La variabile culturale in ambito penale tra scelte politico-criminali e orientamenti giurisprudenziali

15 Aprile 2020

La correlazione esistente tra le norme penali ed il sentire della società che le produce implica che, ove venga meno l'uniformità etnica di un Paese ed in esso si trovino a convivere diverse culture, quelle di minoranza possano essere portatrici di valori diversi, e finanche in contrasto, con quelli della cultura dominante.
Abstract

La correlazione esistente tra le norme penali ed il sentire della società che le produce implica che, ove venga meno l'uniformità etnica di un Paese ed in esso si trovino a convivere diverse culture, quelle di minoranza possano essere portatrici di valori diversi, e finanche in contrasto, con quelli della cultura dominante. Ma quale rilevanza può assumere la variabile culturale sul giudizio in ordine alla sussistenza di un reato ed alla colpevolezza del reo? Può essere idonea ad escludere l'elemento oggettivo del reato, ovvero ad incidere sul dolo o, infine, ad integrare un elemento circostanziale? L'articolo tratteggia le posizioni della giurisprudenza sul punto, con uno sguardo particolare al ruolo del giudice.

Inquadramento generale

Il diritto penale è espressione della cultura che lo genera, atteso che l'individuazione dei beni giuridici da tutelare con sanzione penale e delle modalità della loro tutela è frutto di una scelta propria di ciascuna società. Per tale ragione si è sostenuto che il diritto penale è caratterizzato da “localismo” e da “non-neutralità culturale”.

La valutazione dei beni giuridici da proteggere e del grado di tolleranza delle offese arrecate agli stessi sono variabili non solo nello spazio ma anche nel tempo, in conseguenza del mutato sentire della collettività. Per questo, ad esempio, taluni comportamenti ritenuti meritevoli di tutela in un determinato momento storico cessano di esserlo in altri, e viceversa (si pensi, ad esempio, alle norme del codice Rocco che punivano in modo assai poco severo condotte violente poste in essere a tutela dell'onore, come accadeva per il duello, o, ancora, all'istituto del “matrimonio riparatore”, di cui all'art. 544 c.p., abrogato con l. 5 agosto 1981 n. 442).

La correlazione esistente tra la norma penale ed il sentire della società che la produce implica che, ove venga meno l'uniformità etnica di un Paese ed in esso si trovino a convivere diverse culture, quelle di minoranza possano essere portatrici di valori diversi, e finanche in contrasto, con quelli della cultura dominante.

In questo senso si evidenzia comunemente che i “reati culturali” sono il portato dei massicci flussi migratori che hanno interessato il nostro Paese. Ed infatti, il nuovo carattere multiculturale della società ha reso sempre più frequenti le violazioni di norme penali da parte di individui appartenenti a gruppi minoritari e consistenti in comportamenti autorizzati, tollerati o addirittura imposti nel contesto culturale di provenienza.

Ovviamente, il contrasto tra orientamenti può verificarsi tra qualsiasi norma precettiva del Paese ospitante e le regole proprie del gruppo di minoranza, ma i casi più problematici di conflitto sono quelli che interessano il diritto penale, poiché essi coinvolgono la potestà punitiva dello Stato.

Si è, in effetti, registrato un numero crescente di procedimenti penali a carico di immigrati nel cui ambito si è discusso dell'influenza della variabile culturale nella fattispecie concreta, in quanto è stata sollecitata una estensione della cognizione processuale anche al background culturale dell'imputato, per addivenire ad una più corretta ricostruzione dei fatti e, quindi, della colpevolezza. Si tratta, ad esempio, di casi di mutilazioni genitali femminili, di ricorso alla violenza intrafamiliare come espressione di jus corrigendi, di violenze sessuali perpetrate in danno del coniuge, di violazioni dei diritti dell'infanzia, di riti di iniziazione che comportano lo sfregio del viso o del corpo.

Il fenomeno è, ovviamente, noto anche ad altri ordinamenti, che, prima dell'Italia, hanno dovuto far fronte alle questioni giuridiche poste dal carattere multietnico della società. Negli Stati Uniti, ad esempio, si è sviluppato fin dagli anni '80 il dibattito sulla cultural defense, ossia sulle condizioni alle quali la cultura di provenienza dell'autore del reato può rilevare come causa di giustificazione o come circostanza attenuante.

