'obiezione a tale soluzione risulta però già avanzata e sostenuta da parte della dottrina; così facendo non si colpirebbe più con la contestazione dell'autoriciclaggio l'attività di sostituzione di quel profitto illecito derivante dal reato presupposto bensì qualsiasi attività di impiego del patrimonio dell'autore del reato tributario. Ed allora sotto il profilo delimitativo della condotta punibile a titolo di autoriciclaggio da reato fiscale si sottolinea che il vantaggio economico di cui si tratta comunque deve risultare identificabile prima della vicenda criminosa alla base del riciclaggio e non, come opportunamente ricordato, ricavarsi solo successivamente; il requisito della provenienza da delitto richiede che tali utilità preesistano al ritenuto delitto presupposto e presentino dunque una loro riconoscibilità ex ante (A. Gullo, Autoriciclaggio e reati tributari, in Dir. pen. contemp.). Certamente un imponente effetto limitativo di tale possibilità generalizzata di contestazione dell'autoriciclaggio all'autore del delitto presupposto di natura tributaria, può trarsi anche dai primi interventi giurisprudenziali tesi ad identificare la concreta natura della condotta punibile ex art. 648-ter.1 c.p. Ci si riferisce in particolare a quelle pronunce secondo cui non integra il delitto di autoriciclaggio il versamento del profitto di furto su conto corrente o su carta di credito prepagata, intestati allo stesso autore del reato presupposto e ciò perché tale deposito non può considerarsi, secondo le indicazioni rispettivamente fornite dall'art. 2082 cod. civ. e dall'art. 106 del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, come attività "economica" o "finanziaria", e non costituisce comunque, a mente dell'art. 648-ter1 c.p., attività idonea ad occultare la provenienza delittuosa del denaro oggetto di profitto (Cass. pen., n. 33074/2016). Ancora si è sottolineato come non integra la condotta di autoriciclaggio il mero trasferimento di somme, oggetto di distrazione fallimentare, a favore di imprese operative, occorrendo a tal fine un "quid pluris" che denoti l'attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene (Cass. pen., n. 38919/2019). Ancora di rilievo deve ritenersi quella pronuncia che ha escluso la possibilità di ritenere il concorso formale tra reato presupposto ed autoriciclaggio sottolineando come la condotta punibile ex art. 648-ter.1 c.p. deve seguire necessariamente ed autonomamente la realizzazione del delitto presupposto; si sostiene al propositoche ai fini di evitare la doppia punibilità della medesima condotta infatti il legislatore, con la introduzione della fattispecie di cui all'art. 648-ter.1 c.p., ha chiesto che a seguito della consumazione del delitto presupposto vengano poste in essere ulteriori condotte aventi natura decettive peraltro solo costituite da impiego in attività economiche o finanziarie. Ora se si esaminano congiuntamente gli esiti di questi interventi, tutti evidentemente tesi alla limitazione della individuazione delle condotte punibili ex art. 648 ter 1 c.p. nel rispetto del canone fondamentale del ne bis in idem sostanziale, possono trarsi insegnamenti da applicare specificamente anche al caso dell'autoriciclaggio successivo la consumazione del reato tributario che procuri una imposta evasa. Innanzi tutto, è da escludere che alla consumazione del reato presupposto che procuri un risparmio di imposta possa ricollegarsi automaticamente anche la violazione dell'art. 648-ter.1 c.p. ed in ogni casociò è da escludere anche se a seguito della realizzazione di un profitto illecito da evasione, parte del patrimonio monetario venga trasferito su conti dello stesso autore del fatto ovvero su di esso vengano compiute attività che non abbiano specifico carattere dissimulatorio. Così delimitato il campo delle ipotesi punibili si eviterebbe la generalizzata possibilità di una indiscriminata contestazione di autoriciclaggio a fronte della consumazione di reati tributari che abbiano determinato un risparmio dell'imposta evasa a seguito di qualsiasi operazione economico o finanziaria compiuta su parte del proprio patrimonio da parte dell'autore del reato presupposto; per essere punibile ex art. 648-ter.1 c.p. la condotta