Demansionamento del dirigente ed onere probatorio del danno alla professionalità
03 Febbraio 2020
Massima
Con riferimento al demansionamento del dipendente inquadrato come dirigente, al fine di vagliare la configurabilità o meno di un illegittimo demansionamento, che ricade sotto la disciplina del nuovo testo dell'art. 2103, c.c., è necessario verificare non già e non tanto l'equivalenza dei compiti assegnati rispetto a quelli espletati in precedenza, ma l'effettività del carattere dirigenziale dell'attività svolta dal lavoratore, anche in relazione alla professionalità maturata. Il caso
Un dirigente propone ricorso al Tribunale di Milano lamentando di aver subito un demansionamento e chiedendo, pertanto, la condanna del datore di lavoro al risarcimento del relativo danno.
Oggetto della causa sono due domande: la verifica della sussistenza del demansionamento e la mancata corresponsione di un bonus annuale, quale parte variabile della retribuzione.
La società datrice di lavoro, in via preliminare, eccepisce l'inammissibilità del ricorso per indeterminatezza della domanda; nel merito, sull'asserito demansionamento, eccepisce l'infondatezza.
Il Tribunale, verificato il demansionamento, e tenuto conto della qualità e quantità dell'esperienza lavorativa pregressa, del tipo di professionalità colpita, della durata del demansionamento, dell'esito finale della dequalificazione terminata nella risoluzione del rapporto di lavoro e delle altre circostanze del caso concreto, in particolare del carattere ritorsivo dell'avvenuto mutamento delle mansioni, ritiene che il lavoratore abbia subito non solo un danno alla professionalità, ma altresì un danno all'immagine.
Il giudice rileva, inoltre, come il carattere ritorsivo del provvedimento datoriale emerga con chiarezza da una serie di circostanze gravi, precise e concordanti; da un lato, la stretta connessione temporale fra l'invio della lettera in cui il dirigente segnalava delle criticità ed il mutamento delle mansioni; dall'altro, il fatto che il ricorrente fosse stato scelto per una funzione non in linea con il suo curriculum e la sua formazione.
In conclusione, il Tribunale di Milano, - dopo aver dichiarato non accoglibile la domanda di condanna al pagamento della parte variabile della retribuzione, data l'omissione dell'indicazione delle ragioni di fatto e le argomentazioni di diritto in base alle quali la somma sarebbe stata dovuta - in parziale accoglimento del ricorso, accerta e dichiara il demansionamento del ricorrente, condannando la società datrice di lavoro al pagamento di una somma a titolo di risarcimento del danno. La questione
Il caso in esame consente di riflettere sulla delicata questione della verifica della sussistenza del demansionamento e, conseguentemente, sulla prova da fornire in ordine al risarcimento del relativo danno.
Preliminarmente, giova osservare che la riforma della disciplina delle mansioni, introdotta dall'art. 3 del d.lgs. n. 81 del 2015, ha apportato significative modifiche all'art. 2103, c.c., ridefinendo le condizioni di utilizzo della c.d. mobilità orizzontale.
Invero, a differenza di quanto previsto dalla precedente formulazione dell'art. 2103, c.c. - secondo cui il datore di lavoro poteva modificare le mansioni del dipendente solo a condizione che le nuove mansioni fossero equivalenti a quelle dallo stesso in precedenza svolte -, il nuovo testo dell'articolo in esame attribuisce al datore di lavoro la possibilità di modificare i compiti del dipendente assegnandogli mansioni che, anche se non equivalenti, siano riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
Sul punto, parte della dottrina (M. Brollo) ha osservato acutamente come la novella abbia determinato il mutamento del bene tutelato dal legislatore, per cui con il passaggio dalla “professionalità 'acquisita' (secondo l'interpretazione prevalente) della persona che lavora alla professionalità “classificata” in un determinato contesto organizzativo aziendale; cambia l'ottica di riferimento: da quella individuale e lineare a quella collettiva e multipla”. Ciò posto, può agevolmente rilevarsi che attualmente lo ius variandi del datore di lavoro risulta funzionalmente collegato ad un duplice limite: da un lato, alla nozione di categoria (dirigente, quadro, impiegato, operaio); dall'altro, alla nozione di inquadramento (I livello, II livello, III livello ecc.) di fonte contrattuale collettiva.
Ne consegue che, ai sensi del nuovo disposto dell'art. 2103, c.c., ferma la categoria legale, il dipendente può essere adibito a qualsiasi delle qualifiche previste dalla contrattazione collettiva all'interno del medesimo livello di inquadramento, potendo essere assegnato a mansioni diverse da quelle originariamente convenute o effettivamente svolte, anche prive di omogeneità professionale, purché rientranti appunto nello stesso livello di inquadramento e di categoria legale, e non più soltanto alle mansioni equivalenti sotto il profilo professionale.
Per quanto riguarda i contratti collettivi dei dirigenti, ove non è prevista differenziazione di inquadramento, il limite rimane quello della categoria, con la conseguenza che il datore di lavoro può adibire il dirigente a qualunque mansione, purché di contenuto dirigenziale.
Al riguardo mette conto evidenziare che il ruolo del dirigente è caratterizzato dal potere di disposizione, di coordinamento e di controllo, che si estende all'intera azienda o almeno ad una parte di essa; dall'autonomia nei confronti del datore di lavoro e dalla elevata discrezionalità con la quale può assumere le sue decisioni.
