La trasformazione di una s.r.l. in comunione d’azienda non preclude il fallimento
30 Dicembre 2019
Massima
Nelle ipotesi di trasformazioni eterogenee - nella quale si assiste al passaggio da una società ad una comunione di godimento di azienda o comunque da una società ad una impresa individuale - si determina sempre un rapporto di successione tra soggetti distinti, perché persona fisica e persona giuridica si distinguono appunto per natura e non solo per forma, con la conseguenza che la nascita di una comunione indivisa tra due o più persone fisiche (cui l'ente collettivo trasferisca il proprio patrimonio) non preclude la dichiarazione del fallimento della società entro il termine di un anno dalla sua eventuale cancellazione dal registro delle imprese.
Il caso
Con la sentenza n. 16511 del 2019, la I Sezione civile della Corte di Cassazione si esprime in materia di cancellazione della società di capitali, di trasformazione eterogenea e, specificamente di applicazione dell'art. 10 della legge fallimentare, rubricato “Fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'esercizio dell'impresa”. Nel caso di specie, la Corte di appello di Napoli aveva deciso su un reclamo ex art. 18 l.fall. proposto dal legale rappresentante della società Alpha, cancellata in seguito alla trasformazione in comunione di azienda. Tale reclamo era nei riguardi della curatela fallimentare e della società creditrice Beta, avverso la sentenza dichiarativa del fallimento. La parte reclamante aveva premesso le vicende fattuali ritenute rilevanti. Anzitutto, la delibera, con voto favorevole dell'intero capitale sociale, della ‘trasformazione eteronoma' della società debitrice, dalla forma di società di capitali, a quella di comunione di azienda tra i soci stessi, ai sensi dell'art. 2500-septies c.c. Tale delibera era stata iscritta nel registro delle imprese, dove era stata iscritta anche la definitiva trasformazione della società in comunione d'azienda e la cancellazione della medesima società trasformata, successivamente e in conseguenza della mancata opposizione dei creditori ex art. 2500-novies c.c. Nonostante la trasformazione, era intervenuta la dichiarazione di fallimento della società Alpha, sulla scorta dell'asserita applicabilità nel caso di specie dell'art. 10 l.fall. Invero, la società reclamante aveva impugnato la sentenza dichiarativa del fallimento e aveva ritenuto che l'estinzione della società e la sua cancellazione dal registro delle imprese, proprio in seguito alla trasformazione eterogenea, impedisse il fallimento della società proprio in seguito all'inapplicabilità dell'art. 10 l.fall., stante la prosecuzione dei rapporti patrimoniali in capo ai comunisti già soci della società trasformata, e l'assenza del presupposto fattuale della cessazione dell'attività di impresa. La Corte d'appello rigetta il ricorso. La motivazione si basava sull'interpretazione del dettato dell'art. 10 l.fall. fornito dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 319/2000 e sulla lettura sistematica delle novità normative introdotte dal d.lgs. n. 5/2006. La Consulta ha avuto modo, infatti, di esprimersi sull'illegittimità costituzionale dell'art. 10 l.fall., in questi termini: “Il termine annuale, previsto da tale norma, oltre il quale non può darsi declaratoria di fallimento, nel caso di impresa collettiva decorre - appunto secondo il diritto vivente - non già dalla cessazione dell'attività o dallo scioglimento della società medesima, bensì dal compimento della fase liquidatoria, che non coincide con la chiusura formale della liquidazione ma con la liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, sicché questa si considera esistente, e dunque assoggettabile a fallimento, finché rimangono rapporti, attivi o passivi, da definire. È evidente peraltro che la norma stessa, così interpretata, risulta sostanzialmente inapplicabile, atteso che il termine di un anno entro il quale può essere dichiarato il fallimento della società, nonché il fallimento in estensione dei suoi soci illimitatamente responsabili, inizia a decorrere solamente dal momento in cui, essendo stato definito ogni rapporto passivo che fa capo alla società stessa, non può nemmeno ipotizzarsi l'esistenza dello stato di insolvenza, costituente il presupposto della dichiarazione di fallimento. Va chiarito, a tale proposito, che rientra sicuramente nella discrezionalità del legislatore individuare diversamente, per l'impresa individuale e per quella collettiva, il dies a quo del termine entro il quale il fallimento dev'essere dichiarato dopo la cessazione dell'impresa, così come prevedere, eventualmente, in riferimento alle due fattispecie, termini diversi. La discrezionalità del legislatore incontra peraltro un limite nel principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., il quale postula che la norma con la quale viene fissato un termine non sia congegnata in modo tale da vanificare completamente la ratio che presiede alla fissazione di quel termine, rendendolo così del tutto inutile. Va perciò dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 10 della legge fallimentare - risultando assorbita in tale pronuncia la censura relativa all'art. 147 - nella parte in cui prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell'impresa, entro il quale può intervenire la dichiarazione di fallimento, decorra, per l'impresa collettiva, dalla liquidazione effettiva dei rapporti facenti capo alla società, invece che dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese”. Il giudice di seconde cure ha osservato come sia irrilevante indagare se la cancellazione della società sia derivata o meno dalla cessazione dell'attività di impresa, poiché tale circostanza sarebbe normativamente presunta dall'iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, il quale è elemento necessario e sufficiente per ritenere che l'ente sia estinto. Inoltre, si è sottolineato che la cd. ‘regressività' da società di capitale a comunione di azienda, ossia il fenomeno della trasformazione eterogenea descritta dall'art. 2500 septies c.c., nella sua “applicazione ortodossa” comporta una situazione di contitolarità dei beni, al solo scopo del godimento diretto o indiretto degli stessi. Questo implica – prosegue il giudice dell'impugnazione – che la comunione di azienda costituisca un oggetto e non già un soggetto di diritto, che in quanto tale è privo di identità e di autonomia giuridica e patrimoniale. La Corte d'Appello ha pertanto concluso che una siffatta trasformazione determinerebbe una modifica della disciplina organizzativa dei beni aziendali, attraverso il mutamento formale del soggetto titolare dei beni medesimi, nonché il venire meno della continuità giuridica della società, che è pertanto sottoposta ad estinzione. Dunque, trattandosi di una società cessata e la cui cessazione era stata iscritta nel registro delle imprese, avrebbe trovato applicazione l'art. 10 l.fall.