Il caso pilota in materia è stato quello di una donna di origine giapponese la quale, in nome di una antica pratica (oyako- shinju: parent-child suicide), avvedutasi del tradimento del marito, aveva tentato di suicidarsi insieme ai propri figli. Salvata dai soccorritori, è stata tratta a giudizio per omicidio volontario dei figli; la difesa, accanto all'insanity defense, ha valorizzato il fattore culturale come concausa dello stress emotivo che l'aveva determinata a delinquere (caso People v. Kimura, No. A-09113 - L.A. Sup. Ct., 1985).

L'approccio politico-criminale

La Corte di Cassazione ha definito i reati culturali come il frutto di un conflitto normativo “suggestivamente espresso con il termine di “interlegalità” intesa come condizione di chi, dovendo operare una scelta, è costretto a fare riferimento ad un quadro articolato di norme, contemporaneamente vigenti ed interagenti tra sistemi giuridici diversi” (così Cass. Pen., Sez. 6, 26.11.2008, n. 46300).

Da un punto di vista astratto, l'innesto di valori difformi da quelli del tessuto culturale proprio del Paese ospitante può essere affrontato tanto in un'ottica di assimilazione quanto in una prospettiva di integrazione.

La prima implica la sostanziale rinuncia da parte dello straniero alla propria matrice culturale, in nome di una formale uguaglianza di tutti i consociati innanzi alla legge; la seconda, invece, ammette la coesistenza di culture e valori diversi, con eguali diritti e riconoscimento.

Sebbene nessun sistema giuridico abbia adottato in via esclusiva uno dei due modelli, atteso che l'uno e l'altro approccio sono spesso presenti all'interno del medesimo ordinamento e dipendono da scelte mutevoli del gruppo politico al potere, in linea tendenziale la dottrina sottolinea come la logica assimilazionista sia propria dell'esperienza francese mentre quella di integrazione sia da ricondurre all'esperienza inglese.

Secondo parte della dottrina l'ordinamento italiano sarebbe improntato ad una logica decisamente assimilazionista, mentre secondo la corrente maggioritaria sono in esso rinvenibili norme di entrambe le categorie. Così, l'introduzione dell'aggravante di cui all'art. 3, comma 1, del d. l. n. 122 del 1993, conv. in l. n. 205 del 1993, della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso è comunemente considerata espressione di una tendenza volta all'integrazione, mentre è da inserire nel solco dell'assimilazione, ad esempio, l'introduzione dell'art. 583 bis cod. pen., che punisce la pratica di infibulazione come reato autonomo con un notevole inasprimento dell'apparato sanzionatorio rispetto alle norme generali in materia di lesioni, laddove il disvalore aggiunto sarebbe ascrivibile alla motivazione culturale del fatto.

Ma, in realtà, al di là dell'approccio legislativo, spesso non coerente, ciò che la dottrina sottolinea è la centralità del ruolo del giudice, il quale è chiamato ad una interpretazione culturalmente sensibile di istituti già esistenti nel diritto positivo. Ci si riferisce, in particolare, a una serie di norme contenenti elementi normativi “culturali”, ossia suscettibili di interpretazioni diverse a seconda del contesto culturale di riferimento (vanno considerati, ad esempio, i concetti di “pudore”, di “decoro”, di “onore”, di “atti sessuali”). Ebbene in tutti questi casi si pone al giudice il problema centrale di stabilire se i valori in esame siano solo quelli propri della cultura “comune” oppure se, ed eventualmente in che misura, possano assumere rilevanza anche valori di minoranze culturali.

Ed ancora, spetta sempre al giudice stabilire quale ampiezza debba essere data alla nozione di “cultura”, ossia se essa possa ricomprendere l'appartenenza a qualunque gruppo minoritario (di carattere politico, religioso o sessuale, ad esempio) oppure se debba essere ristretta solo all'appartenenza ad una determinata etnia o minoranza nazionale.

Negli, oramai numerosi, processi penali in cui il tema si è posto, la cd. variabile culturale è stata fatta valere di volta in volta come causa di giustificazione, come causa di esclusione della colpevolezza, come circostanza del reato o, ancora, come elemento per valutare l'attendibilità di un dichiarante o, infine, come elemento da considerare ai fini della determinazione della pena da applicare in concreto. Sotto questo ultimo profilo, però, essa non pare avere assunto spazi autonomi di rilevanza, andando piuttosto ad aggiungersi al multiforme quadro delle variabili apprestate dall'art. 133 c.p. in punto di adeguatezza e personalizzazione del trattamento sanzionatorio (rientrando nella capacità a delinquere tanto i “motivi a delinquere” che le “condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo”).

