41-bis: verso un bilanciamento dei diritti “illuminato” da parte della giurisprudenza di legittimità?

Veronica Manca
31 Gennaio 2020

All'alba del 2020, dopo un dicembre all'insegna del rinnovamento epocale, con la sent. n. 253 del 2019, si ritiene opportuno fare il punto sull'istituto per eccellenza del c.d. “doppio binario” penitenziario e simbolo della c.d. “ostatività” alla rieducazione, ovverosia il 41-bis ord. penit.
Abstract

L'Autrice tenta di fare il punto sulla giurisprudenza di legittimità in materia di 41-bis ord. penit., anche in ragione delle sentenze innovative della Corte costituzionale (nn. 186/2018; 149/2018; 253/2019) e in previsione della questione di legittimità pendente, sollevata dalla Prima Sezione della Cassazione, riguardo al divieto di scambio di oggetti all'interno del gruppo di c.d. “socialità”. Alla luce dell'analisi proposta, emergono alcuni punti fermi; in altre circostanze, invece, si pongono delle interessanti riflessioni circa la ratio del regime, sia con alcune prese di posizione critiche, sia con altre, de iure condito, condivisibili.

Premessa: dati alla mano sul 41-bis

Sulla base dei dati pubblicati dal rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute, ripresi da Antigone, risulta, al 3 gennaio 2019, che, all'interno delle sezioni 41-bis

ord. penit

., sono ristretti 748 detenuti (di cui 10 donne), non tutti definitivi (per l'esattezza solo n. 363), alcuni in posizione mista, altri, n. 5, a titolo di misura di sicurezza (fa specie il caso di un detenuto ristretto presso Tolmezzo sottoposto al regime del 41-bis ord. penit., a titolo di misura di sicurezza dalla casa lavoro, dal 1984).

Le problematiche maggiori, inoltre, si riscontrano in relazione a Parma e a Milano-Opera, in cui si collocano la maggior parte di detenuti disabili e/o ricoverati presso reparti ospedalieri specializzati. Il più alto tasso di presenze di detenuti in 41-bis si ha con L'Aquila (n. 10 donne, di cui solo n. 4 definitive; uomini n. 153), seguito da Milano-Opera (n. 97 uomini) e da Sassari-Bancali (n. 87 uomini). Ancora. Ben 51 persone sono ristrette nelle c.d. “Aree riservate”, istituite ex art. 32 del d.P.R. n. 230/2000.

Di notevole interesse, anche se afferente a dati del 2015/2016, comunque di poco precedenti alla rilevazione da ultimo citata, è la fotografia scattata dal rapporto della Commissione straordinaria sui diritti umani del Senato, da cui si ricavano ulteriori elementi significativi:

(i) la durata del regime: per il 26% delle persone recluse, il regime ha una durata oscillante tra i 10 ed i 20 anni, con una percentuale minima di persone sottoposte al 41-bis ord. penit., da oltre 20 anni (se non 30 anni);

(ii) lo status di condannato: solo il 45,6% è definitivo, mentre per un 26%, si ha una parte di detenuti in fase cautelare, e, per il resto, in posizione mista. Residua il 0,5% a titolo di misura di sicurezza;

(ii) il titolo di reato: ben il 70.8% delle persone recluse ai sensi del comma 2 dell'art. 416 c.p. (a titolo di partecipazione), mentre solo il 21,3% ha una condanna/imputazione con una posizione al vertice;

(iv) la compagine criminale di appartenenza: per il 21,7% di affiliati alla ‘Ndrangheta; n. 26,6% a Cosa Nostra; n. 40,3% alla Camorra (per una visione completa dei dati: www.senato.it; www.antigone.it; www.garantenazionaleprivatiliberta.it).

Lo stato dell'arte della giurisprudenza: qualche spiraglio di luce?

All'alba del 2020, dopo un dicembre all'insegna del rinnovamento epocale, con la sent. n. 253 del 2019, si ritiene opportuno fare il punto sull'istituto per eccellenza del c.d. “doppio binario” penitenziario e simbolo della c.d. “ostatività” alla rieducazione, ovverosia il 41-bis ord. penit..