Nella fattispecie in esame, il Tribunale ribadisce che, al fine di vagliare la configurabilità o meno di un illegittimo demansionamento, che ricade sotto la disciplina del nuovo testo dell'art. 2103, c.c., è necessario verificare non già e non tanto l'equivalenza dei compiti assegnati rispetto a quelli espletati in precedenza, ma l'effettività del carattere dirigenziale dell'attività svolta dal lavoratore, anche in relazione alla professionalità maturata.
In particolare, il giudice afferma che per quanto concerne la verifica della legittimità del comportamento datoriale ai sensi dell'art. 2103, c.c. - nuova formulazione - nei confronti dei dirigenti cosiddetti “apicali”, è necessario fare riferimento a parametri differenti rispetto a quelli utilizzabili per gli altri lavoratori: quali, ad esempio, l'importanza strategica della scelta dell'adibizione del dirigente a mansioni inferiori, ed il rapporto fiduciario, particolarmente intenso, che lega datore e prestatore di lavoro con qualifica dirigenziale.
Nel caso in esame, il Tribunale, attraverso l'istruttoria espletata, ha avuto modo di verificare che le mansioni in concreto svolte dal dirigente non avevano, al di là dell'inquadramento formale, effettivo contenuto dirigenziale, dovendosi con ciò intendere un'attività caratterizzata da autonomia e potere decisionale. Invero, il fatto di non partecipare ai CDA, di non avere più un ufficio e neppure risorse assegnate, sono stati ritenuti indici visibili dell'emarginazione cui il dirigente è stato sottoposto e che, certamente, hanno causato un danno alla sua immagine sia all'interno del luogo di lavoro che all'esterno. Le soluzioni giuridiche
Ciò posto, sembra opportuno osservare che in tema di mansioni del lavoratore, ai fini dell'applicabilità dell'art. 2103 c.c. sul divieto di demansionamento, non ogni modificazione quantitativa è sufficiente ad integrarlo, dovendo invece farsi riferimento all'incidenza della riduzione delle mansioni sul livello professionale raggiunto dal dipendente e sulla sua collocazione nell'ambito aziendale, e, con riguardo al dirigente, altresì alla rilevanza del ruolo (Cass., n. 14496 del 2005 e Cass. n. 8589 del 2004).
Al riguardo merita rilevare che il divieto di variazione peggiorativa, in violazione dell'art. 2103 c.c., comporta che al prestatore di lavoro non possano essere affidate, anche se soltanto secondo un criterio di equivalenza formale, mansioni sostanzialmente inferiori a quelle in precedenza disimpegnate, dovendo il giudice di merito accertare, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti alla competenza professionale specifica del dipendente, salvaguardandone il livello professionale acquisito, e garantiscano, al contempo, lo svolgimento e l'accrescimento delle sue capacità professionali (Cass., n. 4989 del 2014 e Cass. n. 18031 del 2017).
Per quanto concerne la prova del danno, mette conto evidenziare che la Suprema Corte ha statuito che “l'assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale. Innanzitutto l'adempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell'impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali (tra le altre v. Cass. n. 11045 del 2004; Cass. n. 14199 del 2009).
Inoltre la modifica in peius delle mansioni è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di un danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti”.
In particolare, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità dell'esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19778 del 2014; Cass. n. 4652 del 2009; Cass. n. 28274 del 2008; Cass. sez. un., n. 6572 del 2006, cit; Cass., n. 330 del 2018).
Alla luce di tale pronuncia, il Tribunale evidenzia che la Suprema Corte, pur escludendo la derivazione automatica del danno dal solo fatto del demansionamento, ha tuttavia chiarito che la prova del danno, che comunque spetta al lavoratore che chieda il relativo risarcimento, può consistere in presunzioni circa la natura, entità e durata della dequalificazione, nonché circostanze del caso concreto, secondo un principio ormai consolidato in giurisprudenza per cui il risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale derivante dal demansionamento e dalla dequalificazione del lavoratore postula l'allegazione dell'esistenza del pregiudizio e delle sue caratteristiche, nonché la prova dell'esistenza del danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che, quanto al danno esistenziale, può essere fornita anche ricorrendo a presunzioni (Cass., sez. un., n. 6572 del 2006). Osservazioni
In conclusione è interessante evidenziare come in tema di danno alla professionalità ed all'immagine derivante dalla significatività della dequalificazione, si possa richiamare l'orientamento della Suprema Corte, la quale ha precisato che “il danno esistenziale […] deve essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno e all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) […] si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno” (Cass., sez. lav., n. 19785 del 2010).
Con riferimento all'accertamento ed alla valutazione di fatto circa la concreta sussistenza e individuazione della specie del danno, e quanto alla liquidazione, la Cassazione ha osservato che nel caso di danno non patrimoniale “- per non avere il bene persona un prezzo – del diritto leso, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa, anche attraverso il ricorso alla prova presuntiva, che potrà costituire pure l'unica fonte di convincimento del giudice (Cass., sez. un., n. 26972 del 2008).
Invero, i criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, devono consentire una valutazione che sia adeguata e proporzionata (Cass. n. 12408 del 2011), in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del risarcimento (Cass., sez. un., n. 26972 del 2008; Cass. n. 7740 del 2007 e Cass. n. 13546 del 2006).
Guida all'approfondimento
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