Si analizzeranno di seguito le posizioni della giurisprudenza, distinguendole a seconda che esse abbiano avuto ad oggetto l'elemento oggettivo, l'elemento soggettivo o le circostanze del reato.

Le posizioni della giurisprudenza: la rilevanza della variabile culturale sull'elemento oggettivo del reato

È stata, innanzi tutto, ipotizzata la rilevanza della variabile culturale come scriminante, quantunque putativa.

In particolare, è stato sostenuto che taluni comportamenti violenti fossero giustificati in quanto costituenti, dal punto di vista dell'imputato, esercizio di un diritto (artt. 51- 59 c.p.).

Tale opzione ermeneutica, però, è stata ritenuta non praticabile in una serie di arresti della Corte di Cassazione.

Ad esempio, con sentenza n. 14960 del 29 gennaio 2015, la terza sezione della Corte di Cassazione ha respinto la prospettazione della difesa che, in un caso di maltrattamenti e di violenza sessuale posti in essere da un cittadino marocchino nei confronti della moglie, aveva sostenuto che, al fine di evitare che l'eguaglianza di trattamento si trasformasse in trattamento diseguale se applicato a stranieri, costretti a sottomettersi a costumi da loro non conosciuti e spesso contrari alle loro abitudini, si sarebbe dovuta riconoscere l'esistenza di una scriminante erroneamente supposta, atteso che i comportamenti posti in essere erano tollerati nel paese di origine.

Al riguardo la Corte ha perentoriamente affermato che “in una società multietnica non è concepibile la scomposizione dell'ordinamento in altrettanti statuti individuali quante sono le etnie che la compongono, non essendo compatibile con l'unicità della tessuto sociale – e quindi con l'unicità dell'ordinamento giuridico – l'ipotesi della convivenza in un unico contesto civile di culture tra loro configgenti”. Pertanto, al fine di assicurare a tutti i cittadini pari dignità sociale e posizione di uguaglianza nei confronti della legge, senza distinzione, in particolare, di sesso, di razza, di lingua, di religione, ha ritenuto che sia essenziale per la sopravvivenza della società multietnica l'obbligo giuridico di chiunque vi si inserisce di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e, quindi, la liceità di essi in relazione all'ordinamento giuridico che la disciplina. Di conseguenza, non è stato attribuito alcun rilievo all'erroneo convincimento di avere il diritto – non riconosciuto da alcuna norma di diritto internazionale – di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e quindi lecite secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole dell'ordinamento giuridico italiano.

In conclusione, quindi, non è stata ritenuta configurabile la scriminante di cui all'art. 51 c.p., anche solo putativa, laddove il preteso diritto sia escluso in linea di principio dall'ordinamento italiano (nello stesso senso, tra le altre, Cass. Pen, Sez. 6, 26 aprile 2011, n. 26153).

Sotto altro profilo, si è valorizzato il fattore culturale ponendolo a fondamento della scriminante di cui all'art. 50 c.p.

Di recente, nel caso oggetto della sentenza n. 24594/2018 (Cass. Pen., Sez. III, 22 febbraio 2018), la difesa dell'imputato, condannato per maltrattamenti in famiglia e lesioni nei confronti della moglie, ha sostenuto che, poiché sia costui che la persona offesa avevano un concetto della convivenza familiare e delle potestà spettanti al marito diverso da quello corrente in Italia, si potesse configurare una sorta di consenso dell'avente diritto rilevante, appunto, ex art. 50 cod.pen., come scriminante.

La Corte ha decisamente respinto questa prospettazione, richiamando una valutazione espressa con un arresto risalente “ma di assoluta condivisibilità” (Sez. VI, 20 ottobre 1999 n. 3398) secondo cui il reato di maltrattamenti in famiglia non può essere scriminato dal consenso dell'avente diritto, sia pure affermato sulla base di opzioni culturali relative ad ordinamenti diversi da quello italiano. Ove esistenti, infatti, tali opzioni si porrebbero in netto contrasto con i principi costituzionali dettati dall'art. 2, attinenti alla garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo, dall'art. 3, relativi alla pari dignità sociale ed alla eguaglianza senza distinzione di sesso, dagli artt. 29 e 30, concernenti i diritti della famiglia e i doveri verso i figli.