Aperto, infatti, un varco all'accesso ai benefici penitenziari per tutti gli autori di reati condannati per i delitti di cui al comma 1 dell'art. 4-bis ord. penit., la Corte di cassazione, con la recentissima pronuncia n. 52139/2019, ha ribadito gli effetti innovativi sopraggiunti della sent. n. 253/2019, annullando con rinvio al tribunale di sorveglianza per l'esame nel merito di un reclamo, dichiarato inammissibile per il difetto della mancata collaborazione (v. Cass. pen., Sez. I, 30 dicembre 2019, n. 52139).

La pronuncia n. 253/2019 pone quindi le basi per un'importante rivoluzione, tesa all'accesso – quanto meno in punto di ammissibilità – al permesso premio, anche da parte di soggetti ritenuti astrattamente pericolosi: certo la permanenza del regime speciale non è sicuramente un indice – in astratto – che potrebbe indurre al superamento degli ulteriori indici “probatori” rafforzati imposti dalla Corte costituzionale, con il venir meno dell'attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata e l'impossibilità di un ripristino con gli stessi.

Nonostante tale impasse, si ritiene che, anche con riguardo al regime del 41-bis ord. penit., la Corte costituzionale abbia sancito importanti principi di diritto in relazione alla ragionevolezza delle prescrizioni poste alla base dell'applicazione del regime speciale, sia in parte con la sent. n. 253 del 2019 sia soprattutto con la sent. n. 186 del 2018: in questo caso, è stato ritenuto irragionevole, e, quindi, illegittimo, il divieto di cottura di cibi all'interno della cella perché estraneo alla finalità di prevenzione e difesa sociale propria del 41-bis.

Tale preclusione non può infatti essere giustificata per il “sospetto” che tramite il cibo i detenuti più abbienti possano esercitare il proprio carisma criminale sul resto della popolazione carceraria. Tale tipo di presunzione non può avere legittimazione in un ordinamento costituzionalmente orientato né giustificarsi su un piano generalizzato e svincolato da qualsiasi accertamento concreto di pericolosità sociale (v. Corte cost., 12 ottobre 2018, n. 186).

Si ritiene che il principio di diritto espresso in tale pronuncia, unitamente ai canoni dell'esecuzione della pena detentiva enunciati nelle sent. n. 149 del 2018 e n. 253 del 2019 potrebbero fungere da grimaldello per la progressiva erosione di tutte quelle previsioni dall'applicazione irragionevolmente rigida ed automatica, che impediscono, in sostanza, un accertamento pieno da parte della magistratura di sorveglianza (oltre che ad una difficile operazione di esecuzione, in sede di ottemperanza, da parte dell'amministrazione penitenziaria).

Con riguardo poi al diverso istituto del permesso di necessità, pare che anche la giurisprudenza di legittimità, nonostante aperture di principio, di fatto si orienti sull'interpretazione più restrittiva: a parte la nota sentenza n. 48424/2017, per la partecipazione alla nascita del figlio, si assiste ad una generale chiusura rispetto alla concessione di momenti di apertura verso l'esterno, non solo per motivi lieti, anche per motivi drammatici e connessi alla malattia del prossimo congiunto (v., sul punto, ex multis, Cass. pen, Sez. I, 27 novembre 2015, n. 15953 e n. 36329; Cass. pen., Sez. I, 8 novembre 2016, n. 51409).