dell'autore del reato tributario deve essere necessariamente successiva la realizzazione di un determinato profitto illecito ed avere ad oggetto proprio il denaro frutto del risparmio fiscale illecito con preciso nesso di derivazione causale.Altrimenti non essendo possibile l'identificazione del dolo sul profitto illecito che deve necessariamente precedere il momento consumativo del reato; poiché l'autoriciclatore deve avere commesso il reato fiscale ricavandone quel profitto negativo che prospettava impiegare in attività economiche, finanziarie o speculative. Gli ulteriori arresti giurisprudenziali sulla individuazione del profitto illecito da reato tributario e le conseguenze in tema di autoriciclaggio
Una reazione alla indiscriminata possibilità di ravvisare un profitto illecito riciclabile a fronte di ogni operazione che comporti un risparmio di spesa da evasione fiscale penalmente rilevante, va ravvisata anche in quei recenti orientamenti che si sono espressi non in relazione alle condotte di autoriciclaggio bensì con riferimento alla individuazione del profitto illecito da reato tributario. Intervenendo sui temi connessi della sequestrabilità ai fini della confisca diretta di somme di denaro rinvenute nel possesso dell'autore del delitto tributario, si è dapprima affermato in tema di omesso versamento delle ritenute, di cui all'art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, l'insussistenza dei presupposti per il sequestro e la successiva confisca di somme di denaro certamente depositate successivamente al momento di perfezionamento del reato e ciò perché la natura fungibile del denaro non consente la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, ove si abbia la prova che le stesse non possono in alcun modo derivare dal reato e costituiscano, pertanto, profitto dell'illecito (Cass. pen., n.8995/2017 dep. 2018). Quindi, la prova della sopravvenienza delle somme nel patrimonio dell'autore del reato tributario rispetto al momento consumativo dello stesso, spezza il nesso di fungibilità assoluta ed impedendo la qualificazione di tali attivi quali profitto illecito impedisce anche la possibilità di ritenere che gli stessi siano autoriciclabili. E la stessa affermazione è stata ribadita anche in relazione al delitto di reato di omessa dichiarazione di cui all'art. 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in cui è stato escluso che le somme di denaro depositate sul conto corrente dopo la scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione IVA potessero rappresentare il profitto derivante dall'evasione fiscale (Cass. n.41104 del 12/07/2018),sempre sulla base dell'argomentazione che, in ogni caso, la natura fungibile del denaro non consente la confisca diretta delle somme depositate su conto corrente bancario del reo, ove si abbia la prova che le stesse, non derivando dal reato, non costituiscano profitto dell'illecito. Tuttavia mentre le sopra citate pronunce si sono mosse sul sentiero dell'inversione dell'onere probatorio, essendo evidente che incorrerebbe sull'indagato-imputato la dimostrazione positiva della successiva acquisizione delle somme di denaro rispetto al momento consumativo del reato tributario che esclude la confisca diretta, una più recente affermazione (Cass. n.6348 del 04/10/2018 dep.2019) sembra attribuire uno spazio ancora più limitato alla individuazione del profitto illecito da reato tributario. Si è difatti affermato come in tema di reati tributari, ai fini della confisca diretta delle somme sequestrate sul conto corrente bancario dell'imputato, la natura fungibile del denaro non è sufficiente per qualificare come "profitto" del reato l'oggetto del sequestro, essendo necessario anche provare che la disponibilità delle somme, successivamente sequestrate, costituisca un risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell'imposta; ed in motivazione, la Corte, ha precisato che, per accertare se il denaro costituisce profitto del reato tributario, e, cioè, un risparmio di spesa aggredibile in via diretta, è necessario avere riguardo non all'identità fisica delle somme, ma al valore numerario delle disponibilità giacenti sul conto dell'imputato alla scadenza del termine per il versamento dell'imposta, mentre