In quest'ottica si è affermato che non possono trovare spazio nella valutazione della condotta criminosa eventuali giustificazioni dedotte in nome di diversità culturali che porterebbero alla violazione dei principi di obbligatorietà della legge penale (art. 3 cod. pen.) e di territorialità della stessa (art. 6 cod. pen.) nonché all'affievolimento della tutela di diritti assoluti ed inviolabili (nello stesso senso Cass. Pen. Sez. 3, 05.06.2015, n. 37364).

La variabile culturale, poi, è stata fatta valere come fondamento di una presunta scriminante atipica, nel caso oggetto della sentenza n. 8210/2018 (Cass. Pen., Sez. I, 25 maggio 2018). Dei cittadini egiziani -condannati, tra l'altro, per sequestro di persona a scopo di estorsione, lesioni e rapina- avevano dedotto, in sede di ricorso per cassazione, che non era stata adeguatamente considerata “l'esimente culturale”, atteso che gli imputati provenivano da un contesto in cui è normale farsi giustizia da sé (era stato rilevato, in particolare, che in Egitto è consuetudine rivolgersi ad un consiglio locale per dirimere i contrasti interpersonali e che l'azione criminosa nel caso concreto sarebbe stata determinata dal convincimento di ripristinare la legalità, a seguito del rifiuto della vittima di devolvere a detto consiglio la controversia insorta con uno degli imputati).

La Corte, premesso che nel caso di specie non era stata neppure provata l'esistenza della consuetudine richiamata nella cultura del gruppo etnico di riferimento degli imputati, ha ribadito il consolidato orientamento in materia ed ha escluso ogni rilevanza scriminante di comportamenti indotti da fattori culturali o ideologici confliggenti con i valori fondamentali e inderogabili dell'ordinamento, tra i quali è ricompreso anche il rispetto delle norme penali ispirate alla tutela delle vittime.

Infine, e per rimanere all'elemento oggettivo del reato, va segnalato il caso oggetto della sentenza n. 24084 del 2017 della Corte di Cassazione, in cui il credo religioso della minoranza sikh era stato addotto dalla difesa come “giustificato motivo” idoneo, appunto, a giustificare il porto in luogo pubblico di un coltello (Kirpan) e, quindi, ad escludere la sussistenza del reato di cui all'art. 4 l. n. 110/1975.

Ebbene la Corte, rilevato che limite invalicabile al pluralismo sociale è il rispetto non solo dei diritti ma anche della “civiltà giuridica della società ospitante”, ha evidenziato che tra i beni oggetto di irrinunciabile tutela deve essere annoverata la sicurezza pubblica. Dunque, nel caso in esame, a differenza di quanto accaduto nelle altre pronunce fino ad ora considerate -relative tutte a diritti fondamentali dei singoli-, è stato ritenuto preminente rispetto alla libertà di culto un bene collettivo, la «sicurezza pubblica», il quale, peraltro, veniva esposto solo a pericolo dalla condotta incriminata.

Né, secondo la Corte, viene in tal modo posto alcun ingiustificato limite alla libertà di religione, atteso che lo stesso costituente ha previsto, all'art. 19, una serie di limitazioni a tale libertà (tutte compendiate nella formula “ordine pubblico”).

Le posizioni della giurisprudenza: la rilevanza della variabile culturale sull'elemento soggettivo del reato

Sotto altro profilo, è stato sostenuto che abitudini antropologiche e tradizioni culturali possono essere idonee ad escludere la consapevolezza del disvalore della propria condotta. Si è, cioè, postulata l'esclusione del dolo nel caso in cui l'autore del fatto agisca in base agli imperativi della cultura d'origine, nella quale non è percepita l'idoneità lesiva di talune condotte e, quindi, la loro potenziale contrarietà alle norme giuridiche dell'ordinamento italiano.

Sul punto la giurisprudenza costante sottolinea che nessun sistema penale potrà mai abdicare alla punizione di fatti che colpiscano o che mettano in pericolo i beni di maggiore rilevanza, come i diritti inviolabili dell'uomo, tutelati dalle fattispecie penali.