Senza alcun dubbio, gli elementi più critici e sofferti per i soggetti sottoposti al 41-bis, sono dati dal contatto con il mondo esterno e dai momenti qualificanti il mantenimento dei legami con la società, dai familiari, all'avvocato, alle figure di riferimento interno, ponte verso possibili contatti con l'esterno (dall'educatore, ai volontari, agli agenti della polizia penitenziaria). In relazione a ciò basta pensare al dibattito, a suon di ordinanze e prese di posizione del DAP, circa la possibilità di colloqui riservati con i Garanti regionali e locali (non coperti dalle stesse garanzie proprie del Garante nazionale). Ancora. Sulla rigidità dell'applicazione del regime, fa specie, la recente notizia di un'ora di colloquio dopo 30 anni di 41-bis, ininterrotto e in stato di totale isolamento (v. IlDubbio.it, a cura di D. Aliprandi, 41 bis, un'ora di umanità con Rosetta. Quasi trent'anni di isolamento, 13 novembre 2019).

Stampa locale, libri, riviste: diritto all'informazione

Sulla scia della sent. n. 122/2017 della Corte costituzionale, per cui sono state ritenute non fondate le questioni di legittimità costituzionale del comma 2-quater dell'art. 41-bis lett. a) e c) ord. penit., nella parte in cui consente all'Amministrazione penitenziaria di vietare la ricezione e/o invio di libri e riviste tra detenuti sottoposti al regime speciale e l'esterno, anche la Circolare DAP n. 3637/6126 del 2 ottobre 2017 si pone in linea con il dettato normativo, ai sensi dell'art. 11.6.

Tuttavia, nonostante tali riferimenti normativi, in giurisprudenza, nel corso del 2019, si è assistita ad una parziale apertura: con sent. n. 35766/2019, la Prima Sezione ha ritenuto illegittima la preclusione “assoluta”, fondata sul mero “sospetto” di vietare al detenuto al 41-bis ord. penit. la ricezione di tutta la stampa locale, a prescindere dalla soggettiva provenienza geografica (v. V. Manca, 41-bis e stampa locale: rimossa la preclusione in assenza di concreti elementi di pericolosità sociale, in ilPenalista.it, 1° ottobre 2019).

A corollario di tale pronuncia, il Tribunale di sorveglianza di Sassari ha accolto il reclamo di un detenuto al 41-bis ord. penit., ristretto a Sassari-Bancali, con cui lamentava una violazione del proprio diritto di informazione, alla luce delle pesanti restrizioni/esclusioni contenute nel Mod. 72, allegato alla Circolare DAP n. 3637/6126: secondo il Collegio, al detenuto è consentito l'accesso anche a riviste e libri non tassativamente previste nel Mod. 72 (da intendersi, quindi, esemplificativo), residuando, invece, una più generale limitazione rispetto alla stampa locale del luogo di provenienza del detenuto (notizia pubblicata in: IlDubbio.it, a cura di D. Aliprandi, 41 bis, si possono leggere i giornali non previsti dal Dap, 23 luglio 2019).

Con tale pronuncia, è tornata all'attenzione la questione della ragionevolezza di una simile preclusione, soprattutto alla luce dell'offerta informativa consentita: non sono, infatti, comprese all'interno del Mod. 72 i principali strumenti di informazione sulla situazione carceraria e che hanno un focus anche sul mondo penitenziario e, più, in generale, sulla giustizia penale (come, ad es., su tutti, Ristretti, oppure, testate giornalistiche a tiratura nazionale, come, ad es., Il Mattino, Il Dubbio, Il Manifesto, Il Foglio, Avvenire).

Ulteriore punto dolente: secondo il rapporto del Garante nazionale dei diritti delle persone recluse, vi sarebbero alcune strutture che estendono tali restrizioni fino a inibire sostanzialmente l'esercizio effettivo del diritto di informazione (v. Il Rapporto, p. 26: “È stato segnalato, infatti, che in alcuni Istituti non vengono consegnati alle persone detenute in regime speciale articoli di stampa o pubblicazioni che trattino non direttamente di loro o del loro caso, ma che abbiano un complessivo riferimento al contrasto alla criminalità organizzata o al contesto culturale e sociale in cui essa si sviluppa: ciò determina anche l'eliminazione di contributi saggistici, pagine di quotidiani e settimanali che comunque configurano quell'insieme di elementi che il diritto costituzionale all'informazione tutela”).

