Compensi avvocato per più gradi o fasi del giudizio: è competente il giudice di merito che ha deciso per ultimo la causa
09 Marzo 2020
Massima
Ove un avvocato abbia scelto di agire ex art. 28 della legge 13 giugno 1942, n. 794, come modificato dalla lett. a) del comma 16 dell'art. 34 del d.lgs. 1° settembre 2011, n. 150, nei confronti del proprio cliente, proponendo l'azione prevista dall'art. 14 del d.lgs. n. 150/2011 e chiedendo la condanna del cliente al pagamento dei compensi per l'opera prestata in più gradi e/o fasi del giudizio, la competenza è dell'ufficio giudiziario di merito che ha deciso per ultimo la causa. Il caso
Proposta da un avvocato domanda di liquidazione dei compensi professionali, il tribunale adito dichiarava con ordinanza la propria incompetenza, assumendo che, poiché la domanda aveva ad oggetto la richiesta di compensi per l'attività professionale svolta in più gradi di giudizio, quest'ultima andava proposta al giudice di secondo grado, essendo solo questi in condizione di valutare l'intera attività svolta e di liquidare il compenso nella misura più adeguata. Avverso il provvedimento veniva proposto regolamento di competenza, assumendosi che i criteri di competenza per le controversie relative alla liquidazione dei compensi dovessero ricercarsi esclusivamente sulla base del coordinamento tra l'art. 14, comma 2, d.lgs. 150/2011 e l'art. 637 c.p.c. Il Collegio adito, ritenuta la questione di particolare importanza, rimetteva gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. La questione
Viene chiesto alle Sezioni Unite di stabilire se i criteri di competenza per le controversie relative alla liquidazione del compenso dei professionisti vadano ricercate esclusivamente sulla base degli artt.14,comma 2, d.lgs. n. 150/2011 e 637 c.p.c., lasciando all'attore la scelta di proporre più domande autonome, o se sia possibile individuare quale foro ulteriore quello del giudice che ha conosciuto per ultimo la controversia. Le soluzioni giuridiche
Le Sezioni Unite rigettano il ricorso per regolamento di competenza. Osservano che la peculiare struttura del procedimento di liquidazione del compenso degli onorari degli avvocati, caratterizzato dalla particolare snellezza e celerità condiziona anche l'individuazione del giudice competente, «la cui fisionomia non è stata modificata dal d.lgs. n. 150/2011 né poteva esserlo, visto che la finalità del decreto era solo quella della riduzione e semplificazione dei riti civili». Pertanto, l'art. 14, comma 2, del decreto citato che assegna all'«ufficio giudiziario di merito adito per il processo nel quale l'avvocato ha prestato la propria opera» la competenza a decidere la causa, nell'usare al singolare i termini “ufficio” e “processo” lascia intendere che se l'opera è stata prestata in più gradi del processo sia possibile proporre un'unica domanda all'ufficio che ha per ultimo definito la causa dalla quale traggono origine i compensi professionali. Tale soluzione, oltre a porsi come quella più coerente dal punto di vista interpretativo, è quella maggiormente persuasiva sia dal punto di vista pratico che sistematico. Sotto il primo profilo, infatti, «il giudice che decide la causa nel grado superiore ha una migliore visione d'insieme dell'opera prestata dall'avvocato». Dal punto di vista sistematico, la soluzione prescelta è quella che meglio risponde alle esigenze di economia processuale, in linea con i principi del giusto processo. Difatti, alla possibilità, nell'anzidetta ipotesi, di rivolgersi con un'unica domanda cumulativa al giudice del merito che abbia conosciuto per ultimo della controversia – originariamente configurata come ampiamente facoltativa – deve essere oggi attribuita una configurazione adeguata ai suddetti principi del giusto processo, la cui applicazione comporta che, per assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., in coerenza con l'art. 6 della CEDU, devono essere evitati i frazionamenti di tutela processuale per la medesima vicenda. Pertanto, poiché occorre dare una risposta, possibilmente celere, alla domanda di giustizia proposta, con una decisione di merito che sia esauriente, la proposizione da parte dell'avvocato di distinte domande davanti a ciascuno degli uffici di espletamento delle prestazioni professionali senza far luogo al cumulo è da considerare meramente residuale ed è una strada percorribile soltanto se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata del credito.