Le questioni giuridiche e le soluzioni
La S.C. rigetta il ricorso in quanto infondato e tratta congiuntamente i sei motivi di doglianza. Tutto si riduce – sintetizza la Corte – alla possibilità di applicare al caso di specie la normativa speciale prevista dall'art. 10 l.fall. anziché, come vorrebbero i ricorrenti, la diversa disciplina in materia di responsabilità patrimoniale, quella che il Codice Civile prevede per le trasformazioni societarie. La Corte puntualizza che l'applicazione della disciplina fallimentare de qua è subordinata a una condizione: l'intervento di un fenomeno estintivo dell'impresa, ovvero della compagine sociale attinta dall'istanza di fallimento, nei limiti temporali previsti dalla norma in esame, con effetti successori che investono il patrimonio dell'ente e la conseguente relativa legittimazione sostanziale e processuale dell'ente medesimo. La domanda che la Cassazione ritiene di porsi è specificamente la seguente: la trasformazione prevista dall'art. 2500-septies c.c. ha determinato un fenomeno semplicemente evolutivo e modificativo del contratto sociale – come si verifica nelle trasformazioni societarie omogenee – ovvero un fenomeno estintivo della società? È proprio dall'accoglimento di una delle due soluzioni che discende l'applicabilità o meno dell'art. 10 l.fall. Se è vero che la legge fallimentare non prevede un termine di decadenza per il deposito del ricorso per la richiesta di fallimento, la lettura congiunta degli artt. 10 e 11 l.fall. consente di affermare che esiste nell'ordinamento un dies post quem non, che non deve essere riferito alla domanda ai sensi dell'art. 6 l.fall., bensì alla dichiarazione di fallimento. La ratio della norma è evidentemente quella di evitare il protrarsi all'infinito degli effetti di un'attività di impresa che non sia più attuale. Concretamente, poi, ciò significa che deve ritenersi inammissibile la domanda di fallimento depositata quando il termine annuale sia già scaduto. Siffatto termine annuale si configura come termine di decadenza dell'iniziativa fallimentare, impedita solamente dalla tempestiva pronuncia di fallimento: la conseguenza è che l'avvio del procedimento non comporta alcun effetto interruttivo del termine medesimo. Trascorrendo al piano della fattispecie modificativa, la Corte di Cassazione, richiamandosi a consolidata giurisprudenza di legittimità risalente agli anni Novanta, ribadisce che nel caso di comunione di azienda, laddove il godimento di essa si realizzi mediante un diretto sfruttamento dell'azienda da parte dei partecipanti, risulterebbe configurabile l'esercizio di un'impresa collettiva. Non vi osterebbe il dettato dell'art. 2248 c.c. né l'assoggettamento alle norme degli artt. 1100 c.c. e seguenti. La Corte precisa, altresì, che l'elemento che discrimina la comunione a scopo di godimento e la società è esclusivamente lo scopo lucrativo, che viene perseguito attraverso un'attività imprenditoriale che si sostituisce al mero godimento, e che rappresenta la cifra caratterizzante l'utilizzo dei beni comuni (la giurisprudenza di legittimità sul punto è vasta. Ex multis si possono ricordare: Cass., n. 3028/2009; Cass., n. 13291/1999; Cass., n. 4053/1993; Cass., n. 12087/1992; Cass., n. 1251/1984). Inoltre, come ricordato anche nella citata Cass., n. 4986/1997, la contitolarità di un'azienda commerciale non comporta necessariamente che i contitolari assumano la qualità di soci di fatto. La Corte di Cassazione, con il provvedimento in esame, ragiona su un altro profilo, già ampiamente trattato in giurisprudenza e in dottrina. Afferma, infatti, che la trasformazione di una società da un tipo ad altro tipo oggetto di previsione ex lege non si traduce – nemmeno in caso di fattispecie dotate di personalità giuridica – nell'estinzione di un soggetto e nella conseguente creazione di un altro soggetto, bensì descrive “una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto”. Ciò determinerebbe soltanto una variazione dell'assetto societario e della struttura organizzativa, ma non giungerebbe a incidere sui rapporti processuali e sostanziali che facevano capo alla precedente originaria vicenda societaria (così, le recenti Cass., n. 10332/2016 e n. 13467/2011). Da decenni, invero, la Cassazione afferma che la trasformazione di una società determina una modificazione e l'assunzione di una nuova veste, a prescindere da qualunque fenomeno successorio (si pensi soltanto a Cass., n. 2697/1986). Tuttavia, la Corte prosegue nel proprio ragionamento osservando che ogni trasformazione di una ditta individuale in una società ovvero di una società in una impresa individuale determina un rapporto di successione (cfr. Cass., n. 965/1997): ne conseguirebbe che, secondo l'orientamento della Cassazione, la nascita di un'impresa individuale cui quella collettiva trasferisca il proprio patrimonio, non precluderebbe la dichiarazione di fallimento entro un anno dalla cancellazione nel registro delle imprese (Cass., n. 1593/2002).