L'esercizio del diritto di informazione appare limitato anche nella misura in cui la persona ristretta decida di esercitarlo qualitativamente aderendo ad un'associazione: secondo la sentenza n. 28309/2018, è precluso al detenuto corrispondere col fine di inviare una somma di denaro per iscriversi all'associazione di Nessuno Tocchi Caino (anche se nel caso di specie, ciò che viene contestato al detenuto è la sua condotta elusiva, di indirizzare del denaro per missiva prima ad una prossima congiunta poi all'avvocato, con ciò eludendo le ulteriori prescrizioni in materia di invio/ricezione del denaro; v. Cass. pen., Sez. I, 5 aprile 2018, n. 28309).

(Segue). Il diritto di difesa nella realtà dei fatti

Ulteriore nodo cruciale è dato dall'effettività del diritto di difesa: nel rapporto del 2019, il Garante nazionale fa presente la difficoltà per i detenuti di accedere alla documentazione giudiziaria, specie, se voluminosa (v. Il Rapporto, p. 26: “Il Garante nazionale ha riscontrato, al contrario, nelle prassi di alcuni Istituti, limitazioni inconciliabili con la realizzazione di tale diritto. In taluni casi la mancata messa a disposizione degli apparecchi di lettura, ovviamente privi di connessione esterna, previsti, a norma della citata circolare 2 ottobre 2017, per i casi in cui sia necessario visionare gli atti per un tempo maggiore di quello disponibile per l'utilizzo del computer fisso fuori della camera detentiva; in altri il computo nel tempo destinato alla consultazione degli atti sul computer fisso collocato in una apposita stanza a detrimento di quello per le attività di socialità o all'accesso all'aperto”).

In realtà, tale possibilità oltre a non essere ostacolata da alcun dato normativo, trova la sua giustificazione anche nelle prescrizioni della Circolare DAP, n. 14.1 e seguenti, per cui il detenuto può consultare, previa autorizzazione della competente autorità giudiziaria, materiale giudiziario su supporto informatico, qualora sia troppo voluminoso in formato cartaceo (e, qualora il materiale giudiziario non provenga dall'autorità giudiziaria sarà sottoposto a previ controlli).

Non solo. Secondo la Circolare DAP, laddove la visione del materiale comporti una durata maggiore rispetto al tempo, previsto per legge fuori dalla cella, la consultazione dovrebbe avvenire comunque, ma soltanto all'interno della camera di pernottamento (v. art. 14.1., per cui: “Qualora sia necessario visionario gli atti per un tempo maggiore, si provvederà ad acquistare un apparecchio di modico valore privo di connessione esterne …”).

Di interesse sul punto, la pronuncia – non inerente comunque il 41-bis ord. penit. – con cui la Corte di cassazione non ha escluso a priori l'accesso dell'avvocato per un colloquio con l'assistito detenuto accompagnato da un supporto informatico, sia esso una penna driver sia un pc, senza connessioni esterne, sottoposto a previ controlli (v. Cass. pen., Sez. I, 18 aprile 2019, n. 38609). Il diritto di difesa sembra essere stato ridimensionato anche rispetto alla corrispondenza. Con la sentenza n. 36041/2019, la Prima Sezione della Cassazione ha rigettato il ricorso del detenuto che lamentava una violazione del diritto di corrispondere con il proprio avvocato: a ben vedere, tuttavia, ciò che la magistratura di sorveglianza aveva contestato era stata la mancanza di autenticità da parte della firma del legale e l'impossibilità di ricondurre in modo diretto ed inequivoco la missiva allo stesso (v. Cass. pen., Sez. I, 14 giugno 2019, n. 36041).

Un indice di grande apertura, invece, si rinviene nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in relazione alla sentenza Altay (n. 2) c. Turchia, con cui il diritto di difesa è stato qualificato come un diritto soggettivo “rafforzato” anche rispetto a detenuti ritenuti altamente pericolosi e concernenti anche materiale che non sia esclusivamente attinente alla documentazione processuale (v. V. Manca, La stretta inviolabilità del rapporto avvocato-detenuto secondo i parametri Cedu, in il Penalista.it, 22 maggio 2019).