Così, i principi fondamentali della garanzia dei diritti fondamentali e di uguaglianza sono considerati come “sbarramento invalicabile” contro l'introduzione di consuetudini, prassi, regole o costumi ad essi contrari. Muovendo da tale assunto, in una pluralità di arresti la Cassazione, respingendo la prospettazione difensiva, ha sostenuto la ricorrenza del dolo, stante l'obbligo per l'imputato di conoscere, ai sensi dell'art. 5 c.p., il divieto previsto dalla legge per i comportamenti lesivi da lui posti in essere “quale che possa essere stata, per lui, la valutazione della condotta che ha voluto e realizzato, quand'anche essa sia stata ritenuta innocua, oppure socialmente utile e non riprovevole (così Cass. Pen., Sez. VI, 26.11.2008, n. 46300, che ha sottolineato come il concetto che l'imputato, cittadino marocchino di religione musulmana, aveva della convivenza familiare e delle potestà anche maritali a lui spettanti come capo-famiglia, fosse in assoluto contrasto con le norme cardine dell'ordinamento giuridico italiano, e segnatamente i principi costituzionali dettati dagli artt. 2 e 3 Cost.).

Tale tesi è stata meglio connotata da un recente arresto della Corte (Cass. Pen., Sez. III, 29 gennaio 2018, n. 29613), con cui sono stati anche specificati una serie di criteri cui potrà ispirarsi il giudice nella soluzione della vicenda concreta sottoposta al suo esame.

Il caso atteneva all'accusa di violenza sessuale formulata a carico di un cittadino albanese da tempo stabilitosi in Italia con la famiglia, il quale aveva abusato del figlio minore. Nel processo anche la madre del piccolo era imputata per non aver impedito, avendo l'obbligo di farlo, gli abusi perpetrati dal marito in danno del figlio, abusi di cui era a conoscenza.

La Cassazione, premesso che occorre promuovere un approccio esegetico che abbia in considerazione il mutamento del costume e del sentire sociale, in modo che le decisioni siano contestualizzate in relazione al momento storico, ha riconosciuto che tale operazione deve compiersi anche avendo riguardo al “fenomeno del cd. multiculturalismo, quale precipitato della integrazione dei migranti nella compagine sociale”.

Quindi, pur riproponendo la tesi dello “sbarramento invalicabile” costituito dai diritti fondamentali, ha sottolineato che la categoria dei reati culturali deve essere valutata dall'interprete solo dopo un attento bilanciamento tra il diritto, pure inviolabile, del soggetto agente a non rinnegare le proprie tradizioni culturali, religiose, sociali ed i valori offesi o posti in pericolo dalla sua condotta.

Ha, poi, precisato che, al fine della valutazione della incidenza della matrice culturale sulla consapevolezza dell'agente del disvalore della propria condotta, assume rilevanza il tipo di regola in osservanza della quale egli ha posto in essere la condotta vietata dalla norma penale (religioso o, invece, giuridico) ed il suo effettivo carattere vincolante.

Inoltre, ha individuato, come parametro rilevante nel giudizio in ordine alla consapevolezza dell'antigiuridicità della condotta, il grado inserimento dell'immigrato nel Paese ospitante, grado che, in sé, può non essere necessariamente correlato al tempo di permanenza in esso.

Pertanto, richiamando sul punto una precedente pronuncia (Cass. Pen., Sez. VI, sentenza n. 43646 del 22 giugno 2011), ha sottolineato l'irrilevanza della ignoranza della legge penale fondata sulla mera diversità rispetto ad una tradizione religiosa ed ha precisato che il criterio per l'individuazione dei parametri di valutazione del principio della scusabilità dell'ignorantia legis inevitabile, alla luce delle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 364 del 1988, non può che emergere dal raffronto tra dati oggettivi, che possono avere determinato nell'agente l'ignorantia legis circa l'illiceità del suo comportamento, e dati soggettivi attinenti alle conoscenze e alle capacità dell'agente, che avrebbero potuto consentire al medesimo di non incorrere dell'error iuris.

Così, nel caso di specie, non è stata ritenuta rilevante la dedotta ignoranza da parte degli imputati circa l'offensività della loro condotta e della norma incriminatrice, atteso che, da un lato, essi erano ben integrati nel tessuto sociale e, dall'altro, detta ignoranza non avrebbe assunto rilievo nemmeno nel Paese di origine, dove gli stessi fatti sono penalmente sanzionati.

