La dibattuta questione sul salario minimo: retribuzione di diritto oppure diritto alla retribuzione?
21 Febbraio 2020
Abstract
Si è aperto il confronto sull'introduzione del salario minimo orario stabilito per legge, a seguito della presentazione di alcuni disegni di legge (presentati da varie forze politiche), che si pone come obiettivo l'eliminazione delle diversità di trattamento economico tra i vari settori merceologici e – al contempo – garantire che la retribuzione sia effettivamente equa. Molte le critiche, che provengono dagli esperti del settore, dalla dottrina più autorevole e da chi, evidentemente, non considera la retribuzione legale uno strumento adatto all'ordinamento giuridico italiano, ponendo l'attenzione sui rischi che ne deriverebbero anche in termini di validità della contrattazione collettiva nazionale. La retribuzione equa ed il minimo tabellare
Il dibattito sul salario minimo legale, inteso come un valore orario fisso prestabilito per legge, ha radici molto remote nell'ordinamento giuridico italiano.
Innanzitutto, l'articolo 36 della Costituzione è la fonte primaria attorno al quale ruota ogni considerazione in materia. Si legge, dunque, che: "Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi”.
Il principio di diritto, sotteso alla norma costituzionale richiamata, è la tutela della lavoratore e della dignità del lavoro stesso, attraverso il riconoscimento di una retribuzione che rispetti i canoni di proporzionalità relativamente alla quantità ed alla qualità del lavoro che viene effettivamente svolto; nella prassi quotidiana dei Tribunali, questo si tramuta nelle controversie aventi ad oggetto l'accertamento del corretto inquadramento del lavoratore, o del diritto al risarcimento del danno in caso di demansionamento, oltre alla richiesta di pagamento delle differenze retributive che possono derivare da un diverso orario di lavoro osservato oppure, più semplicemente, dal conseguente diritto al superiore inquadramento.
L'appendice giurisprudenza aiuta nel verificare alcuni casi esemplificativi.
L'aspetto più complesso, figlio anche della mancata attuazione dell'articolo 39 della Costituzione – ovvero le modalità di registrazione dei sindacati e l'inevitabile difetto di validità erga omnes dei contratti collettivi – è sempre stato quello di capire quale fosse il contratto collettivo correttamente applicato e quale fosse il parametro di riferimento affinché la retribuzione potesse essere considerata davvero proporzionata e sufficiente. Il dibattito sul salario minimo, quindi, appare essere inserito molto indietro nel tempo, fin dalla c.d. legge Vigorelli n. 741/1959, con la quale vennero introdotte norme transitorie di determinazione di minimi inderogabili di trattamento economico-normativo: questione poi dibattuta in sede di Corte Costituzionale che fu chiamata a pronunciarsi ripetutamente, dichiarando l'illegittimità dell'estensione erga omnes della parte c.d. obbligatoria dei CCNL, che invece poteva trovare applicazione solo inter partes. In un secondo momento, con la nota sentenza n. 156 del 1971, la Corte costituzionale dichiarò l'illegittimità, per violazione dell'art. 36, Cost., dell'art. 7, l. n. 741 del 1959, in base al quale i trattamenti previsti dai decreti legislativi di recepimento dei CCNL restavano in vigore anche dopo la scadenza o il rinnovo degli accordi collettivi che recepivano.
In quella sede, la Corte costituzionale enunciò un principio molto chiaro secondo il quale, anche in presenza di un minimo salariare di origine “legale”, il Giudice del lavoro resterebbe comunque libero di determinare – secondo il proprio prudente apprezzamento – quale sia la retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell'art. 36, Cost., tenendo conto delle mutate esigenze della società che (evidentemente) non potrebbe essere colte da una legge cristallizzata in un determinato momento storico.
Negli anni, la stratificazione della giurisprudenza in materia di controversie aventi ad oggetto la corretta determinazione della retribuzione, ha dato il giusto riconoscimento ai minimi tabellari previsti nel contratto collettivo applicato da parte dell'azienda oppure, in mancanza, del contratto collettivo diverso ma comunque utile come criterio di raffronto per il settore merceologico in cui opera il lavoratore; il Giudice del lavoro, quindi, mancando la validità erga omnes della contrattazione collettiva, si atterrà unicamente ai minimi tabellari stabiliti da parte del c.c.n.l. di settore applicato da parte dell'azienda o, in subordine, ad altro comunque affine e che funga d parametro di valutazione.
Chiaramente, questa enorme attività di interpretazione, ha suscitato un lungo confronto sia in dottrina che in giurisprudenza, da cui è scaturita l'ipotesi di introdurre un salario minimo orario il cui valore venisse prestabilito per legge, ovvero a prescindere dal contratto collettivo di riferimento. Le riflessioni sul punto possono sintetizzarsi nella ricerca di un criterio univoco per l'individuazione della corretta retribuzione spettante al lavoratore: tuttavia, come si avrà modo di evidenziare, i ddl in esame appaiono non adatti alla risoluzione del problema. I disegni di legge attualmente in discussione
Sinteticamente, i disegni di legge in discussione sono 3 di cui i primi due, comunicati a pochi mesi distanza, vanno letti in combinato tra loro, mentre il terzo se ne distanzia e introduce ulteriori elementi legati alla rappresentanza sindacale.
Il primo disegno di legge per l'istituzione del salario minimo orario è il DDL Laus del 3 maggio 2018 il quale prevede, all'articolo 2, un valore orario di Euro 9,00 netti dovuti al lavoratore ed incrementato ogni 1° gennaio – di anno in anno – in base alla variazione dell'indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati definito dall'Istituto Nazionale di Statistica. In aggiunta, all'art. 5 viene prevista una sanzione da Euro 5.000 a Euro 15.000 in caso di violazioni rispetto a tale minimo orario.