Osservazioni
La tesi seguita dalla giurisprudenza dominante e dalla pronuncia in esame, in ordine all'individuazione del giudice competente a decidere la domanda di liquidazione del compenso chiesta dall'avvocato, è assolutamente condivisibile. Come ricordato dalla decisione in commento, sotto il vigore dell'art. 28 della legge 13 giugno 1942, n. 794 era stabilito che l'avvocato, per ottenere la liquidazione dei propri compensi, dovesse proporre ricorso al capo dell'ufficio giudiziario adito per il processo laddove non intendesse utilizzare il procedimento monitorio. Tale competenza aveva carattere funzionale, allo scopo di far sì che fosse sempre il giudice che aveva trattato la causa a decidere anche la controversia relativa ai compensi che dal processo traevano origine. L'art. 29 della l. n. 794/1942, infatti, aveva cura di precisare all'ultimo comma che «le disposizioni di cui ai commi precedenti si osservano, in quanto applicabili, davanti al conciliatore dal pretore, quando essi sono rispettivamente competenti a norma dell'articolo 28». La ratio della norma era evidente: laddove fosse competente per la causa del merito il giudice monocratico (pretore o conciliatore), spettava a quest'ultimo la competenza a decidere sulla domanda relativa al pagamento dei compensi, in quanto ritenuto il giudice più idoneo a risolvere le liti tra il professionista e il cliente. Tale interpretazione, peraltro, riceveva una indiretta conferma dalla Relazione Ministeriale alla legge n. 794/1942 (in Le leggi, 1942, 721), ove si legge che il procedimento regolato dagli articoli 28 e seguenti è da intendersi quale «procedimento sollecito di determinazione degli onorari, atto a troncare od eliminare liti tra professionisti e clienti, liti particolarmente delicate per la categoria professionale». Parte della dottrina osservava che tale competenza funzionale e inderogabile operasse in riferimento non all'ufficio, ma alla persona del titolare di questo (così Ebner, Spese, onorari e diritti di avvocato e procuratore, in Ebner-Filadoro, Manuale del procedimento di ingiunzione, Milano, 1990, 207; in giurisprudenza per la soluzione per cui la domanda doveva essere proposta al capo dell'ufficio giudiziario, v. Cass. civ., 14 aprile 1983, n. 2613; Cass. civ., 6 marzo 1991, n. 2347; Cass. civ., 24 marzo 1992, n. 3620; Cass. civ., 27 gennaio 1995, n. 993; Cass. civ., 12 settembre 1995, n. 9628; Cass. civ., Sez. Un. 23 marzo 1999, n. 182; Cass. civ., 23 ottobre 2001, n. 13001; Cass. civ., 16 luglio 2002, n. 10293; Cass. civ., 6 dicembre 2013, n. 27402). Sennonché, come rilevato dalla decisione in commento, in giurisprudenza da sempre prevale l'idea che sia possibile per l'avvocato che intenda tutelare il proprio diritto al pagamento dei compensi professionali proporre una domanda unica al giudice che abbia conosciuto per ultimo la controversia da cui scaturisce il diritto agli onorari, in virtù della considerazione che tale giudice soltanto sia in grado «di valutare le prestazioni professionali inerenti all'intero procedimento, dovendo per compito istituzionale seguire, ai fini della decisione richiestagli, lo svolgersi delle attività processuali dall'atto introduttivo della lite al momento in cui il professionista ha proposto il ricorso di liquidazione in oggetto» (vedi per tutte: Cass. civ., 10 luglio 1987, n. 6033). Tali considerazioni possono essere vieppiù ripetute dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 150/2011. In primo luogo, funzione del procedimento era (ed è tuttora) quella di permettere una rapida e celere definizione della lite, senza che ciò possa pregiudicare il diritto di azione e di effettività della tutela giurisdizionale dell'avvocato; è dunque scelta avveduta e più che condivisibile assegnare la cognizione della controversia allo stesso giudice che ha definito la causa dal quale è sorta la lite in ordine al pagamento dei compensi al professionista. Secondariamente, le Sezioni Unite, con la sentenza 23 febbraio 2018, n. 4485, hanno sancito il “principio dell'invarianza della competenza”: secondo la decisione citata, poiché l'art. 54, 4° comma, della legge delega n. 69/2009 aveva imposto, come criterio direttivo di esercizio della delega, che dovessero restare «fermi i criteri di competenza, nonché i criteri di composizione dell'organo giudicante, previsti dalla legislazione vigente», deve escludersi che il d.lgs. 150/2011 attuativo della delega, sebbene abbia modellato un diverso rito per la risoluzione delle liti tra avvocati e loro clienti, sia stato in grado di modificare i preesistenti