Con una recentissima pronuncia (Sez. III, del 20 novembre 2019, n. 7590), la Corte di Cassazione ha confermato tale linea interpretativa poggiante sulla necessità di valutare il background etnico-culturale delle parti in rapporto alla condotta tenuta nel caso concreto. Nella vicenda all'esame della Corte (l'imputato, cittadino pakistano, era stato condannato, in primo ed in secondo grado, per i reati di maltrattamenti ai danni della moglie e dei figli minori, di violenza sessuale continuata nei confronti della prima, di sottrazione dei figli minori, portati con lui in Pakistan all'insaputa della madre) la difesa aveva censurato il giudizio di attendibilità della persona offesa, in considerazione del fatto che non sarebbe stata adeguatamente valorizzata la variabile culturale, ossia la circostanza che l'istanza di emancipazione della donna avrebbe potuto influire sulla decisione di denunciare il marito ed avrebbe potuto portarla ad “amplificare” i fatti, oltre che la valutazione sulla insussistenza del consenso all'atto sessuale, attese le consuetudini del Paese di origine in relazione al tipo di approccio all'atto sessuale tra persone legate da un matrimonio combinato dalla famiglia.

La Corte di Cassazione ha ritenuto che il giudice del merito avesse correttamente valutato la situazione personale della vittima, tenendo conto sia delle sue origini che del recente vissuto in Italia. Ha, quindi, evidenziato che la circostanza che la donna, dopo essersi trasferita dal Pakistan in Italia, avesse conosciuto un modo di vivere profondamente diverso da quello del Paese di provenienza ed improntato a valori di eguaglianza tra i coniugi e di reciproca solidarietà affrontando un processo psicologico di assimilazione degli stessi, con conseguente rifiuto di quelli propri del Paese di origine, non facesse venire meno, ma al massimo rafforzasse ulteriormente, la sua attendibilità.

Nell'esaminare, invece, il tema del consenso della donna ai rapporti sessuali, ha confermato che il limite al riconoscimento della diversità culturale è rappresentato dal rispetto dei diritti fondamentali, tra i quali rientra la libertà sessuale, rispetto alla quale la difesa culturale è, e deve essere, recessiva, in quanto la libertà di disporre del proprio corpo non può trovare in alcun modo limitazioni derivanti dal contesto culturale

Le posizioni della giurisprudenza: la rilevanza della variabile culturale sull'elemento circostanziale del reato

La variabile culturale, inoltre, può venire in considerazione ai fini della qualificazione dei motivi dell'agire, cui l'ordinamento connette rilevanza tanto di circostanza aggravante (art. 61, n. 1, c.p.aver agito per motivi abietti o futili”) quanto di circostanza attenuante (art. 62, n. 1, c.p.aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale”).

Entrambe le norme hanno un ambito applicativo “culturalmente variabile”. E', infatti, evidente che ciò che è riprovevole o sproporzionato (per restringere l'esame, a titolo di esempio, all'art. 61, n. 1,c.p.) in un determinato tessuto socio-culturale può non esserlo in un altro. In quest'ottica diviene, allora, cruciale il ruolo di mediatore del giudice, il quale è chiamato a farsi interprete della “cultura” applicabile al caso concreto, decidendo se essa debba essere necessariamente, e soltanto, quella della maggioranza o se possa essere anche quella minoritaria.

Particolare interesse ha suscitato il noto, e oramai risalente, caso di Hina Saleem, una ragazza di origine pakistana, trasferitasi in Italia con la famiglia, che aveva deciso di convivere con un ragazzo italiano non musulmano in contrasto con il padre, il quale, per reagire al dissenso della figlia, aiutato da alcuni parenti, l'ha uccisa e ne ha occultato il cadavere. In primo ed in secondo grado l'uomo era stato condannato con applicazione dell'aggravante dei motivi abietti (art. 61, n. 1, c.p.); nel ricorso per cassazione si era sostenuto, per escludere tale aggravante, che la sua condotta sarebbe derivata “dal profondo scoramento per non essere riuscito nel suo ruolo di educatore e dal senso di vergogna nei confronti della comunità di appartenenza”.

La Corte di Cassazione (Sez. I, 18.2.2010, n. 6587) ha respinto il ricorso, con motivazione che, però, ha riconosciuto astratto rilievo alle ragioni soggettive dell'agire in termini di “riferimenti culturali, nazionali e religiosi dell'atto criminoso”.