Il secondo disegno di legge è il DDL Catalfo che affronta in premessa il tema relativo alla mancata attuazione dell'art. 39 della Costituzione ed enuncia i punti fondamentali posti alla base del progetto, ovvero: i) definizione certa e uguale per tutti i rapporti di lavoro subordinati, cogente, del trattamento economico che integra la previsione costituzionale della retribuzione proporzionata e sufficiente; ii) garanzia dell'applicazione del contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative; iii) garanzia dell'adeguatezza nel tempo del trattamento economico complessivo che costituisce retribuzione proporzionata e sufficiente. In questo caso, le parti che interessano sono essenzialmente due soli articolo, ovvero l'art. 2, ove viene prevista la paga oraria fissa pari a euro 9,00 lorde e la previsione che la stessa sia applicata anche ai co.co.co., e l'art. 3 per il quale in presenza di più C.c.n.l. applicabili si dovrà fare riferimento a quelli sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi a livello nazionale nella categoria di riferimento, individuati secondo il criterio associativi ed elettorale di cui al T.U. rappresentanza recato dall'accordo del 10 gennaio 2014 tra Confindustria e CGIL, CISL, UIL.
Il terzo disegno di legge è il DDL Laus dell'11 marzo 2019 il quale, partendo sempre dalla medesima premessa di voler superare il dumping contrattuale e garantire pari trattamento tra tutti i lavoratori, stabilisce che il riferimento per la retribuzione giusta sono i contratti collettivi nazionali stipulati dalle associazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale con validità erga omnes per tutto il territorio nazionale; inoltre, il DDL prevede l'istituzione di una commissione paritetica interna al CNEL per l'individuazione dei criteri di maggiore rappresentatività, i cui componenti sono nominati su designazione delle associazioni di rappresentanza comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Inoltre, all'art. 4 è previsto che nelle aziende con oltre 300 dipendenti è istituito un comitato consultivo – composto da lavoratori e esponenti dell'impresa – che ha potere di controllo e verifica sull'operato dell'azienda ed è titolare dei diritti di informazione e consultazione stabiliti dal d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 25. Alcune considerazioni sui ddl salario minimo
Il contenuto dei tre DDL è abbastanza equivoco e, per lo più, sembra non tenere conto delle inevitabili ricadute e implicazioni sul mercato del lavoro, sulle modalità di gestione dell'impresa e, infine ma forse soprattutto, sull'effettiva corresponsione di tale retribuzione.
In primo luogo, i primi due DDL stabiliscono un salario orario di 9 euro l'ora (netto o lordo) stracciando – ex abrupto – qualunque differenzazione tra settore merceologici, con un appiattimento verso il basso che non tiene minimamente conto delle differenti situazioni che possono essere rappresentate da aziende operanti in settore molto distanti tra loro: inoltre, ma forse questo è il motivo che suscita maggiore dubbio, la previsione di un minimo legale impatta brutalmente sui costi del lavoro, costi con i quali l'imprenditore quotidianamente si confronta e che è oggetto continuo di discussione. Dai cuochi ai saldatori, dalle guardie giurate ai barman, dagli autisti ai magazzinieri fino ai giardinieri, agli operai e agli impiegati, verrebbero tutti equiparati ad un salario minimo legale che oggi rappresenterebbe un aumento del costo lavoro: un barman, per esempio, ha una retribuzione media oraria di Euro 8,77 mentre una guarda giurata di euro 8,21 e il personale di pulizia di euro 7,28 (nei pubblici esercizi) che diventano euro 7,64 nel commercio.
In questi ambiti, infatti, la variazione di pochi centesimi può rappresentare un aumento vertiginoso dei costi sostenuti da parte dell'azienda, in particolare se si tratta di realtà che operano con appalti di servizi ove la tariffa oraria è stabilita dal committente.
In secondo luogo, il DDL Catalfo ed il secondo DDL Laus, si inseriscono nell'annosa quaestio ovvero la mancata attuazione della seconda parte dell'art. 39 della Costituzione ma, omettendo di risolverla, cercano di aggirarne il cuneo stabilendo criteri di rappresentatività poco convincenti. Il richiamo a criteri di rappresentanza è finalizzato, unicamente, al superamento degli oltre 600 contratti collettivi stipulati da sigle sindacali minori, ma non viene seriamente affrontata la questione della rappresentanza, liquidata semplicemente con criteri di maggioranza o comparazione che possono fuorviare. Commenti conclusivi
Quali rischi? L'introduzione di un salario minimo orario, di fonte legale, pone una serie di possibili e intuibili conseguenze. Sicuramente, l'aumento dei costi della retribuzione può comportare una nuova fuga verso il lavoro sommerso, nella ricerca di un abbattimento della retribuzione valida quale imponibile retributivo, con conseguente azzeramento dell'effetto voluto dai disegni di legge stessi, ovvero il pagamento di una retribuzione equa per tutti; parimenti, la previsione di una salario orario comporterà l'automatica fuga dai contratti collettivi, non più necessaria in un rapporto di lavoro che si esplicherà secondo la logica “one to one” ovvero di contrattazione individuale con il dipendente e previsione di una retribuzione minima. Infine, il persistere di un vuoto normativo circa le modalità di identificazione, registrazione e rendicontazione delle sigle sindacali, ed il conseguente permanere dei dubbi interpretativi sui contratti collettivi e sui minimi tabellari ivi previsti. |