Osservazioni
Più precisamente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno avuto modo di affermare che, in seguito alla riforma del diritto societario attuata con il d.lgs. n. 6/2003, qualora all'estinzione della società – sia di persone e di capitali – conseguente alla cancellazione dal registro dalle imprese, non faccia seguito il venire meno di qualunque rapporto giuridico, si verifica un vero e proprio rapporto successorio. In conseguenza di ciò, le obbligazioni della società non si estinguono, ma si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso in base alla liquidazione, ovvero illimitatamente: in tale modo, non si sacrificano ingiustamente i diritti dei creditori sociali. Inoltre, i beni e i diritti non ricompresi nella liquidazione vengono trasferiti ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa. Ne vengono, però, escluse le mere pretese – azionate o azionabili in giudizio – e i crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione nel bilancio avrebbe richiesto un'attività ulteriore e per i quali il mancato espletamento da parte del liquidatore consentirebbe di ritenere che la società vi abbia rinunciato per una più veloce conclusione del procedimento estintivo (Cass., S.U., n. 6070/2013). La Corte osserva che, nella vicenda esaminata, si era verificata una ‘trasformazione eterogenea', come prevista dall'art. 2500-septies c.c.: significa che la società di capitali si era trasformata in una comunione di godimento di un'azienda e ciò avrebbe determinato il ‘passaggio' da un ente che ha la forma societaria ad altro ente forgiato sullo schema della comunione. In tale ricostruzione si verifica necessariamente un fenomeno di successione tra soggetti distinti, e non già una trasformazione della società di capitali in una società di fatto tra i due ex soci. L'unica conclusione logicamente accettabile, a parere della Corte di legittimità, è che nelle ipotesi di trasformazioni eterogenee, si determina sempre siffatto rapporto di successione tra soggetti distinti (si pensi a quanto deciso da Cass., n, 1593/2002; Cass., n. 965/1997): persona fisica e persona giuridica si distinguono sia per natura che per forma, sicché la nascita di una comunione indivisa tra due o più persone fisiche non può precludere la dichiarazione di fallimento delle società entro il termine di un anno dall'eventuale cancellazione dal registro delle imprese.
Conclusioni
La Corte di Cassazione indica un'ulteriore ratio della decisione proposta. Infatti, se si ragionasse in maniera opposta a quella decisa dalla corte medesima – ossia in aderenza alla ricostruzione della parte ricorrente – si correrebbe il rischio di favorire operazioni negoziali finalizzate a determinare la trasformazione proprio in prossimità della decozione e della dichiarazione di fallimento della società. Tali trasformazioni, pur essendo consentite dall'ordinamento, determinerebbero l'effetto di impedire la par condicio creditorum, in assenza di un efficace sistema concorsuale, sui beni della società debitrice. Infine, appare significativo osservare come la decisione de qua possa costituire un valido punto di partenza anche nella nuova disciplina tracciata dal codice della crisi e dell'insolvenza. Infatti, la disposizione corrispondente all'attuale art. 10 l.fall., ossia l'art. 33 CCI, rubricato ‘Cessazione dell'attività', recita: “1. La liquidazione giudiziale può essere aperta entro un anno dalla cessazione dell'attività del debitore, se l'insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro l'anno successivo. 2. Per gli imprenditori la cessazione dell'attività coincide con la cancellazione dal registro delle imprese e, se non iscritti, dal momento in cui i terzi hanno conoscenza della cessazione stessa. È obbligo dell'imprenditore mantenere attivo l'indirizzo del servizio elettronico di recapito certificato qualificato, o di posta elettronica certificata comunicato all'INI-PEC, per un anno decorrente dalla cancellazione. 3. In caso di impresa individuale o di cancellazione di ufficio degli imprenditori collettivi, è fatta comunque salva la facoltà per il creditore o per il pubblico ministero di dimostrare il momento dell'effettiva cessazione dell'attività da cui decorre il termine del comma 1”.
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