Pertanto, nonostante nel caso concreto il reato non sia stato ritenuto connesso alla cultura del soggetto -in quanto la motivazione dell'agire è stata individuata nella rabbia per la reiterata inosservanza del divieto paterno-, la Corte ha riconosciuto che consuetudini religiose o culturali, se adeguatamente provate, possono essere idonee ad escludere la sussistenza dell'aggravante.

Con tale pronuncia la Corte ha aderito ad un orientamento fino ad allora minoritario e contrapposto a quello, prevalente, secondo cui il parametro di riferimento per l'applicazione della circostanza in esame doveva essere costituito dal sentire “comune”, ovvero dalla coscienza “collettiva”, o, ancora dalla “media moralità”, necessariamente riferentesi alla cultura dominante.

Nello stesso senso si è pronunciata la Corte con sentenza n. 51059 del 2013 (Cass. Pen., Sez. I, 4 dicembre 2013), in un caso tentato omicidio, con le aggravanti della premeditazione e dei futili motivi, posto in essere dal padre in danno della figlia.

La difesa, premesso che i motivi dell'agire nel caso di specie dovevano essere individuati nella reazione al fatto che la figlia, ancora minorenne, si fosse fidanzata ed avesse avuto rapporti sessuali fuori dal matrimonio con persona di fede non musulmana, ha sostenuto nel ricorso per cassazione che non può essere considerato futile un motivo fondato sull'onore della famiglia e sulla violazione del precetto religioso di non avere rapporti sessuali con persona di fede diversa.

La Corte, riconosciuto che l'imputato aveva agito perché si era sentito disonorato dalla figlia, la quale aveva violato anche i precetti dell'Islam, ha ritenuto che “per quanto i motivi che hanno mosso l'imputato non siano assolutamente condivisibili nella moderna società occidentale, gli stessi non possono essere definiti futili, non potendosi definire né lieve né banale la spinta che ha mosso l'imputato ad agire”.

Di segno opposto è la pronuncia n. 11591/2015 (Cass. Pen., Sez. I, 28 ottobre 2015), relativa ad un caso di omicidio aggravato ex art. 61 n. 1 cod. pen., compiuto da appartenenti all'etnia rom per punire un soggetto che aveva intrattenuto una relazione extraconiugale con una loro familiare.

In particolare la Corte, ritenuto condivisibile il principio secondo cui la valutazione della futilità del motivo non può essere riferita a un comportamento medio ma va ancorata agli elementi concreti della fattispecie, tenendo conto anche delle connotazioni culturali dei soggetti giudicati, ha precisato che tale criterio di giudizio non può comunque giustificare la compressione della tutela inderogabile che deve essere assicurata ai principi e ai beni fondamentali riconosciuti dall'ordinamento costituzionale, rispetto ai quali nessun orientamento ideale, culturale o di costume proprio di persone, gruppi o comunità che vivono e operano all'interno della collettività generale può porsi in aperto contrasto, neppure al limitato fine di escludere la futilità del motivo che ha animato l'azione delittuosa.

In altre pronunce, invece, in condizionamento della cultura di origine è stato ritenuto idoneo a fondare l'applicazione delle attenuanti generiche.

Si tratta, ad esempio, della sentenza n. 10906/17 (Cass. Pen., Sez. VI, 15.02.2017), con cui la Corte di Cassazione, in un caso di maltrattamenti posti in essere da due genitori tunisini in danno del figlio, ha confermato la sentenza di merito che aveva applicato le attenuanti generiche, tenuto conto, da un lato, della circostanza che la cultura di origine degli imputati considerava lecite punizioni corporali illecite nel nostro ordinamento e, dall'altro, della ulteriore circostanza che detta cultura non aveva consentito loro di rendersi conto dell'inadeguatezza del loro comportamento a fronteggiare la patologia da cui era affetto il figlio (iperattività e disturbo dell'attenzione).

In conclusione

L'elemento che caratterizza la categoria dei reati culturali è il conflitto esistente tra la norma penale e la cultura di origine del soggetto agente, il quale risolve l'antinomia dando prevalenza alla seconda ed uniformando ad essa la propria condotta.

La questione di fondo diventa, allora, quella di stabilire se, ed eventualmente in quale misura, attribuire rilevanza al fattore culturale in ambito penale, attesa la difficoltà di conciliare i principi di obbligatorietà della legge penale e di territorialità della stessa con le esigenze legate all'organizzazione della vita comune in una società multiculturale.