(Segue). Assistenza sanitaria e salute mentale

Il cuore delle criticità del regime speciale si incentra, in realtà, sul rispetto del diritto soggettivo alla salute, tenuto conto delle sole 2 ore di accesso all'aria aperta e di tutte le limitazioni con il mondo esterno, nonché della rigidità di accesso alle attività trattamentali e alle autorizzazioni esterne. A tenere banco nel 2019 in argomento è stato sicuramente ancora il caso Provenzano (n. 2) c. Italia, con cui la Corte di Strasburgo ha sancito la violazione dell'art. 3 CEDU in quanto, in sede di reiterazione del regime, specie nell'ultimo periodo, le autorità amministrative avevano omesso di riconsiderare rigorosamente la condizione di salute del detenuto, che, a causa dell'età avanzata e dello stadio delle sue molteplici patologie, si era aggravata notevolmente tanto da cagionargli la morte. Tale ragionamento, peraltro, era stato posto alla base della nota sentenza n. 27766/2017, in merito al caso di Totò Riina (v. Cass. pen., Sez. I, 23 marzo 2017, n. 27766).

Sul versante interno, poi non può non citarsi la decisione della Prima Sezione della Cassazione, n. 29488/2019, con cui è stata decretato l'accesso alla misura della detenzione c.d. in “deroga”, ai sensi del co. 1-ter dell'art. 47-ter ord. penit. anche al detenuto in 41-bis ord. penit., nel caso di infermità psichica sopravvenuta, in linea con quanto stabilito dalla Corte costituzionale, n. 99/2019.

(Segue). Aria e socialità: una Q.L.C. all'orizzonte

Una partita parzialmente vinta quella in relazione all'interpretazione della prescrizione della Circolare DAP, n. 11.2, sulla permanenza all'aria aperta, che, in attuazione delle pregresse circolari ministeriali, sembrerebbe imporre all'interno del limite di 2 ore all'aperto, anche l'ora di soggiorno presso l'area di socialità (v. V. Manca, Limite minimo di ore all'aria aperta per il 41-bis ord. pen. Verso un'interpretazione costituzionalmente orientata, in ilPenalista.it, 1° luglio 2019). Con sentenza n. 40761 del 2018, la Cassazione ha invece stabilito che “la permanenza del detenuto all'aria aperta risponde ad esigenze igienico-sanitarie, mentre lo svolgimento delle attività in comune in ambito detentivo è valorizzata nell'ottica di una tendenziale funzione rieducativa della pena, che non può essere del tutto pretermessa neppure di fronte ai detenuti connotati da allarmante pericolosità sociale, come appunto quelli sottoposti al regime differenziato di cui all'art. 41 bis Ord. Pen.”. Con tale pronuncia si fa salva, quindi, l'interpretazione garantista portata avanti dalla magistratura di sorveglianza di Sassari che ha tentato, sin dalle prime applicazione, di attuare una disciplina sì conforme ed unitaria, ma anche rispettosa della dignità umana della persona ristretta (e, in specie, del diritto alla salute della stessa; così anche: Cass. pen., Sez. I, 28 febbraio2019, n. 17579).

Per di più. Se, con una prima sentenza, la Prima Sezione ha chiuso qualsiasi apertura al divieto di scambio di oggetti tra gli appartenenti al gruppo della socialità (v. Cass. pen., Sez. I, 18 aprile 2019, n. 29300), con due successive ordinanze, la n. 43436 e la n. 43437, la stessa sezione ha sollevato, invece, d'ufficio questione di legittimità costituzionale del comma 2-quater lett. f) dell'art. 41-bis ord. penit., in relazione agli artt. 3 e 27 Cost. (v. Cass. pen. Sez. I, (ord.) 23 ottobre 2019, nn. 43436/43437).