criteri di competenza. Pertanto, nonostante sia ormai indiscutibile che dopo la modifica dell'art. 28, l. 794/1942 ad opera dell'art. 14 del d.lgs. 150/2011 l'avvocato che intenda instare per il pagamento dei propri compensi professionali debba avvalersi esclusivamente del rito sommario di cognizione cd. necessario o in alternativa del procedimento monitorio, con esclusione dunque sia del rito ordinario che di quello sommario c.d. codicistico di cui agli artt. 702 bis e seguenti c.p.c. (sul punto v. Farina, Il giudizio sui compensi degli avvocati (prima e dopo le Sezioni Unite) e l'impugnazione del provvedimento di primo grado, in www.giustiziacivile.com), l'esclusione della possibilità di avvalersi di questi riti non ha determinato effetti sulla competenza. Per le Sezioni Unite del 2018, infatti, escludere la possibilità di esercitare l'azione con le forme del procedimento di cognizione, sia sommario ex artt. 702 bis ss. c.p.c., sia ordinario, non è in contraddizione con il criterio della cd. «invarianza della competenza»: difatti, escludere la possibilità di agire con il rito ordinario a cognizione piena non determina la soppressione di alcun criterio di competenza previgente, perché la competenza in base alla quale poteva agirsi in via ordinaria era la stessa prevista (ai sensi dell'art. 637 c.p.c., 1° comma) per la possibilità di agire con le forme del ricorso monitorio, per cui, «negare la possibilità di utilizzare il rito della cognizione piena determina soltanto la soppressione di una regola inerente ad uno dei riti esperibili prima della riforma, ma non di una regola di competenza, atteso che essa, sebbene tramite il rito monitorio, permane immutata»; inoltre, escludere la possibilità di agire con il rito sommario di cognizione c.d. codicistico, non implica alcuna soppressione di una regola di competenza, in quanto le cause che si sarebbero potute introdurre con quel rito sono deducibili, nell'assetto delineato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 4485/2018, davanti al tribunale in composizione monocratica ancora una volta con il rito monitorio, per cui nessuna soppressione di competenza vi sarebbe, ma solo quella di un rito prima praticabile. Pertanto, resta ferma l'interpretazione già in passato fornita dalla stessa Corte di cassazione in ordine all'individuazione dei criteri di competenza utilizzabili per la proposizione della domanda di cui all'art. 28 della l. 794/1942; come espressamente affermato dalla decisione in commento, «la snellezza e la tendenziale celerità del procedimento, unitamente con la tutela delle garanzie defensionali, condizionano, pertanto, anche l'individuazione del giudice competente, al pari delle molteplici peculiarità dell'istituto, la cui fisionomia non è stata modificata dal d.lgs. n. 150 del 2011 né poteva esserlo, visto che la finalità del decreto era solo quella della riduzione e semplificazione dei riti civili» (p. 18 della decisione in commento). Ma la decisione non si limita a ribadire quanto già affermato dai precedenti della Corte, ma offre un ulteriore argomento solido e pienamente condivisibile alla tesi per cui competente a decidere la controversia in materia di liquidazione dei compensi è sempre il giudice che ha deciso per ultimo il processo di merito; osserva la S.C. che l'applicazione dei principi del giusto processo comporta che, «per assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., in coerenza con l'art. 6 della CEDU, devono essere evitati i frazionamenti di tutela processuale per la medesima vicenda e comunque si deve dare una risposta, possibilmente celere, alla domanda di giustizia proposta, con una decisione di merito che sia esauriente». Tali considerazioni costituiscono la giusta applicazione alla fattispecie in esame di principi più volte affermati dalla Cassazione nell'ultimo decennio, costituendo ormai regola indiscutibile quella per cui in tanto è possibile in separati giudizi più domande facenti capo al medesimo rapporto obbligatorio, se ed in quanto le azioni in questione abbiano ad oggetto crediti distinti, anche se relativi al medesimo rapporto di durata tra le parti; ove però siffatti crediti siano iscrivibili nel medesimo ambito obiettivo di un possibile giudicato, o comunque fondati sul medesimo fatto costitutivo, le relative domande potranno essere proposte in separati giudizi solo se risulterà, in capo alla parte attrice, un interesse oggettivamente valutabile alla tutela frazionata del credito (v. Cass. civ., 16 febbraio 2017, n. 4090).
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