La giurisprudenza costante, del tutto condivisibilmente, afferma che il sistema penale non può in alcun caso rinunciare, in ragione del rispetto di tradizioni culturali, religiose o sociali dello straniero, alla punizione di fatti che danneggino o mettano in pericolo beni di maggiore rilevanza, quali i diritti inviolabili della persona.

Non risulta che in questo ambito si sia mai riconosciuta l'operatività di una causa di giustificazione (artt. 50 o art. 51 c.p.), quantunque putativa, atteso che ciò richiederebbe il riconoscimento delle regole culturali di minoranza come norme giuridiche aventi rilevanza nell'ordinamento interno.

Tuttavia, nei limiti dello “sbarramento invalicabile” rappresentato dalla tutela dei diritti fondamentali, il condizionamento culturale dell'autore può essere valorizzato sul piano della colpevolezza. In particolare, la giurisprudenza più recente ha riconosciuto la necessità di valutare, alla luce dell'interpretazione dell'art. 5 c.p. offerta dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 364/1988, se l'ignoranza della norma incriminatrice, che trovi causa nelle diverse regole che hanno orientato la condotta dell'agente, fosse o meno evitabile.

A questo riguardo la Corte di Cassazione ha precisato che il giudice deve procedere ad un rigoroso bilanciamento tra il diritto, anch'esso inviolabile, dell'immigrato di non abdicare alla propria cultura ed i valori offesi dalla sua condotta. Ha, poi, dettato i criteri che il giudice deve seguire nel giudizio di bilanciamento per la soluzione del caso concreto, precisando che occorre procedere alla qualificazione della natura della norma culturale in adesione alla quale è stato commesso il reato e tenere in considerazione il grado di integrazione dell'agente.

Sotto altro profilo, il fattore culturale è stato valorizzato in quanto incidente sui motivi a delinquere, atteso che ciò che induce l'agente a tenere la condotta penalmente rilevante è proprio l'osservanza di una regola della cultura di provenienza. Ed infatti, i motivi della condotta possono assumere rilievo, quali elementi circostanziali, tanto come aggravanti (art. 61, n. 1,c.p.) quanto come attenuanti (artt. 62, n. 1, e 62-bis c.p.). In particolare, la giurisprudenza ha riconosciuto la necessità di procedere all'identificazione in concreto della natura e della valenza della ragione giustificatrice l'azione delittuosa posta in essere, senza fare ricorso ad un comportamento medio dell'uomo comune, ma tenendo conto anche delle connotazioni culturali e dei fattori ambientali.

Tuttavia, l'esame delle sentenze emesse dalla Corte di Cassazione non consente, allo stato, di individuare un orientamento univoco, atteso che, in riferimento a condotte che ledono beni primari, accanto a pronunce che annettono rilevanza a regole culturali difformi da quelle della società occidentale, vi sono arresti che riaffermano con forza che l'ordinamento non può in alcun caso tollerare una compressione della tutela dei diritti fondamentali, nemmeno al limitato fine dell'applicazione delle circostanze del reato.

Guida all'approfondimento

BASILE F., ultimissime della giurisprudenza in materia di reati culturalmente motivati, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, 2018

BASILE F., Immigrazione e reati culturalmente motivati. Il diritto penale nelle società multiculturali, Milano 2010

DE MAGLIE C., I reati culturalmente orientati. Ideologie e modelli penali, Ets, Pisa 2010

DI BLASIO M. P., La rilevanza della scriminante culturale nel sistema penale italiano, Giurisprudenza penale, 2016

GIORDANO L., La motivazione culturale della condotta può incidere sulla consapevolezza della sua illiceità penale?, Il Penalista, 2018

GRANDINETTI A, Motivi e movente, Il Penalista, 2019

HELFER, Reati culturalmente motivati, in Digesto disc. pen., 2018

In giurisprudenza:

Cass. Pen., Sez. 3, 20.11.2019, n. 7590

Cass. Pen., Sez. 1, 25.05.2018, n. 8210

Cass. Pen., Sez. 3, 22.02.2018. n. 24594

Cass. Pen., Sez. 3, 29.01.2018, n. 29613

Cass. Pen., Sez. 1, 31.03.2017, n. 24084

Cass. Pen., Sez. 3, 29.01.2015, n. 14960

Cass. Pen., Sez. 1, 28.10.2015, n. 11591

Cass. Pen., Sez. 6, 26.11.2008, n. 46300

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