il denaro versato successivamente a detto termine, che fosse stato sequestrato, non può essere ritenuto "profitto" del reato, ma rappresenta un'unità di misura equivalente al debito fiscale scaduto e non onorato, confiscabile se ricorrono i presupposti per la confisca per equivalente. E tale pronuncia, precisa che, ipotizzando che il contribuente sia titolare di un rapporto di conto corrente bancario o postale che, alla scadenza del termine per il pagamento dell'imposta, presenti un saldo negativo, è chiaro che il denaro versato successivamente non può essere ritenuto "profitto" del reato, ma unità di misura equivalente al debito tributario scaduto e non onorato. Qualora invece il conto bancario o postale presenti, alla scadenza del termine per l'assolvimento dell'onere tributario, saldi attivi, il profitto dell'omesso versamento dell'imposta equivale al correlativo mancato decremento del saldo. In definitiva, la natura fungibile del denaro non è sufficiente in questi casi a qualificare di per sé come "profitto" l'oggetto del sequestro, essendo necessario anche provare che la disponibilità della somma successivamente sequestrata, costituisca essa stessa risparmio di spesa conseguito con il mancato versamento dell'imposta o che si tratti di liquidità rimasta nella disponibilità del contribuente. Tali puntualizzazioni, come detto, non si pongono in contrasto con i principi elaborati dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 10561 del 2014 (ric. Gubert) e n. 31617 del 2015 (ric. Lucci), ma al contrario ne costituiscono un'applicazione, riferita in particolare alla peculiare tipologia dei reati tributari contraddistinti, come nel caso degli art. 10 bis e 10 ter del d. Igs. n. 74 del 2000, dall'omesso versamento di imposte dovute in base a specifiche dichiarazioni del contribuente. L'applicazione dei sopra esposti principi al caso del riciclaggio ed autoriciclaggio successivi la consumazione di reati tributari comporta rilevanti conseguenze; se difatti è profitto illecito soltanto il valore numerario delle disponibilità giacenti sul conto dell'imputato alla scadenza del termine per il versamento dell'imposta, soltanto su queste somme preesistenti potranno essere compiute attività di riciclaggio od autoriciclaggio autonomamente punibili. Occorre cioè individuare un preciso nesso di derivazione tra il quantum di denaro sussistente nella disponibilità dell'imputato al momento della consumazione del reato tributario ed il quantum oggetto di attività di sostituzione o trasformazione; per ritenere che le condotte di movimentazione di tali somme,ove poste in essere dallo stesso autore del delitto presupposto, divengono punibili solo perché consistite inimpieghi in attività economiche, finanziarie o speculative. Restringendo l'analisi alla ipotesi dell'autoriciclaggio può pertanto concludersi affermando che per essere punibile la condotta decettiva dell'autore del reato tributario deve avere avuto ad oggetto l'impiego in attività economiche, finanziarie o speculative proprio dell'ammontare frutto dell'evasione di imposta, e cioè di quella somma che avrebbe dovuto essere versata all'erario perché già esistente nel patrimonio del reo e non lo era per essere poi impiegata in altre attività finanziarie, economiche o speculative. In conclusione
Il tema della possibilità di configurare quale profitto illecito riciclabile anche il risparmio di imposta derivante dalla consumazione di un reato tributario apre la prospettiva della contestazione all'autore del reato presupposto dell'ipotesi di autoriciclaggio. Al fine di evitare che una nozione troppo ampia di profitto illecito derivante da risparmio fiscale delittuoso determini la punibilità di qualsiasi operazione compiuta sul proprio patrimonio da parte dell'autore del delitto tributario appare necessario limitare la punibilità per la condotta di autoriciclaggio da reato fiscale ai soli casi in cui: a) vi sia attività di impiego successivo l'evasione di imposta così che autoriciclaggio e reato finanziario non coincidano; b) sia individuabile con precisione un'attività di impiego del denaro frutto del risparmio fiscale illecito con nesso di derivazione causale.
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