La Corte ha infatti chiarito che tale preclusione, generalizzata, non riflette né può giustificare, secondo ragionevolezza e proporzionalità, le dinamiche del “potere reale” esercitato dai detenuti su altri detenuti (in altri termini, è improbabile che dallo scambio di generi alimentari di prima necessità e di modico valore – come il sapone o il caffè – possano innescarsi dinamiche gerarchiche di potere; «la ulteriore limitazione conseguente all'applicazione del divieto di cui si discute, che impedisca anche quelle forme “minime” di socialità che si estrinsecano nello scambio di oggetti di scarso valore e di immediata utilità o di generi alimentari tra persone che si frequentano “senza filtri” ogni giorno e in una prospettiva di normalità di rapporti interpersonali, finisce per realizzare una non consentita limitazione ai principi del finalismo rieducativo e del divieto di trattamenti degradanti. Degradazione che si ha ogni volta che il detenuto/internato, sottoposto a misure ingiustificatamente afflittive, vede strumentalizzata la propria umanità per finalità di politica criminale del tutto distoniche rispetto alle specifiche finalità di sicurezza perseguite dal regime differenziato, con una ingiustificata differenziazione della relativa disciplina penitenziaria»). In conclusione, alla luce della decisione n. 186 del 2018, si ritiene che vi siano tutti gli elementi necessari affinchè la Corte possa ragionevolmente espellere anche tale preclusione, quanto meno nella direzione di vincolare l'autorità giudiziaria e l'azione amministrativa a canoni di proporzione per l'applicazione di una limitazione, che, se applicata in termini assoluti e generali, finisce per inibire ulteriormente qualsiasi contatto umano all'interno delle sezioni, svilendo il senso della dignità umana della persona.

In conclusione

In sintesi. Sono davvero numerose le questioni affrontate dalla giurisprudenza di legittimità nel corso del 2019, in materia di 41-bis ord. penit.; numerose sono, invece, le questioni non trattate, o, semplicemente, non ancora poste all'attenzione della Suprema Corte.

Il file rouge che attraversa tutte le pronunce e che sembra essere il “trend di diritto” per il futuro è dato dal superamento delle preclusioni assolute e dei meccanismi automatici da cui far discendere, in linea astratta e generalizzata, la pericolosità sociale del detenuto: tali preclusioni non reggono sul piano del bilanciamento degli interessi in gioco, a fronte di un ricorso scrupoloso del principio di proporzionalità. Con un'opera meticolosa la giurisprudenza, pur nella salvaguardia del regime, sta riportando la relativa applicazione verso un binario umanamente più sostenibile, e, soprattutto, maggiormente più compatibile con la Costituzione e con un quadro di legalità del sistema penale.

Infine, una questione che risulta come urgente, anche se riguarda una minima, ma pur sempre rilevante, parte dei reclusi, è connessa sicuramente alla durata del regime e al meccanismo della reiterazione: laddove vi siano comunque in concreto esigenze di prevenzione e difesa sociale che legittimino una reiterazione del 41-bis ord. penit., oltre i 10 anni, si dovrebbe prevedere la possibilità anche per tali soggetti di usufruire di una progressione nel trattamento (dal 41-bis ord. penit., a circuiti di Alta sicurezza, a trasferimenti in sede lontane dal luogo di provenienza), per consentire loro una maggiore autonomia e consapevolezza, anche rispetto alla relazione con l'altro (all'interno dell'istituto penitenziario, e, con il mondo esterno, se pur limitato ai contatti autorizzati) ed evitare così una completa neutralizzazione della persona sino al fine pena (o, anche successivamente, tenuto conto delle persone recluse a titolo di misura di sicurezza, alcune da ben 20/30 anni). In tal modo, di fatto, si avallano prassi amministrative che autorizzano, in un quadro di legalità, delle pene oltremodo ingiuste, irragionevoli e “perpetue” di fatto più dell'ergastolo (una sorte di “ergastolo bianco”, anche per quei soggetti che, seppur reclusi a titolo di misura di sicurezza in 41-bis ord. penit., sono stati condannate a pene diverse).

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